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mercoledì 24 gennaio 2024

I commissariati di polizia

 

FRAMMENTI DI VITA VISSUTA RIMANDATI DALLA MEMORIA

Episodi, situazioni, personaggi della
malavita, ambienti, storie, indagatori
intelligenti e coraggiosi, pronti a ogni
sacrificio pur di raggiungere lo scopo.
Il mondo della nera e i suoi cronisti.








Franco Presicci

Conquistai il quarto piano del “Giorno”, in via Fava 20, di fronte alla “Cassina de’Pomm” e al naviglio Martesana, da tempo ricoperto, nel quartiere di Greco, dopo aver seguito per tre anni i commissariati di polizia e qualche caserma dei carabinieri (una era in via Finzi, entrata da viale Monza). Non smetterò mai di ringraziare prima Enzo Magrì, proveniente dall’”Europeo”, settimanale della Rizzoli, dove fece ritorno, lasciando il posto al suo conterraneo Enzo Catania, un vulcano di idee che all’arrivo di una notizia di rilievo non ci pensava due volte a smontare una pagina per darle il maggiore respiro possibile. Li ringrazio per aver pensato a me per quel compito, molto delicato e faticoso, perché quegli avamposti erano serbatoi inesauribili per un cronista desideroso di fare mietiture abbondanti. Alle 11 del mattino prima Macrì e poi Catania aspettavano la mia prima telefonata, per essere sicuri che alcuni spazi erano già occupati.
Chiarelli, Beticelli, Presicci, Catania

Io giravo con la mia 127 quasi tutta la città, per andare dal Ticinese a San Siro, da Lambrate a Porta Genova e non ne uscivo mai con il carniere vuoto. Lì un ragazzo era improvvisamente scomparso e la sorella, che ne aveva cura dopo la scomparsa dei genitori, lo cercava disperatamente e dopo oltre un mese lo rivide ricomparire in casa di uno zio, che aveva fatto il partigiano. In viale Papiniano, dove il commissariato era diretto dal dott. D’Ambrosio, gli agenti prelevarono dal caseggiato in cui viveva un personaggio accusato di essere coinvolto in un movimento di eroina e organizzava festini fastidiosi per la quiete dei coinquilini. Al commissariato di Lambrate sorpresero un mercante di orologi falsi, depositati sotto la vasca da bagno, prendendoli all’occorrenza infilando la mano in un buco nascosto da una mattonella. In una casa di ringhiera di corso San Gottardo, a una settimana dalla sua morte fu trovato un uomo, grazie alla radio che gracchiava ininterrottamente di giorno e di notte. Dalla foto notai che era il parcheggiatore di corso Como, che qualche tempo prima mi aveva confidato di essere il fratellastro di Tina Pica, la nota e simpaticissima attrice che partecipò tra l’altro a diversi film con Vittorio De Sica. In via Novara un cane molto intelligente, se non ricordo male uno spinone italiano, una mattina, passeggiando libero con il padrone ai margini del parco di Trenno, scorse un portafoglio su una panchina e senza esitazione lo afferrò dirigendosi al commissariato. Il poliziotto, imperterrito, visto il malloppo che l’animale lasciava cadere dalla bocca sulla scrivania, interrogò con lo sguardo l’accompagnatore: “Evidentemente ha imitato me – la risposta - Anch’io tempo fa trovai un portamonete per terra e venni a consegnarlo a voi. Vi giuro che io non gli ho dato alcun comando: ha fatto tutto da sé”.
Armando Sales
Al Ticinese l’ispettore capo Armando Sales, un napoletano con grandi doti umane e di intelligenza, e un’ottima conoscenza del diritto penale, mi rifilò una notizia con la preghiera di non pubblicarla. Mi allettava, mi stuzzicava, ma promisi e mantenni la parola, convinto anch’io che se quella chicca finiva sui giornali sarebbe stato involontariamente un suggerimento per i ladri d’auto. Ne parlai con il capo degli autisti del giornale Monterosso, che facendo fare l’esperimento al meccanico di via Fava rimase di stucco di fronte al risultato. L’inventiva dei ladruncoli, nel gergo della mala milanese “lader de pan de mej”.
Poi un giorno Enzo Catania, “Etna” come lo chiamavo io dal nome del vulcano che ogni tanto sbuffa ed erutta, venne alla mia scrivania e con un sorriso seminascosto sotto la barba nerissima mi disse: “Da domani niente più commissariati: farai parte del pronto intervento con Piero Lotito, Giorgio Guaiti, Giovanni Basso. Sono sicuro che formerete una squadra molto affiatata ed efficiente”. Fu così fu. In redazione – va detto – c’erano ottimi colleghi come Nino Gorio (vinse il Premio cronisti di Senigaglia per uno “scoop” internazionale) e Giancarlo Rizza, oltre a Tanino Gadda.

