Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 6 aprile 2022

Figure di spicco del collezionismo

Pigini, Menegazzi, Arienti

 

PER VITO ARIENTI NEI TAROCCHI

C’E’ ARTE, COSTUME E CIVILTA’


E’ sempre un piacere sorvolare la

storia delle carte da gioco storiche

attraverso le parole e le opere di

chi vive o ha vissuto quel mondo,

ricco di curiosità, leggende, fascino.

Le carte di Osvaldo Menegazzi


Franco Presicci

Lo conobbi una cinquantina di anni fa. Mi aveva parlato di lui un amico, sapendomi interessato agli ambienti e ai personaggi più originali e curiosi. Allora Osvaldo Menegazzi aveva lo studio a Greco, in una via tranquilla e riposante, con una scuola elementare e nessun negozio. Realizzava diorami con soldatini napoleonici di carta e quadri con conchiglie gigantesche che navigavano nello spazio fra nuvole sparse. Poi quei soldati li trasferì in mazzi di tarocchi apprezzati da tutti gli intenditori.

Osvaldo Menegazzi

Menegazzi, piacevole nelle sue battute spiritose, brillante, geniale, divertente, mi accolse sorridendo sotto la sua barba fluente, e diventammo subito amici. Un pomeriggio mi condusse ad Altare, vicino a Savona, per farmi conoscere i Bormioli, padre e figlio: il primo artista delle facce dei soldati di piombo che sagomava il figlio, che a sua volta praticava anche un’altra attività: soffiando il vetro confezionava bottiglie con le navi all’interno. Ne eseguì una alla nostra presenza, e io capii finalmente come si fa a far entrare il naviglio in quel bacino attraverso il collo: dal fondo, che sempre soffiando e foggiandosi chiude alla fine. La sera il figlio ci invitò a casa sua a mangiare un ricco piatto di riso con i tartufi, dove i secondi erano più del primo, e al caffè mi concesse un’intervista, raccomandandomi di essere preciso nel racconto dei fatti e delle date, perché lui era iscritto alla Società di storia patria e non poteva esporsi a figuracce. Era specializzato nella ricostruzione delle battaglie più famose, soprattutto quelle napoleoniche. Lo rassicurai e mi regalò un soldatino francese con il fucile in spalla. Un giorno andai a trovare Menegazzi nel suo negozio di via General Fara e improvvisamente si assentò. Lo sentii confabulare e credevo stesse trattando una vendita con un cliente; invece rimproverava un passerotto appena entrato. “Non puoi andare e venire quando hai fame. Questo non è un albergo. Tra l’altro adesso sono impegnato. Ho sistemato il becchime lì per terra”. L’uccellino lo guardava e poi saltò sul banco, pieno di tarocchi e di libri sull’argomento, planando nel punto in cui si trovava il miglio. Quando Osvaldo tornò a sedersi mi disse che il volatile era uno di famiglia.

Carta di Arienti

Quello stesso giorno mi promise che saremmo andati insieme da Vito Arienti a Lissone, il più grande collezionista di tarocchi, a livello europeo, e raffinato stampatore di rettangoli di carta suggestivi per le figure e i colorit. Mi fece quella promessa più volte, e siccome non si decideva mai, anche perché sempre indaffarato, pensai di andarci da solo, nella tipografia che Arienti aveva da anni con ingresso nel cortile di uno stabile. E mi trovai di fronte a un uomo alto, robusto, faccia da Gino Cervi, eloquio elegante, gioviale, ospitale. Dopo i convenevoli, mi mostrò i mazzi che aveva prodotto sino ad allora e poi ci spostammo a casa, dove aveva una stanza riservata alle carte e a tanti oggetti, tra “press-papier” e presepi in miniatura. Aprì decine di album con pregevolissimi pezzi che incantavano, facendo passare le ore senza che me ne accorgessi. Trascorsi dunque un bel po’ di tempo ad ammirare carte giapponesi, “uta-garuta”; carte indiane della fine del ‘600 con figurazioni di dei e di animali sacri; le “minchiate” fiorentine, attestato dell’arte incisoria del ‘500, del ‘600, del ‘700; il “Gioco del cucù‘”, ulteriore testimonianza dell’imagerie populaire” e ancora in voga tra gli anziani del Bergamaso: gioco gestuale, spassoso, in via di estinzione. 

Prima pagina della Geografia 

Appassionato del settore fin da ragazzo, Vito commentava i mazzi anche nei dettagli e mi svelava frammenti di questo mondo magico. Poi lo sorpresi amareggiato e attesi che me ne spiegasse il motivo: anni addietro era sulle tracce degli stampi di un mazzo importante che voleva riproporre, e dopo tanta fatica trovò il possessore in un ospedale psichiatrico, dove fallì la sua ricerca. Sensibile e umano com’era, soffriva al pensiero di quel vecchio tipografo, un collega, che a sentir parlare di carte e di matrici rideva.

 

 Arienti accantonò il ricordo accennando a un mazzo di D’Annunzio, “che su ogni carta ha sei versi del ‘Carmen votivum’, del ’32, inedito, dedicato dal Vate a una donna. Quanto mi renderebbe felice averlo”. Gli piaceva rinverdire la storia dei tarocchi, senza assumere atteggiamenti cattedratici. E io lo esortavo, pendendo dalle sue labbra. “Uno degli esemplari più antichi nacque a Milano nel XV secolo: il mazzo Visconti-Sforza, del 1441, attribuito a Bonifacio Bembo”; quindi venne il “Tarocchino Milanese”, stampato da Gumppenberg.

