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mercoledì 20 aprile 2022

Dalla carta stampata al teatro

Piero Colaprico
PIERO COLAPRICO, FIRMA DI

“REPUBBLICA” NOMINATO DIRETTORE

DEL “GEROLAMO”.

Nel ’59 l’incarico fu assegnato a Carletto

Colombo, animatore della Compagnia del

Teatro Stabile Milanese, traduttore, regista,

giornalista. Nel ’58 il teatro fu rimodernato

per volere di Paolo Grassi e aperto ad attori,

cantanti, tra cui Dario Fo e Milly. Per decenni

quella ribalta è stata dominata da un grande:

Piero Mazzarella.


Franco Presicci 

Quando Piero Colaprico nel ’76 scese dal treno, in quel ventre di balena che è la Centrale, si trovò un po’ disorientato.

A Putignano, la sua città di origine. lo scalo è quasi un modellino, con pochi binari e un paio di vagoni parcheggiati su rotaie con i respingenti, in attesa di essere accodati a un convoglio. Era capitato anche a me, e a tantissimi altri, osservare la tettoia della stazione di Milano, alta quanto un grattacielo e con tutta quella gente in attesa di un parente in arrivo o di una partenza, e rimanerne smarrito.

Poi, fuori della Galleria delle Carrozze, di fronte al palazzone della Pirelli, mi sentìi una formica ed esitai ad attraversare la strada per la quantità delle cilindrate e della loro velocità a 70 all’ora, e forse di più. Piero Colaprico, al quale dedico queste note, si è laureato in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano, e quando decise di fermarsi nel capoluogo lombardo con la sua valigia e un ottimo bagaglio di cultura, oltre a una gran voglia di fare il giornalista, senza immaginare che dopo aver fatto il rodaggio con un allenatore di tutto rispetto, Guido Passalacqua, nella redazione milanese di “Repubblica”, avrebbe fatto una carriera brillante fino a diventare direttore del giornale a Milano, per poi conquistare la plancia di un teatro storico come il “Gerolamo”, in piazza Beccaria. Ne ha fatta dunque di strada, e di fatica anche, mangiando panini e polvere o addirittura digiunando per tanti anni, sempre dietro alle notizie con un fiuto da cane da tartufi. Un cronista di razza, come si dice; innamorato del mestiere, che a Putignano vagheggiava mentre era chino sui romanzi russi, americani e francesi sulla terza pagina de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Quante volte ci siamo incontrati sul luogo di una rapina clamorosa fatta da una banda agguerrita e bene equipaggiata o di uno spietato regolamento di conti, in una strada o in un’osteria. Era un osservatore scrupoloso, attento ai dettagli, a catturare ciò che doveva rimanere riservato per non compromettere le indagini, a individuare il testimone giusto, indifferente ai vaniloqui di chi si credeva erede di Tommaso Besozzi, pur non riuscendo mai a riempire il carniere. Il giorno dopo leggevo il pezzo di Piero e pensavo: “E’ anche una bella penna, questo ragazzo”.

 

Adesso, lasciata “Repubblica”, concordando una collaborazione, lo ritrovo direttore del Teatro Gerolamo, incarico che avevano tenuto, dal ’59 al ’78, Carletto Colombo, e dal ’79 Umberto Simonetta. Colombo era animatore della Compagnia del teatro stabile dialettale milanese, di cui ha scritto la storia, autore, traduttore, regista, direttore de “L’Avanti”, consigliere alla Scala, amico e assistente di Paolo Grassi. Umberto Simonetta compose testi di canzoni per Giorgio Gaber (per esempio, “La ballata del Cerutti”); e da uno dei suoi romanzi, “I viaggiatori della sera”, fu ricavato un film di Ugo Tognazzi. Al “Gerolamo” portò in scena “Mi voleva Strehler”, interpretata da Maurizio Micheli.

