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mercoledì 17 agosto 2022

La Lorenteggio, attraversata dal nuovo metrò

 

Via Gelsomini
QUANTI PUGLIESI IN QUESTA STRADA

UN NASTRO LUNGO FINO A CORSICO

Mercati, mercatini, negozi, feste rionali,

a Natale fuochi di artificio spettacolari

allestiti dai cinesi dell’emporio di via dei

Gelsomini.

 

Franco Presicci

Piazza Frattini
Cercando casa a Milano, una sessantina di anni fa, me ne indicarono una dalle parti di piazza Napoli, il cui proprietario, scorbutico, alto quanto il bancone del salumiere, grassoccio, diffidente, parlava come se avesse in bocca un paio di fagioli. Quando il mio accento rivelò la mia provenienza, mi spifferò che per me i locali non erano disponibili. Gli domandai la ragione e la risposta non si fece attendere: ero un terrone. Con la calma di chi si avvicina all’altare per assumere l’ostia consacrata, gli risposi: “Guardi, signore, la parola non mi offende, deriva da terra, che ci dà tanto nutrimento; e a lavorarla è un signore che fa tanta fatica per tenerla fertile: quel signore esercita un mestiere nobile, è un contadino”. Ciò detto, lo salutai. Rimase come le statue di legno che un artista anziano realizzava al Parco Nord con gli alberi morti. In seguito lo incontrai un paio di volte; lo salutai e lui rispose bofonchiando. Lo feci apposta, per strappargli il muggito. Per fortuna i meneghini non hanno mai considerato i terroni degli invasori, tanto che già circolava il detto: “Se a Milano ci fosse il mare sarebbe una piccola Bari”.
 
Sardone
La casa la trovai in via Lorenteggio, una via bella, soprattutto nel tratto tra le piazze Bolivar e Frattini e all’angolo con via Primaticcio, molto movimentata e ricca di negozi, compreso il laboratorio di un calzolaio con il deschetto, forse l’ultimo rappresentante della categoria.
Era un pugliese di nome Sardone, noto e simpatico a tutti, nella zona. Per conoscerlo meglio, mi trattenni nel suo negozio su sua richiesta e mi disse che riparava le scarpe alla mamma di Silvio Berlusconi, che abitava a due passi. Di fronte al tabaccaio c’era un famoso disegnatore e il mio amico Nicola La Forgia, di Trani, che scriveva canzoni mirando a Sanremo e faceva il bigliettaio su un pullman della linea E dell’autobus, che allora passava per piazza Duomo. Quando questa categoria venne abolita dall’ATM, Nicola cambiò lavoro e continuò a buttar già versi.
 
Autorimessa ATM del Giambellino
Lo incontravo spesso in Galleria del Corso, che brulicava di cantanti diretti alle varie case discografiche che vi avevano sede, tra cui la Carosello e le Messaggerie Musicali. E lì agli albori degli anni Sessanta conobbi Domenico Modugno, già un divo, Memo Remigi, Tony Renis, Arturo Testa, che allora intrepretava “Io sono il vento”, e Alberto Lupo (ricordo “La Cittadella” televisiva da lui interpretata con grande successo in tivù) che come il cantante era una persona di squisita cortesia, tanto che entrambi in alcune occasioni mi dettero un passaggio in macchina a casa. Dove a volte venivano a trovarmi Ceto Tinarelli, un giornalista che al giornale del pomeriggio “Il Corriere Lombardo” faceva il critico di musica leggera, oltre ad occuparsi di sport; e il presentatore Febo Conti, con cui si parlava di tante cose: di un premio che era stato assegnato a Ernesto Calindri, che stimavamo entrambi; del suo personaggio televisivo amato soprattutto dai bambini: Ridolini. Febo aveva un grosso camper in via Sammartini, nei pressi della stazione Centrale, con una televisione a circuito chiuso, dove spesso si riunivano artisti famosi.
 
