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mercoledì 10 agosto 2022

Il fascino della vecchia Milano

CAMMINATE IN CORSO SAN GOTTARDO

L’ANTICO BORGO DEI FORMAGGIAI

Ibrahim Kodra

Un giorno ci andò anche il grande pittore

albanese Ibrahim Kodra e fu accerchiato

da un gruppo di ragazzi che lo sottoposero

a un diluvio di domande. 

Poi volle salire sull’enorme velocipede

realizzato dal fabbro Bruno Scapoccin.

 

Franco Presicci 

Le case di ringhiera, a Milano, conservano tutto il loro fascino. Dal Naviglio Grande a via De Castiglia, che un tempo, negli anni 70, era una via stretta e disadorna, a pochi passi dalle Varesine, dove s’installavano le giostre e oggi ricca di palazzi dall’architettura d’avanguardia; all’Isola Garibaldi, che all’alba del ‘900 era bazzicata dalla mala di bassa lega e successivamente ha dato alla luce personaggi che con il proprio lavoro hanno saputo imporre il proprio nome di imprenditori. In qualche parte all’Isola c’era un cimitero detto della “Moiazza” o di Porta Comasina, in cui giacevano anche le spoglie del Parini, del Beccaria e di Tommaso Melzi D’Eri (sorto nl 1685, venne smantellato quando dopo la realizzazione del Monumentale e del cimitero Maggiore).

Casa di Ringhiera

Scoprii le case di Ringhiera proprio all’Isola Garibaldi, nel ’70. Ci andai per il settimanale “Il Milanese”, che mi aveva affidato un servizio sulle bocciofili; e lì ne trovai più d’una; un’altra in via Aressi, dove in uno spazio di una cooperativa operaia si spandeva un campo doppio rispetto ai soliti attraversato longitudinalmente da un cordolo, per il gioco alla meneghina. Le case di ringhiera più famose erano in corso San Gottardo, l’antico borgo dei formaggiai, che nei depositi disposti nei cortili, ai primi del ‘900, venivano custodite oltre 200 mila “ruote” di parmigiano. Quando un abitante del borgo andava in piazza del Duomo si capiva subito la sua provenienza, per l’odore che si portava addosso.

Guido Bertuzzi
Una domenica del giugno 2008, dopo una visita in vicolo dei Lavandai al mio indimenticabile amico, il pittore Guido Bertuzzi, che stava terminando un’opera da donare al questore Vito Plantone appena andato in pensione, decisi di tornare in corso San Gottardo, anche per intrattenermi con qualcuno disposto a ripercorrere i vecchi tempi: le abitudini, i giochi del bambini, i rapporti tra i coinquilini, insomma la vita quotidiana in queste case negli anni passati. Suonai a diversi citofoni senza avere risposta. Ma al terzo o al quarto tentativo, dall’altra parte mi rispose una voce femminile, sottile, aggraziata, quasi familiare. “Salga, salga pure”, e mi dette le indicazioni per arrivare fino a lei, perchè di solito i passaggi in questi vecchi edifici popolari sono intricati. La signora mi fece entrare in casa, mi indicò una sedia, mi offrì un caffè, dicendo: “Sa quanti anni ho? Novantadue, ma se le devo dire tutta la verità non me li sento”. Era bassina, magra, i capelli biondicci e riccioluti, un sorriso dolce e amabile. Parlava con passione di quei muri antichi; e della vita che una volta vi si conduceva.

Luigia Airoldi

“Mi chiamo Luigia Airoldi, ma se preferisce si limiti al nome di battesimo”. Viveva al secondo piano del civico 22, dove si affacciava per ammirare i tetti a padiglione di color rosso. “Abito da settant’anni in questa casa, che di anni ne ha 150. I terribili rumori della guerra si erano da poco spenti, la gente tirava un sospiro di sollievo e cercava di dimenticare gli affanni., il mercato nero, il coprifuoco, i bombardamenti, anche se le ferite della città erano ancora sotto gli occhi di tutti. C’era voglia di divertirsi, la radio diffondeva tanta musica con le orchestre di Zeme, Consiglio e Kramer, che trasmetteva dagli auditori meneghini. Già da un anno, la domenica alle 14, andava in onda il programma ‘Sette giorni a Milano’ di Spiller, Carosso e Menicanti. Era bello una volta vivere sulla ringhiera. Sì, c’era il gabinetto comune in un angolo del ballatoio, ma nella saletta avevamo il camino. Ci si nutriva con la pagnotta e qualche piatto di spaghetti, che il mio compagno portava dal panificio in cui lavorava”. Tra i coinquilini regnava tanta affabilità. Tutti per uno, uno per tutti. Ci si parlava da una ringhiera all’altra; ci confidavamo problemi, gioie, amarezze, delusioni. Se uno aveva bisogno non rimaneva mai solo. Si accendevano anche liti, ma erano un fiammifero che subito si spegneva, grazie anche agli altri pronti a riportare la pace”. Luigia ricordò poi la gente che aveva lasciato la ringhiera: la lavandaia, che faceva una vita di stenti e di fatiche; il formaggiaio Uliman… Al 24 c‘era la trattoria della Celestina, dove gli uomini dopo il lavoro giocavano a carte. “Buongiorno”. Ecco il nipote, Silvio, 69, anni, un uomo massiccio, cordiale, loquace, sorridente e disposto a integrare il discorso: ”Dalla Celestina, bevendo un sorso, si cantava anche a squarciagola. Nei pressi si giocava a dadi all’aperto sino alle 7 del mattino.

