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mercoledì 10 febbraio 2016

La dea bendata è volubile e capricciosa


I sogni al banco lotto finiscono presto

 

Molti giocatori credono nella protezione dell’aglio o del ferro di cavallo. Migliaia di storie vengono tradotte in numeri. Un signore anziano ebbe in sogno tre numeri dalla sorella, ma erano una bufala. Un muratore vinse 2 milioni, ma la moglie, per errore, aveva buttato via il biglietto.

 
Franco Presicci
Non avevo mai messo piede in un botteghino del lotto. Le notizie che avevo sull’argomento venivano da Luciano De Crescenzo e da Matilde Serao. Avevo anche letto “Le signorine del banco lotto”, nel volume “Vieni, c’è una strada nel Borgo”, di Nicola Caputo; e “Tùtte le ròte” di Giacinto Peluso; dal quale avevo appreso, fra
Bruno Dileonardo sulla soglia del suo bancolotto 
l’altro, che questa sfida alla fortuna all’inizio del secolo scorso a Taranto si chiamava “’a bonaficiàde”, le cui estrazioni venivano stampate su un bollettino nella tipografia Lodeserto a Palazzo Galeota e diffuse da ragazzi dai 10 ai 15 anni. Il giorno in cui l’età mi mandava in pensione confessai la mia ignoranza al direttore del giornale, dopo aver ascoltato la proposta di un contratto di collaborazione, che contemplava anche una serie di articoli sul lotto. Lui si disse convinto che me la sarei comunque cavata, visto che non mi stava chiedendo di trasformarmi in esperto in un settore ignoto a entrambi. E pensai che mi sarebbe piaciuto descrivere ambienti, personaggi, superstizioni, curiosità.... Mi misi subito all’opera, divorando libri, oltre a una tesi di laurea, ma soprattutto, da vecchio cronista che aveva mangiato panini e polvere per anni, cominciai a peregrinare da una ricevitoria all’altra, in periferia e in centro, ascoltando storie, osservando espressioni, atteggiamenti di persone che all’addetto comunicavano le combinazioni con voce bassissima, perché, se i vicini le captavano, la dea bendata poteva prendersela a male; e altre che, per lo stesso motivo, le passavano scritti su un foglietto. Ricordo anche i giorni febbrili, nel ’95, della latitanza del “4” sulla ruota di Genova e le code, che s’ingrossavano ogni settimana e le somme che attraversavano gli sportelli. Seppi che in quel periodo una contessa bruciò una decina di milioni e un barbone due.
Titolo de "Il Giorno"
Ho conosciuto tanti patiti del lotto: chi lo considerava addirittura una fede e chi invece una droga. Chi giocava da una vita senza vincere mai; chi continuava ad affidarsi alle giocate ereditate dal padre; chi le ricavava dalle targhe delle auto o dalla rubrica telefonica; chi si ispirava alle date delle nascite e dei matrimoni, alle liti, all’aereo precipitato, al palazzo polverizzato…C’era chi consultava sistematicamente la Smorfia, libro sacro in questo pianeta, e chi sosteneva di averla tutta in testa. E’ a quella che chiedeva aiuto l’impiegata quarantenne che sognava di giacere con l’idraulico o il macellaio, sottoponendo poi l’interpretazione al titolare del botteghino, che confermava o correggeva. Nell’estate ’96, in ferie a Martina Franca, per allargare il mio orizzonte, già ampio per le telefonate che facevo in altre città, volli farmi un giro per i paesi vicini. In uno di questi la titolare di un banco lotto, esile, imbiancata ma ancora dotata di un certo fascino, da sessant’anni nel campo, mi raccontò di un muratore che consegnando il biglietto alla moglie le aveva detto di buttar via il vecchio e quella per errore fece il contrario mandando in fumo 2 milioni.
Ma mi avrebbe tenuto nascosta per pudore una chicca, se non l’avesse stimolata una sua ex collaboratrice. Così mi venne delineata una donna fresca, alta, bella, bionda, forestiera, che avendo sognato un amplesso con un amico la pregò di darle un’imbeccata, vincendo 60 milioni.
Ebbe l’imprudenza di riferire a chi aveva condiviso con lei l’alcova onirica, e quello accampò il diritto di avere la metà della vincita, perché a suo dire anche lui aveva fatto la sua parte. “Ma rimase a bocca asciutta”. Sembrava la trama di una commedia di Eduardo.