Fontana di piazza Tirana
Una sera ci andai con Liliana Feldmann, Evelina Sironi, Roberto Brivio, pilastri della Rai milanese… e Giovanni D’Anzi, autore di “Mia bela Madunina”, reduci da uno spettacolo all’aperto fatto per un circo, il cui tendone era stato distrutto da un temporale. Vicino allo stabile in cui abitavo c’era - c’è ancora, ristrutturato - il mercato rionale coperto, formicolante di gente. Io accompagnavo mia moglie per fare la spese e seguivo le scene che vi si svolgevano: pochissime persone intente a scambiare due parole; qualche tentativo, raro, di tirare sul prezzo; una signora che arrivava con l’atteggiamento di Wanda Osiris sulle memorabili scale, sempre in compagnia di un’ancella, un cappello con la piuma di struzzo, un modo da “snob” di prendere la frutta, con l’indice e il pollice. Curiosava, valutava la qualità della merce, la commentava, si consultava e dopo qualche esitazione si decideva. Passava fra l’indifferenza degli altri. Nella via non succedeva mai niente. Ma a un tiro di schioppo dalla Lorenteggio, più vicino alla parallela Giambellino, lunghissima, che da viale Papiniano va a Corsico, si svolgeva il traffico dell’eroina, che serviva anche clienti che arrivavano persino dalla Svizzera. Un pomeriggio, appostato sotto la finestra del custode d’un palazzo popolare, attraverso uno spiraglio della serranda della cucina, spiai il movimento: i tre gestori apparivano verso le 14, il più giovane offriva la sedia a sdraio al principale, e con un terzo distribuiva le bustine ai giovani che si aggrumavano intorno a loro. Mi dissero che i giovani accalappiati dalla droga la tagliavano grattando l’intonaco dalle pareti. Per fare delle foto con il fotografo Gaetano Montingelli, che non si tirava mai indietro, salimmo poi sul terrazzo di un palazzo altissimo senza chiedere il permesso a nessuno, per evitare che ci dicessero di no. Ogni tanto irrompeva il maresciallo Ennio Gregolin, da anni scomparso, un uomo massiccio, barba e baffi neri, cintura nera di judo, accento veneto, e ne acciuffava qualcuno, mentre gli altri se la davano a gambe. E finivano dentro in una retata più massiccia. Erano ormai gli anni 80. E proprio quell’anno, in novembre, in una sparatoria furibonda, all’altezza di via Delle Rose, furono uccise quattro persone, tre delle quali erano quelli che avevo visto commerciare la droga. Si disse che avevano lasciato sul tavolo verde di una delle bische più note della città un bel mucchio di milioni destinati al pagamento di una partita di “veleno”, erano usciti e rientrati con le armi in pugno, riprendendosi il denaro. La vendetta scattò la sera dopo, alle 8. Il vice capocronista, Luigi Gervasutti, un gentiluomo barbuto di origini friulane, mi chiamò subito a casa e dovetti rinunciare a delle squisite melenzane ripiene. Ero abituato a lasciare il piatto a metà o un attimo prima che venisse messo in tavola. Conoscevo bene luoghi e persone, fatti e misfatti; sapevo che da quelle parti c’era anche una bisca all’aperto, che apriva alle 14 e chiudeva alle 6 del mattino dopo. I dadi venivano lanciati nella piazza che fronteggia la stazione ferroviaria e i cittadini si lamentavano perché gli urli che provenivano da quel cerchio disturbavano il sonno di chi doveva andare a lavorare.
 
Mercato coperto
Oggi quella piazza ha cambiato volto: i patiti dell’azzardo non ci sono più, sono sorte aiuole, una fontana e le sole voci che si sentono sono quelle dei bambini che giocano allegramente. E c’è un progetto che comprende l’abbattimento delle case popolari di via Giambellino, a qualche centinaio di metri dal punto in cui si erano insediati i biscazzieri. Milano ama cambiare. Nel bene e nel male. Da sempre. A volte scatenando furori. Ai primi del Novecento fu demolita la Pusterla dei Fabbri, dopo accese polemiche in consiglio comunale. E non fu la sola colpa. Nel tempo ce ne sono state altre. Quando arrivai in via Lorenteggio, nei pressi di piazza Bolivar, c’erano casupole con il tetto di lamiera e case minime all’angolo con via Primaticcio: lì vicino da qualche anno hanno costruito una caserma della polizia e messo su palazzi dignitosi. E a Natale i cinesi che hanno un emporio in via dei Gelsomini scatenano un grande spettacolo di fuochi d’artificio.
 
Mercato di via Gelsomini
Oggi in quella via, il mercoledì, organizzano un mercato rionale con banchi di pesce, frutta e verdura… e sta per entrare in funzione la sesta metropolitana; e si fa, ogni anno, anche una festa, dove, in uno spazio lasciato libero dalle bancarelle, si esibiscono gli antichi mestieri, con donne all’arcolaio e uomini intenti a confezionare cestini di vimini. Qualche anno fa In un piccolo supermercato, nella stessa via, all’esterno riempirono un cassone di modellini di radio anni 40, prezzo 3 euro ciascuna. Il contenitore si svuotò in pochi giorni. Sollecitarono tanti ricordi, come la radio che si ascoltava durante il conflitto mondiale; clandestinamente; e le giornate del ’45, quando, come adesso, piovve quasi niente e i campi non riuscirono a dissetarsi, con le conseguenze che si possono immaginare). Un giorno, lanciando lo sguardo in una vetrina, in via Lorenteggio, notai una pattuglia di fischietti in terracotta di Noè Macrì, un bravissimo figulo di Grottaglie. E’ arrivato fin qui, Noè, mi dissi, ricordando gli incontri che avevo avuto nella sua bottega nel paese di San Ciro. La Puglia spiccava a Milano non soltanto per i carabinieri con il fischietto sul deretano fatti con l’argilla, ma per tantissimi altri aspetti molto più rilevanti. Furono i pugliesi – mi diceva Gigi Pedroli, acquafortista famoso e cantautore di grande talento - ad abitare in massa nelle case sulle sponde del Naviglio Grande, già negli anni Cinquanta, anni che Pedroli evoca con efficacia in alcune sue canzoni.




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