Vicolo dei Lavandai
Come in piazza Cardinal Ferrari e altrove. La posta, 100 lire, ma siccome ad ogni perdita occorreva aumentarla, qualcuno si privava del bracciale o della catenina. Io ero ragazzino e mi ci fermavo per curiosità, senza che nessuno badasse alla mia presenza”. Disse la sua anche Giuseppe Brambilla, 72 anni. Era uno dei primi mutilatini di don Gnocchi (da bambino gli scoppiò in mano una penna e perse un occhio). Nelle case di ringhiera si stava dunque come in una famiglia. I cortili erano ricchi di voci. I ragazzini si divertivano a spingere un cerchio con una mazza; i più grandicelli giocavano alla lippa. Un vecchio mi raccontò del formaggiaio che cantava stonato; del maniscalco burlone; del materassaio e del riparatore di botti e mastelli che salutavano chiunque passasse, con l’intenzione di scambiare qualche parola.

Barcaiolo
Al civico 18, più che un cortile un vicolo che corre fino a via Ascanio Sforza, leccata dal Naviglio Pavese, violai il tempio del fabbro Gianni De Bernardi, che ormai settantenne ci veniva solo per passare il tempo. Prese in mano un punzone e declamò: “Ho lavorato qui dentro trent’anni. Non sono pochi. E ho ancora nostalgia di quelle giornate passate tra l’incudine e il martello. Prima stavo in via Scaldasole, dove poi hanno buttato tutto giù. Al mio arrivo stabilii subito un ottimo rapporto con il collega Bruno Scapoccin, che con materiale di risulta costruì una balena e la varò nel Naviglio, con i falegnami Lauria e Torre, e con il tornitore in lastra Volpi. Aveva costruito anche un velocipede che arrivava al primo piano di uno stabile. Giorni davvero felici. Un giorno un amico poliziotto mi invitò a bere un caffè, mi fece salire sulla macchina, e subito una vecchietta si mise ad urlare: ‘An menà via el Gianni, el feree!”. Tute le porte si spalancarono e la via si affollò. “Ogni tanto facevamo delle grandi mangiate alla Briosca del Pinza, in via Ascanio Sforza, con Scapoccin che suonava la fisarmonica; e quando ci venivano anche gli inquilini tra un piatto e l’altro tutti “avvinghiati come l’edera” (ricordate Nilla Pizzi?) nelle danze. La mattina gli artigiani facevano il giro delle osterie per bere il “chichettin”... Una pausa e poi: “Che tipo la signora Carolina. Curava il cortile con meticolosità piuttosto rara: Lo sa? Proprio davanti alla mia officina hanno girato un film con Renato Pozzetto e Adriano Celentano. L’ambiente era tranquillo, allora: tutt’al più si poteva incappare nel ladro di biciclette… “Era questo ‘el borg de formaggee’”, intervenne il proprietario dell’officina Giuseppe Piacentini; Infatti una volta nei locali di questi cortili si stagionavano i formaggi di ogni peso e grandezza”.

Gianni De Bernardi
Opera di Kodra

Alcuni ricordarono il giorno in cui s’imbatterono in quel grande personaggio che era il pittore albanese Ibrahim Kodra, uomo di alta cultura, pittore conosciutissimo e amato (aveva fatto mostre ovunque, da Palermo a Palinuro, oltre che a Milano e all’estero, frequentatore assiduo di Brera e innamorato della vecchia Milano). L’artista volle salire sul velocipede realizzato da Scapoccin e poi sulla balena ancora nelle acque del Naviglio Pavese. Un gruppo di giovanotti lo accerchiarono e gli chiesero se fosse vero che al suo arrivo in Italia da Tirana avesse fatto un discorso nella sua lingua contando da uno a cento e intervallando la numerazione con le parole in italiano “duce”, “fascio”, “Mussolini” le uniche che conosceva), scatenando una valanga di applausi, perché tutti credettero che aveva esaltato il regime. Eh, Ibrahim, uomo spiritoso, scherzoso, socievole, leale, generoso. In gioventù era stato campione nel lancio del disco in Albania, ma non ne parlava mai, come non parlava dei suoi quadri, dei suoi totem che suonano il banjo e altri strumenti. Ne aveva uno appeso a una parete del suo studio, in piazzale Lagosta, all’ultimo piano, da dove si dominano viale Zara e un po’ viale Fulvio Testi. Quella casa era stata di Ghiringhelli, già sovrintendente alla Scala. Quando Ibrahim morì, Fatos, la persona che tiene alto il suo nome, mi invitò a parlare dell’artista a una televisione albanese e non riuscii a trattenere le lacrime.







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