 

Colaprico ha scritto una decina di volumi, i primi tre con Piero Valpreda. Per me è un piacere enorme sapere Piero su quella poltrona prestigiosa”, in quel luogo che un tempo era definito “il piccolo salotto di Milano”. Il suo palcoscenico fu per lungo tempo regno delle marionette, comprese quelle dei Colla; e nel 1815 per la prima volta comparve, nell’opera “Il mostro turchino”, il personaggio di Gerolamo (da cui l’attuale nome del teatro), un burattino con i fili tirati dall’abilissimo Fiando, che ogni sera riscuoteva un caloroso successo. I gestori del teatro sollecitavano l’autorizzazione a far salire alla ribalta attori in carne ed ossa in commedie e opere buffe, ma s’imbatterono in oppositori alleati e ostinati e il progetto s’impantanò in una foresta di dinieghi, da cui uscirono nel 1816 con una commedia giocosa interpretata da cantanti e danzatori.

Colaprico con il prof. Lenoci al Piccolo di Milano

Piero Mazzarella e Franco Presicci

Il“Gerolamo” è un gioiellino. ”il teatro della nostra infanzia”, dice Alberto Lorenzi in “Milano, un secolo”, e accenna a Piero Mazzarella, che al “Gerolamo” portò Edoardo Ferravilla, il più grande comico del teatro meneghino. Andava a vederlo persino la mala, che seguiva i suoi spettacoli in devoto silenzio e con attenzione rapita. Al “Gerolamo” Mazzarella rinverdì quelle atmosfere, interpretando “Tecoppa”, che il pubblico adorava. Anche Lorenzi applaudì quella figura (che Cletto Arrighi bollò come “teppista indurito nel vizio e nell’infingardaggine”) nella versione di Mazarella. Il teatro lo trovava ancora più bello, brillanti di vernice tutti gli stucchi, le lunghe trombe incrociate…”. In tempi meno lontani il “Gerolamo” ha ospitato artisti celebri: Juliètte Grèco, Dario Fo, I Gufi, Edoardo De Filippo, Milly, oltre, ripeto, a Piero Mazzarella, che, nato, a Vercelli nel’28, intraprese la via del teatro dialettale, interpretando fra tanti altri il personaggio del brumista “Peppon” nel “Nost Milan” di Bertolazzi, rendendolo famosissimo. Di Mazzarella ho tanti ricordi. Uno in particolare. Appena giunto a Milano, nel settembre del ’62, fui reclutato come “free-lance” al quotidiano “L’Italia”, attuale “Avvenire”, e Graziano Motta, trentenne capo degli Spettacoli, mi mandò al “Gerolamo” ad assistere alla commedia “El zio matt”, con Mazzarella. 

Seduto in platea, il mio cuore andava come lo stantuffo di un locomotore a vapore: non capivo una parola ed ero terrorizzato al pensiero del pezzo che dovevo buttar giù rientrando al giornale, in piazza Duca d’Aosta. Mi venne un’idea: saltai sul palcoscenico, bussai al camerino del mattatore e confessai da terrone verace il peccato di non conoscere il dialetto di quello zio fuori di testa. “Tranquillo”, la risposta, e fui illuminato. Il giorno successivo Mazzarella mi telefonò per congratularsi e a poco a poco diventammo amici. Anche Carletto Colombo porto ben sistemato nella memoria. Mi chiese di confezionare la rivista “Tempo di Regioni” e ce la misi tutta. Feci una buona mietitura di testi e di foto e per la rubrica di cucina telefonai a Enzo Jannacci, che accettò a condizione che potesse confezionarla a modo suo. Titolo “DDT” (dadi, datteri e tacchi). Il mio amico e collega Edgardo Bertulli mi dette una mano e Colombo fu soddisfatto. A proposito, avevo conosciuto Jannacci a Salice Terme, dove si svolgeva un premio importante, che era stato assegnato anche ad Alberto Sordi e ad Aldo Fabrizi. Alla cerimonia assistevano anche Paolo Panelli e Bice Valori, che mi concesse un ballo. Accipicchia, ho perso Colaprico. Mi capita di deragliare, gli chiedo scusa.

