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mercoledì 11 ottobre 2023

Quante cose sono cambiate

Peppino Miccoli
IL TRATTURO QUASI SOLITARIO

E GLI AMICI CHE SE SONO ANDATI


Fortunatamente sono arrivati dalla

Bimare due amici, Mara e Pino, che

abitano Trullo Gigio, che da molto

tempo non aveva respiri. Imponente

sotto una quercia secolare, che domina

il paesaggio.

 

Franco Presicci  

D’estate salgo sul Chiancaro, a piedi come una volta, per risentire le voci degli amici che se ne sono andati, rivedere i luoghi mai dimenticati: la “vedovella” poco frequentata che ancora versa acqua fresca nei bottiglioni; i trulli rinfrescati, ancora intatti; le gobbe di pietra del vignale oggi nascoste sotto la terra ricca di filari di viti; il trulletto con la paglia quasi attaccato al muro a secco; il fondo che fu di Giovanni, curvato dalle fatiche sulla zolla; le ragazzine che giocavano a “Mammà s’ha perse ‘a scarpe de sete”; Pierino che non voleva fare il calzolaio come il padre; Ciccillo, che resisteva nel suo stato di scapolo.

Giovanni Montanaro al torchio

Tutto torna nella mia immaginazione. Cerco di captare i passi lenti, cadenzati dello zio prete: l’atmosfera di oltre settat’anni fa, e baluginano le figure di mio nonno Ciccio, seduto sotto una bouganville cresciuta con la forma di una campana fabbricata da Giuseppe Bellucci; della nonna affaccendata vicino alla cucina monacale; di zio Martino che, deposta la tonaca sull’attaccapanni, si è accomodato con i pantaloni alla zuava a ridosso della porta del trullo grande mentre legge il breviario. Guardo tutto, i muretti a secco ancora ben tenuti, le case a cappuccio che mi erano familiari, l’entrata del trullo di Giovanni, alto, con diversi coni, possente, anche se antico, dominatore di una distesa di verde, ed emergono ancora scene del passato: le serate ritmate da chitarre e mandolini, gli scherzi, i racconti di maghi della pioggia. I ricordi pungono come i rovi. Scendo dal Chiangaro, arrivo a San Francesco, compero mezzo chilo di mozzarelle e uno di pane da Fragnelli, entro nell’auto che ho parcheggiato davanti alla ferramenta “La Madonnina” e metto in moto. Su via Mottola il mio sguardo sbircia altre case a cono di gelato, gli sbocchi dei tratturi, la chiesetta in cui ancora qualche sacerdote dice messa, e poi entro nel nostro, sulla destra, lungo quasi cinquecento metri, in terra battuta, con un trullo scapitozzato invaso dagli sterpi, incuria da condannare perché questo è uno sfregio alla bellezza di Martina. Infine, proprio di fronte a noi, il vigneto di Peppino infestato dalla peronospera, che fa piangere il cuore.

La vigana colpita dalla peronospera

Quanto sudore versato per quei grappoli, che rischiano di essere strappati. E’ bello, silenzioso, risposante, tranquillo, il nostro tratturo. Ma oggi è come una vena senza sangue: a poco a poco si è svuotato. E’ rimasto il rumore del trattore che traccia solchi nella terra e quelli della motozappa o del tagliaerba di Donato, giovane buono, devoto di San Pio, lavoratore instancabile forse anche per vincere la solitudine. Ciao, Martina. Me ne sto seduto sul piazzale, dando un occhio al glicine che cerca di buttar giù la struttura che ormai fa fatica a sopportarne il carico; osservo gli alberi più vicini, l’alloro e il fico fasanese, e mentalmente passo in rassegna gli amici che sono scomparsi. Penso alle tavolate, ai giochi con la pompa dell’acqua, ai canti, al forno quasi sempre acceso la domenica sera, per confezionare pizze e panzerotti, alle chiacchierate davanti al cancello del trullo di Maria, allo scarpone abbandonato sul muretto a secco di Peppino, che non c’è più da tanto tempo.