Altra carta di Menegazzi
Mi mise sotto gli occhi un gioco uscito dalla Cina durante la diplomazia del Ping-Pong, nel ’71, e tanti altri. Mi disse che Napoleone nel 1805 fece aprire la “Regia Fabbrica di carte da gioco” di Vaprio, appartenuta ai cistercensi, imponendo un’imposta sull’uso dei mazzi ovunque si svolgesse, in un’abitazione, in un circolo, in un’osteria. “Ma le cose non andarono nel modo previsto, e così, affidata l’attività al ventenne stampatore tedesco Ferdinand Gumppenberg, la tipografia venne spostata nei giardini del Teatro alla Scala. Il nuovo direttore manifestò il suo talento già con il “Tarocco Neoclassico”, che però non incrementò le entrate. L’opificio rischiò la chiusura, ma il giovane non si perse d’animo e dribblando i concorrenti riuscì a conquistare il potere decisionale assoluto e creò carte pregevoli come quelle con le immagini dei mestieri di Milano.
 
Osvaldo Menegazzi

Parlando, Arienti mi fece vedere alcune carte eseguite da Osvaldo Menegazzi, elogiate anche da grandi esperti dell’ambiente, a cominciare dal famoso Kaplan, e il “Gioco della Corona ferrea”, ispirato al gioiello custodito nel Duomo di Monza: mazzo ristampato negli anni ‘70 nella stessa tipografia di Lissone. Nelle sue edizioni del Solleone Arienti stampò molti tarocchi, anche con l’intento di equilibrare il mercato, dove per un mazzo considerato importante si chiedevano cifre assurde, come per uno con cui aveva giocato Gabriele d’Annunzio (8 milioni). Sull’esempio del Gumpperberg, mobilitò anche giovani artisti, qualcuno dotato di un tratto graffiante, a volte caustico, sempre piacevole. Cominciò con “Il Gioco della Felicità”, che fu accolto con entusiasmo. Per Arienti le carte erano arte, costume, civiltà, testimonianza di un’epoca. Lo invitai a tenere una conferenza all’Associazione regionale pugliesi, quando la sede del sodalizio era in piazza del Duomo e presidente Bruno Marzo. Accettò, ma poi dovette desistere perché aveva male a un ginocchio ed era costretto a camminare, quando poteva, con il bastone. E siccome il suo intervento era già previsto nel programma, il pittore Filippo Alto, che curava alla grande le attività culturali, lo sostituì con una mostra di giornali del Leccese e dintorni dell’800 di proprietà dello ello stesso presidente. Successivamente presentarono il libro “Belmonte” di Franco Zoppo, che era stato docente di latino e greco al liceo classico di Taranto.

Carta di Menegazzi
Arienti era un’autorità, un mito nel campo: stimatissimo anche all’estero, dove veniva interpellato per consulenze e informazioni. Organizzò tra l’altro un’esposizione di tarocchi al Castello Sforzesco e curò il capitolo su quattro secoli di xilografia nelle carte da gioco per il catalogo della sesta Esposizione internazionale della grafica d’arte a Firenze. Raccolse anche i collezionisti italiani in un “Elenco volontario del collezionismo minore”. In gioventù era stato redattore della “Linea Grafica”, periodico molto diffuso non soltanto fra gli specialisti. Arienti era anche un uomo molto generoso. Quando scrissi il mio articolo su di lui, quasi cinquant’anni fa, gli chiesi quattro o cinque foto da pubblicare a corredo del pezzo sul “Mezzogiorno”, quotidiano per l’Abruzzo diretto negli anni’70 da Paolo Cavallina, il giornalista diventato popolarissimo per una imitazione che gli fece Alighiero Moschese, al tempo in cui conduceva con Luca Liguori la trasmissione televisiva Rai “Chiamate Roma 3131”. E lui: “Perchè non pubblichi sei o sette esemplari del mazzo del pittore Balbi di Genova, fatte per l’Italsider con una custodia d’acciaio?”.
 
              Giulio Giuzzi e Franco Presicci

Ricordo il giorno in cu mi invitò a scrivere la prefazione per il mazzo “La geografica intrecciata nel gioco dei tarocchi”, che nella città felsinea suscitò il finimondo: ero titubante, ma lui insistette e io lo accontentai. Quando il mazzo vide la luce, mi offrì un compenso, io rifiutai e mi donò una splendida rosa del deserto. Sono anni che Vito Arienti non c’è più. Io custodisco alcuni suoi mazzi, tra cui uno che raffigura un bel numero di attori di Berlino di qualche secolo fa e un altro con le illustrazioni del Gonin de “I Promessi Sposi”. Molti nati nella tipografia di Lissone sono introvabili. So che tanti anni fa dal Giappone gli venne una richiesta, credo di 250 esemplari, ma lui li aveva quasi esauriti. Qualche mazzo si può ancora trovare, penso, in via Armorari, dove ogni domenica attorno alle varie bancarelle si affollano amanti di ogni tipo di collezionismo. Una sera il mio collega Giulio Giuzzi, sindaco di Belgioioso, invitò me, Nino Gorio, Luisella Seveso e Maria Luisa Villa a una cena nel castello della sua città e mi disse che in un salone era in corso una mostra di tarocchi. Corsi a vederla alla fine della cena e per sole 30 mila lire potetti recuperare la “Geografia”, che avevo smarrito. Al ritorno a tavola parlammo di carte, di Vito Arienti e di Osvaldo Menegazzi, il cui negozio oggi e al Ticinese, retto da Cristina, una saggia nipote dello scatenato artista delle conchiglie nello spazio.







Nessun commento:

Posta un commento