E’ stato chiamato dunque a guidare il “Gerolamo”, dove era andato in scena un suo spettacolo: “Qui, città di M”, e aveva avuto una valanga di consensi. Poi era toccato ad un altro suo testo, “Una valigia più ligera”, con canzoni in milanese, comprendenti anche quelle della malandra. Per chi non lo sapesse, la “ligera” era una conventicola di giovani che ai primi del ‘900 sfioravano o sconfinavano nel codice penale per reati come il borseggio e avevano sempre alle calcagna un cacciatore instancabile, una sorta di Joe Petrosino soprannominato “el Dondina” per il modo di camminare ondeggiante che agli stessi appartenenti alla banda ispirò una canzone burlesca, che intonavano appena lo vedevano spuntare. Da cronista ottimamente collaudato, Piero Colaprico la conosce bene, la “ligera” (come conosce la teppa, la scopola, i “locc”, consorterie che sono venute prima o dopo, frequentando la taverna del Bernini in via dei Guast) al punto da portarla in palcoscenico. Un palcoscenico che ora gestisce lui con un programma più che interessante. Ma come mai – gli ho domandato – hai fatto questo salto, dalla carta stampata a quel trono? Presto detto. La direttrice generale del “Gerolamo”, Chitose Asano, una signora giapponese che ha rinnovato il teatro, gli aveva detto che una volta scaduto il suo tempo lavorativo, gli avrebbe affidato questo impegno.

Giunto il momento, si sono risentiti e un’ipotesi di collaborare insieme è diventata una promessa mantenuta da parte di Asano e da onorare da parte di Colaprico. Un’attrice ha poi detto a Piero di essere sicura che lui era la persona adatta per questa mansione: aveva lavorato con Umberto Simonetta, che non veniva dal teatro, ma dal giornalismo e dai libri. “Perciò non si preoccupi troppo”, lasciandolo felice come una Pasqua. Al “Gerolamo”, di Simonetta, era andato in scena “Mi voleva Strehler”, con Maurizio Micheli. Ora Colaprico sta studiando un calendario che comprenda un po’ di più Milano, sperando di offrire agli spettatori anche un testo con protagonista il cardinale Carlo Maria Martini. Il signor direttore è una fucina di idee, ha una grande esperienza, una profonda cultura, una solida volontà: è, come si dice, un uomo del fare, uno di poche parole e costruttivo, pacato, riflessivo e rispettoso. Nella nostra conversazione non abbiamo parlato soltanto del “Gerolamo”, ma anche delle sue emozioni. Anche di quella che prova aprendo le finestre del teatro che danno su piazza Fontana: un’emozione indicibile. E Putignano, la sua città d’origine? Io sono legato a Taranto come le cozze alla corda; lui indissolubilmente a Putignano, che fu messapica e romana e per lunghissimi anni possedimento dei Cavalieri di Malta. Non è uno di quei pugliesi che qui imparano il dialetto locale, si spacciano per lombardi e dimenticano la terra degli avi (vizio denunciato anche da Giuseppe Giacovazzo nel libro “Puglia, il tuo cuore”). Lui ogni anno torna nella sua Putignano, dove tra l’altro si svolge un carnevale mirabolante, noto e apprezzato dappertutto. Se la gode, la sua città, riattraversa le vie dell’anima e della memoria, e va a fare con la famiglia i bagni a Torrecanne o a Ostuni (dominio di ulivi saraceni), dove fino a qualche anno fa si svolgeva la Sagra dei fischietti in terracotta, che troneggiano ad Alberobello nella bottega di Maria Matarrese, di fronte alla chiesa detta a trullo. Eh, la Puglia! Quanti terroni di talento vero ha mandato nella casa del Porta?







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