Il trattore
Sono tentato di portamelo via per ricordo. Ma obbedisco alla vocina che mi aiuta a non compiere misfatti. Sono passati gli anni e quella scarpa non l’ha mai toccata nessuno, neppure Rosa - la moglie del defunto amato - che piange ancora. Ho una foto tra le cose più care: Peppino acculato sul muretto intento a mangiare un panino. Doveva essere mezzogiorno, quando la scattai. Un momento di riposo tra una sgobbata e l’altra nella vigna, che aveva piantano una trentina di anni fa: la ruspa aveva trascinato la terra verso l’alto, riempito il vuoto di grossi sassi, ricoprendoli di terra per colmare il dislivello. Seguirono le piante. I miei ricordi continuano a scorrere placidi come l’acqua del Galeso. Una volta sturata la memoria chi lo ferma più, il flusso. Rivedo apparire Peppino alla guida del motocarrello con gli attrezzi che gli servono per la giornata. Giovanni è ancora sulle sue zolle a raccogliere le zucche grandi quanto meloni, pronto per il lavoro di muratore a San Vito, ai margini di Taranto, per completare la casa di un avvocato. Sento Rosa e Maria irritati per un albero messo nel punto sbagliato da uno zappatore che svolge un mestiere che non gli appartiene; Carluccio che se ne sta addossato al cancello come se fosse il guardiano cipiglioso del tratturo, mentre i ladri s’intrufolano nel suo trullo.
 
Gatto nel tratturo
 
 
Questo tratturo è come una scacchiera che non ha più pedine. Fortunatamente Trullo Gigio ha riaperto la sua porta con l’arrivo di Mara e Pino: lei nata nella gloriosa città vecchia della Bimare, cantata da poeti, pittori, scrittori (ah Giacinto Peluso e Nicola Caputo!) M’inoltro nel tratturo di fianco, che in verità non è più un tratturo, ma una via a zig zag, per un tratto asfaltata e per un altro accidentata, a saliscendi, con un bosco su un lato fino alla chiesa della Madonna della Consolata, che si erge su un ampio spazio, da cui si diparte la strada che va a Noci (ha anche un nome: Papa Domenico).
Trulli lungo il tratturo


Lo faccio tante volte, quel percorso, per andare dai miei cari amici Argese e Gacobelli, e non incontro che carretti, furgoni, trattori e auto veloci come all’autodromo di Monza. Mi ristora il loro affetto e mi deliziano le partite a scopone con Vito, Angela e mia moglie Irene. Cosimina e Matteo, Antonella, Nicola riempiono di voci i pomeriggi, i figli Gerardo e Vito “junior” meditano sul prossimo esame all’università. Qualche volta passeggio su un altro tratturo, dove mi accoglie una signora che fa il formaggio, ha mucche e tori, qualche maiale, e vende le uova e altre cose. E lì mi fermo una decina di minuti a stuzzicare le galline che starnazzano nel cortile. La signora è gentile, premurosa, anche se scuce soltanto solo un paio di parole, tra dolci sorrisi. L’aria della campagna fa bene allo spirito. Gli amici mi vengono a trovare e quando mi chiedono che cosa faccia dalla mattina alla sera, non dico che leggo o scrivo, che mi stendo sulla sedia a sdraio e ascolto l’ulivo e il fico, che hanno l’età di Matusalemme, loquaci soprattutto quando li dondola il vento e l’autopompa di Teodosio non gracchia mentre innaffia l’orto. Qualcuno arriva da Milano, soggiorna a Taranto e fa un salto da me a Martina. S’inebria davanti al paesaggio e manifesta un po’ di invidia per la vita che conduco tra noci e mandorli, cachi e ciliegi ed esalta Taranto come un gioiello, con il Mar Piccolo e le barche che vi danzano, la ringhiera con l’affaccio sull’altro mare, il Grande, ma loro hanno la cotta per il verde, che è un dono di Dio: Martina.

