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venerdì 20 ottobre 2023

“Quella nevicata del ‘56” di Maria Carmela Ricci

 

 
Copertina del libro
IL MANTO BIANCO SEMBRAVA

VOLESSE INGOIARE I TRULLI

 

Franco Presicci

In queste pagine, scritte con stile

scorrevole, si ritrova un mondo

fatto di sacrifici e fatiche. Luoghi,

persone, circostanze sono disegnate

con dovizia di particolari. Credenze

ormai sopite vengono raccontate

con abilità e cuore dalla bella penna

della scrittrice.



La neve del ’56 l’ho vista in foto. Non so come la mia vicina di trullo fosse riuscita a scattarle, considerando che quella panna montava di minuto in minuto fino a minacciare di fagocitare i trulli. Bisognava aprire un varco per poter percorrere quel centinaio di metri da via Mottola alle case incappucciate.

Nevicata

Ma che fatica. La neve è bella: tra l’atro regala un abito da sposa a città e campagne. Ricordo la neve caduta quando avevo 11 o 12 anni, sempre a Martina, ed ero ospite in casa dello zio canonico, in via Marangi, dove dal balcone si poteva ammirare la Valle d’Itria. “Non uscite, la neve scende a larghe falde e da terra si solleva parecchio”, ci consigliò don Martino Calianno, mentre lui si preparava per andare a dir Messa non so più se alla Basilica o nella chiesetta vicina. La neve mi piace. Vederla in una scena invernale di Courbet mi emoziona. E mi emozionava la vista dei fiocchi che imbiancavano le vie Nuova e Alfieri, nel centro storico di Martina, creando tanta poesia. Allora ero già grande, eppure non mi staccavo dai vetri della finestra. Con il passare degli anni ho assistito ad altre nevicate, non paragonabili a quella del ’56. E, ogni tanto, guardo le immagini delle “farfalle” che ricoprivano l’ombrello del vecchietto che si avventurava nel vicolo.

Maria Carmela Ricci
Anche per questo mio amore per la neve ho accolto volentieri il libro della scrittrice Maria Carmela Ricci, “Quella nevicata del ‘56 in Valle d’Itria“, Giacobelli editore. L’ho letto subito, con interesse, curiosità, piacere, e andando avanti mi appariva sempre più bello, tra l’altro scritto con stile agile, scorrevole, arioso. Mi disturbava persino il suono del campanello della porta, che mi costringeva a interrompere la lettura. Sono pagine ricche di preziosità, che prendono il lettore e lo accompagnano in un mondo ormai perduto, quello della civiltà contadina, con nonni, figli e nipoti, costretti a stare in casa anche perché la neve ha quasi sbarrato le porte. L’autrice dialoga con Nina, che all’epoca in cui si svolgevano i fatti aveva cinque anni e lo fa con grazia, facendo rivivere in modo icastico una realtà lontana, ritmata dalla fatica, dalla miseria dalle preghiere, dagli scherzi anche, quando la gente si scaldava, nelle giornate rigide, con il braciere o con il camino acceso sotto il paiolo appeso alla camastra.
Spazzaneve

La scrittrice non trascura nulla: descrive, oltre ai personaggi, tutte le parti della casa incappucciata: il palmento, la stalla, il fienile, e poi la scuola rurale…, attenta ai particolari. “Il lunedì mattina Mimino andò nella stalla a governare Rondinella, la ‘docile cavalla storna’” della famiglia di tatà Martino e di Comasia, che baciava i figli solo quando dormivano perché non crescessero deboli e impreparati ad affrontare gli ostacoli della vita e nel timore che a manifestare affettuosità si potesse perdere l’autorità. Improvvisante dalla stalla arrivarono gli urli di Mimino: la coda di Rondinella è tutta intrecciata. “E’ la “jurie”, il folletto. Evidentemente Mimino era rimasto turbato dai discorsi fatti la sera prima. A zio Giovanni, quel birbante di folletto, intrecciava le criniere, a Comasia, quando partorì Mimino, lo spostava dal letto alla culla e dalla culla al letto. Giocava, si divertiva, faceva dispetti. Ma la “jurie” era stata inscenata da Ciccillo, per spasso. Erano due i mitici “giocherelloni”: l’altro era “’u munacìedde” (lo scrivo alla maniera del dialetto tarantino). Maria Carmela Ricci, come accennato, accompagna il lettore in una vista agli ambienti: dalla cucina si accedeva alla rimessa, che comunicava con la stalla e aveva un’uscita esterna.

Michele trasporta le fascine
In essa erano allocati: “u trajine”, “a sciarrette”, tre ”bacaclitte”. In alto in una nicchia profonda, chiusa da uno sportello ligneo, erano sistemati gli attrezzi pericolosi che venivano utilizzati per il lavoro nei campi; “ronghe”, “rungedde”, “rucegghione”, “asce”, falce, “cugnète”, nomi tradotti tutti rigorosamente in italiano, e descritti così bene, che sembra di vederli schierati come in un museo e di prenderli in mano, mentre Carmela si prepara a infornare il pane o cucina fave con la verdura. E anche qui l’autrice snocciola i tempi di lavorazione, i modi di fare l’alimento, la cura... “Quella nevicata del ’56 in Valle d’Itria” è ricco di episodi. “Come ogni mattina gli uccelli vennero a posarsi sula neve fresca per beccare le briciole di pane che Nina lasciava loro”. Tatà Martino disse che se non ci fosse la neve sarebbe andato a caccia. L’ultima volta aveva fulminato “turde” e “frangeddere” (tordi e fringuelli). Tutti i contadini avevano un fucile, con regolare permesso. Piacevole l’uso del dialetto martinese che l’autrice fa citando attrezzi, utensili, luoghi.
 