In un bar fuori della Puglia qualche cliente puntava su “visite” notturne di “aùre” e “munacijdde” a sorelle, figlie e nipoti. Obiettai che questi folletti erano un prodotto della fantasia popolare e l’interlocutore mostrò di non gradire: “Proprio a mia zia è capitato, e non tanto tempo fa, di trovare nella stalla, con la criniera e la coda intrecciate, la giumenta acquistata due giorni prima”. Mi venne in mente l’omino con gli occhiali alla Cavour che nell’hinterland milanese affermava di avere contatti con “Ciappin”, lo spiritello lombardo che “mi appare quando sono fra le braccia di Morfeo”. A Milano, nei pressi della stazione Centrale, mi venne presentato un tipo “superprotetto” da oggetti apotropaici. Basso, esile, occhi d’antracite, testa pelata, elegante, a capo di una piccolissima azienda, mi accompagnò nel suo ufficio, pieno di collane e grappoli di aglio appesi; corni di ogni dimensione; ferri di cavallo tutti con sette buchi, “quanti devono essere per assicurare il massimo della garanzia”; ciocche di peperoncino piccante, che a suo dire, somigliando nella forma e nel colore all’amuleto, facevano lo stesso effetto. “Io sono sempre corazzato. Uno spicchio d’aglio me lo porto in tasca quando vado a tentare la sorte”. “Vince?”. “Qualche volta”. Somme corrispondenti al prezzo di una cena in una modesta trattoria, ma lui sperava nel colpo grosso.Un signore di 85 anni, legato più al gioco che al cibo, da tempo supplicava la sorella deceduta di dargli un segnale. Lo ricevette e giocò per sei mesi un terno sulla ruota di Bari senza mai prendere una lira. Diceva, disperato, che forse aveva capito male o la parente si era sbagliata. Andò diversamente a una casalinga che dormendo aveva visto il marito morire con i funghi: vinse 9 milioni; ma il coniuge se ne andò davvero dopo tre mesi. Un napoletano giurava di essere stato un “positivo” fino a quando non commise l’errore di mettersi in coppia con uno negativo. “Prima o poi l’errore mi verrà perdonato”.
Bruno Dileonardo
La superstizione è cocciuta. In alcune ricevitorie ogni mattina dovevano raccogliere il sale cosparso negli angoli da chi considerava il condimento un antidoto contro il malocchio. Un tale dallo sguardo obliquo si fermava sulla soglia ed esaminava i presenti: se qualcuno gli sembrava sospetto, correva dal tabaccaio di fianco, si riforniva e neutralizzava il mattone diventato “scalognato”.
Bruno Dileonardo, del banco lotto di via Borsieri, chiuso da qualche anno, è stato il mio primo maestro nella materia. E lui, come altri suoi colleghi, mi informava che la stragrande maggioranza degli scommettitori è fortunatamente immune da queste credenze. E si tiene lontana dagli “assistiti”, sentii dire in un altro luogo: “Chi sono costoro?”. Figure che suggeriscono i numeri in cambio di un caffè. “Escono?” Domanda ingenua. I numeri sono viscidi come l’anguilla.Quanti episodi ho scoperto in questi pellegrinaggi! E quante scene ho visto!. Come quella della vecchietta arzilla e autoritaria, che, esprimendosi in dialetto, azzardava 100 mila lire con il “trapano” (da tradurre rapido) arrivato in ritardo, e il “timone”, inteso come tumore. Ne ha sentite a josa Santo Pantaleone, protettore del banco lotto (nato a Genova nel 1576), che Balzac definì l’oppio della miseria e donna Matilde il grande sogno di felicità che il popolo di Napoli fa ogni settimana. Non solo quello di Napoli, aggiungo.

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