La vigna oltre il tratturo

Io do energia all’invidia, adducendo che spesso parlo all’alloro e all’ulivo e che loro mi ascoltano pur senza rispondermi perché parliamo linguaggi diversi. Non mi credono, naturalmente, ma la loro invidia, non ostile, non bieca, non maligna, ma benevola, quella che si dichiara per fare un complimento, per tutta questa pace che mi avvolge, per questo panorama baciato dal sole. E quando arriva il vento i rami degli alberi dondolando emettono una musica dolce che induce al sogno. E’ sul piazzale che apparecchiamo la tavola, non disturbati dal passaggio di qualche auto, magari quella di Teodosio, che sale verso il Trullo Gigio, fino a ieri solitario e da qualche mese abitato da Mara e Pino, due tarantini veraci, di quelli che si ascoltano volentieri quando parlano il dialetto, sonoro, onomatopeico. Gli amici godono alla vista delle orecchiette e delle altre specialità: fegatini, mozzarelle, capocollo del luogo, fioroni, susine, pesche. Mio cugino Francesco, martinese che viveva a Taranto, parlava con il fico che sta su un lato del parcheggio delle macchine. Lo sorpresi mentre gli diceva. “Tu hai avuto il coraggio di prendermi in giro. Ti credi furbo? Mi hai colpito alle spalle, a tradimento. Se non fossi un fico storico, ti riempirei d’insulti”. Rimasi ad ascoltare attento e interessato il seguito.

Tratturo in salita

E capii che l’albero era innocente: era stato lui ad innestare su quel tronco un profico. Era capatosta, s’infilava in polemiche pretestuose che non finivano mai. Per lui la maggiorana che abbiamo sul bordo dell’altro piazzale era origano e non ci fu verso di indurlo alla ragione. Ma era un galantuomo, innamorato dei campi. Lasciava nello sgabuzzino, di cui aveva le chiavi, i suoi scarponi e li calzava d’inverno, quando veniva a controllare, ma in verità per trascorrere un paio d’ore in questo paradiso. Prima di Peppino il fondo me lo curava “Memìne cape de pètre”, che mi aveva chiesto il permesso di piantare una volta i lupini e un’altra volta le fave, ma quando arrivavo trovavo le piante spogliate e la terra non curata abbastanza. Uno che si diceva contadino potò gli ulivi fuori tempo e ne fece morire cinque. Maria lo rimproverò e lui le rispose con arroganza. Poi ho scelto Donato, che vive da solo nel trullo lasciatogli dal padre Giovanni e dalla madre Stellina, il primo portato via dal Covid, la seconda da una strana malattia.

Quercia alla fine del tratturo
Anche in paese ho perso parecchi amici: il giornalista Paolo Aquaro, che aTaranto dirigeva la rinata “Voce del Popolo”; Franco Punzi, presidente del Festival della Valle d’Itria e amico di Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano; Pierino Pavone, cappottaro che sapeva a memoria tutte le storie di papa Galeazzo; Peppino Cito, che realizzava bellissimi trulli in terracotta; Ninì Ponte, che aveva trasferito la sua falegnameria in campagna, lungo la via per Ceglie, e se ne serviva per lavoretti che regalava agli amici; l’avvocato Giovanni Chisena, che un tempo firmava Anchise i suoi articoli sportivi su “la Gazzetta del Mezzogiorno”; Alessandro Caroli, persona squisita e coltissima, autore di diversi libri, tra cui “Musica in Valle d’Itria- Come nasce un grande Festival”, breve storia della rassegna martinese che ha conquistato il mondo. La presentazione è di Giuseppe Giacovazzo: “E’ venuto in campagna a trovarmi Alessandro Caroli con il manoscritto di queste pagine pronte per la stampa. E’ venuto all’indomani della inaugurazione del Festival di Martina Franca, XXV edizione, per il quale avevo scritto un articolo su ‘La Gazzetta del Mezzogiorno’ e avevo parlato di lui nei termini che qui riporto, creatore e realizzatore delle prime difficili edizioni, non ebbe per compagna la capricciosa dea Fortuna. Pagò anzi ben salatissimo tributo alla dea bendata. Dovette accettare un immeritato esilio, evitò la bancarotta e partì senza un saluto…”. Se n’è andato recentemente anche Alessandro, preceduto da Giacovazzo, autore di “Puglia, il tuo cuore”. E se n’è andato l’avvocato Elio Michele Greco, della Fondazione “Nuove Proposte”.

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