L'ulivo
Non per niente fa parte dell’Accademia d’a Cutezze, associazione che si propone di salvaguardare e tramandare alle nuove generazioni la parlata dei martinesi e le tradizioni locali; ed è attiva insieme ad altri scrittori, poeti, pittori in vernacolo al Salotto Culturale Palazzo Recupero, nella splendida città dei trulli.
Nevicata
Tra l’altro il libro è molto bene illustrato con “capasonere”, vendemmia, catena del focolare con caldaia (camastre p’a callère), capocolli appesi per l’asciugatura, un calesse che lascia tracce sulla neve…,: foto inizio del 900 del fotografo Eugenio Messia. Insomma in questo libro c’è anche da vedere, oltre che da leggere. L’indomani mattina i maschi, dopo aver fatto colazione con pane e pomodoro ed essersi infagottati spalarono la neve in direzione del trullo-scuola. Occorreva naturalmente crearsi un passaggio per procurarsi cibo e legna. Non si poteva rimanere assediati da quella massa fatta di prismi di ghiaccio per molto tempo. La neve è bello vederla quando scende rendendo candido il paesaggio: ma poi? Poi bisogna spalarla. Più andavo avanti nella lettura e più queste pagine mi attraevano. Sono innamorato di quel mondo, dei suoi usi e dei suoi costumi, dei modi di vivere dei contadini, delle cucine monacali, dei forni, dell’ulivo, del fico, della quercia, alberi di Martina. 
Vigna

Mi colpiscono i lavoratori della terra, i vignaioli; adoro Martina con la sua campagna imperlata di viti… E la trovo qui, scolpita da una scrittrice di talento, che fa rivivere quelle giornate del ’56 immerse nella neve, candida coperta, panna che s’ingrossa nelle strade, nei vicoli, sui tetti delle case, sulle altane, sui campanili, creando un’atmosfera da favola. La neve è poesia: “Il cielo è basso, le nuvole a mezz’aria/ un fiocco di neve vagabondo/ fra scavalcare una tettoia o una viottola/ non sa decidersi” (E. Dickinso). La neve ispira gli artisti della tavolozza. La neve inebria, mi commuove, anche quando viene giù sottile, come moscerini che danzano. Questo libro tornerò a leggerlo. Laureata in Scienze Biologiche all’università di Perugia, Maria Carmela ha insegnato anche matematica; e oggi in pensione coltiva di più le sue passioni di sempre: poesia, narrativa e pittura.

Coltre bianca

Faccio queste considerazioni e osservo ancora le foto del libro. Ecco un contadino che pota le viti con il ronciglione, e un altro che con la zappa smuove le zolle, entrambi colti dall’obiettivo di Benvenuto Messia. In altre pagine dipinti di Maria Carmela: una casa a cono di gelato e un ulivo saraceno, quindi poesie dell’autrice. Rientro nel testo: “Tatà Martino fece uscire dalla stalla la cavalla, la bardò con i finimenti, l’attaccò al calesse e con i figli maschi, partì per una ricognizione nei vari vigneti di sua proprietà”. La neve aveva smesso di cadere. Il libro si apre con una prefazione del professor Francesco Lenoci, docente alla Cattolica di Milano, e con una postfazione di Teresa Gentile. “L’altro protagonista del libro – dice il docente – è il dialetto martinese, la parlata dei genitori di Maria Carmela Ricci… La nostra priorità è di non far scomparire la parlata dei nostri avi. Perciò reputo che sia importante lasciarne tracce scritte…”. 

La Neve
E segue con la memoria le tradizioni: i genitori di Francesco gli hanno insegnato di non mettere il pane a pancia in giù; non buttare mai il pane: voleva dire sputare alla miseria; il pane non deve essere sprecato né maltrattato; bisogna portare il pane alla bocca mai con la mano sinistra, bensì con la destra, la mano dell’angelo; ciascuna fetta di pace caduta dalla tavola occorre recuperarla e baciata in segno di devozione; il pane inzuppato nel latte deve essere sminuzzato con le mani, mai con il coltello….Anche la mamma faceva il pane in casa”. Tornando al dialetto, si dice convinto che se si perdesse, “scomparirebbe un bagaglio di saggezza antica”. Lenoci adora il dialetto. Nella postafazione Teresa Gentile, presidente del Salotto Culturale “Palazzo Recupero”, scrive che “la professoressa Maria Carmela Ricci, autrice del romanzo ‘Quella nevicata del ’56 in Valle d’Itria’ rivela nella sua scrittura fluida una cultura classica ben sedimentata e una non comune sensibilità”. Tutto giusto. Io, finito di leggere il libro, sono andato mentalmente indietro nel tempo, rispolverando ricordi. Devo confessare che Maria Carmela Ricci, con il suo racconto cesellato, ha anche arricchito il mio scrigno. “Quella nevicata…” è stato presentato alla grande sere fa, a Martina Franca, nella Sala Consiliare del Comune. L’ha condotta Rosa Maria Messia, alla presenza di un folto pubblico. Tra i relatori la stessa Gentile, Francesco Lenoci, il tenore Gianni Nasti, Benvenuto Messia, Giovanni Nardelli ed altri.






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