Tanino Gadda

Nino Gorio
Cominciai ad occuparmi di criminalità organizzata, a studiare gli elementi che la componevano, le loro vite, le loro tecniche, gli ambienti che frequentavano. Qualcuno andai anche a cercarlo, sotto casa, in un bar, per intervistarlo. Riuscii ad avvicinare il boss più famoso della Lombardia, anzi di tutt’Italia. Dopo aver raggiunto un accordo con la mamma, gli parlai in tribunale, dove si svolgeva un processo a suo carico. Conoscevo il personaggio per aver letto pagine e pagine su di lui, compresa una storia pubblicata dal “Corriere d’Informazione” a firma di Ferruccio De Bortoli. La scovai nel fornitissimo archivio de “L’Unità”, nella vecchia sede di viale Fulvio Testi. Formai una raccolta di ritagli di giornali (comprendevano mafia, camorra e ‘ndrangheta, “stidda”) così ampia che trovavo difficoltà a fare entrare l’auto nel box. Ma la consultavo poco: una volta letti, rimanevano incollati nella memoria. Un pomeriggio venne l’amico e collega di “Repubblica” Piero Colaprico, più giovane di me, ma già ben collaudato, e rimase stupito da tante buste, anche tre o quattro o cinque sullo stesso argomento. La voce si sparse, e quando tanti anni dopo fu allestita una grande mostra sull’attività della polizia un questore mi telefonò per chiedermi di prestargli quel tesoro. Non potetti accontentarlo: avevo già fatto piazza pulita qualche mese dopo la pensione. Un po’ di quell’archivio era incollato nella mia testa. Ricordavo bene per esempio l’operazione del primo gennaio del 1986, in cui la Squadra mobile sequestrò 100 chili di eroina in un abbaino di viale Espinasse, arrestando due persone.
Seguivo la cronaca senza risparmiarmi. Non mi pesava essere buttato giù dal letto alle 2 del mattino per un omicidio (uno in viale Suzzani: due turchi trovati incaprettati nel bagagliaio di una Peugeot).
Giancarlo Rizza

Quando poi Guaiti lasciò la nera per la scuola, Lotito per la cultura, Basso per la cucina, rimasi solo ma non mi persi d’animo. Nutrito di passione, entusiasmo, curiosità, attaccamento al mestiere, non mi risparmiavo. Se alla fine del mio turno di notte, catturavo la notizia di una sparatoria, chiamavo il fotografo, di solito Lorenzo Pizzamiglio o Giovanni dell’Abate o Gaetano Montingelli, sempre pronti a correre, c’infilavano nell’auto guidata da un autista e via. Gli autisti, Gramegna, Ricciardi, Camarda, Napolitano, Gusmaroli e altri erano talmente bravi e così conoscitori delle vie di Milano che in un baleno scaricavano il “nerista” sul posto. Ne ho visti, di cadaveri, di giorno e di notte: uomini di notevole spessore criminale e gregari, sorpresi da “killer” spietati nei ristoranti, nelle piazze, sulla strada, in un bar, ai margini di una festa. Qualche volta le scene le rivedo, limpide come davanti a uno schermo cinematografico o alla televisione.
A volte mi viene in mente la strage del Lorenteggio, il 18 novembre dell’81: mi ero appena seduto a tavola, quando mi chiamò Gigi Gervasutti, il vice capocronista, pregandomi di raggiungere al più presto il teatro del fatto di sangue. Conoscevo tre delle vittime, avendole viste al mercato della droga più bazzicato della Lombardia. Nascosto dietro una serranda, per tre o quattr’ore assistetti a tutto il movimento. Chi aveva ordinato quella strage, erede dell’impero delle bische, fu colto di sorpresa dalla polizia nella sua abitazione il mattino alle 3 del 28 settembre di tre anni dopo, in seguito all’arresto a Torino di un elemento della sua stessa banda.
Milano allora era spesso teatro di fatti di sangue: uno al giorno, a volte anche tre. Esplodevano conflitti a fuoco a San Siro, al Parco Lambro, in via Selvanesco. Qui, all’alba del 29 giugno dell’84, in un campo di granturco vennero uccisi a colpi di pistola tre persone. Per “Il Giorno” sul posto si precipitò Piero Lotito, scrivendo poi un meraviglioso articolo. Era il giorno del suo compleanno. E già era alla Cultura.
Come si sa, attraversavamo anche gli anni del terrorismo ed eravamo impegnati anche a recuperare i volantini con cui le Br rivendicavano le loro imprese.
Antonio Pagnozzi

Chissà più quante volte il cronista del turno di notte, e anche di giorno, riceveva una telefonata che gli indicava un cestino portarifiuti in via Imbonati o in via Melchiorre Gioia vicino alla chiesa di Greco che fronteggia la “Cassina de’ Pomm” o nel mezzanino di via Palestro della metropolitana…. Ho visto i corpi del giudice Galli alla Statale e quelli dei tre poliziotti del Ticinese, il mattino dell’8 gennaio ‘80 (Cestari, Santoro, Tatulli), con i quali ero stato a cena qualche sera prima in un ristorante di piazza Sant’Eustorgio con agenti e dirigenti del commissariato Ticinese. Erano stati uccisi da vili e implacabili raffiche di mitra mentre controllavano una scuola. Non dimentico le tracce del terrore sui loro volti. Ricordo le lacrime di Antonio Pagnozzi, allora capo della Squadra mobile e uomo di grande umanità. Difficile non essere assaliti dai ricordi mentre sono seduto sulla poltrona a leggere un libro di Carofiglio o “Sequestro alla milanese”, di Piero Colaprico, ripresentato alla Feltrinelli con interventi musicali.
I ricordi sono autoritari: non ti chiedono se possono ripresentarsi. S’impongono. E a volte fa anche piacere riceverli, vederli raccontare in modo limpido come acqua incontaminata brani della nostra vita.

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