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mercoledì 11 maggio 2016

UN TEMPO SUL NAVIGLIO NAVIGAVANO I BARCONI



Portavano sabbia, ghiaia, generi alimentari,  i marmi di Candoglia per la Fabbrica del Duomo.

Da oltre un secolo è scomparso  anche “el Barchett de Boffalora”;  da quattro anni la Viscontea,  bella, elegante, salottino signorile 

 


Solo un poeta disse loro addio

 




Franco Presicci
 
Veduta del Naviglio Grande
Che io sappia, non hanno eretto un momento agli uomini che governarono i barconi sul Naviglio Grande.E non so se a qualcuno sia venuta in mente l’idea. A suo tempo a San Rocco di Quistello nel maggio ’74 hanno fatto onore alla prima Lega del contadino con una statua in bronzo eseguita dal grande scultore Giuseppe Gorni, che plasmava l’argilla del Po; a Massimo Visconti nel ’72 hanno immortalato l’ombrellaio; a Vigevano il calzolaio e da qualche altra parte lo spazzacamino. Ma i barcaioli, in milanese “battilocch”, che per secoli portarono a Milano ogni genere di merce, soprattutto il marmo di Candoglia prelevato a Tornavento per la Fabbrica del Duomo, sembra siano stati dimenticati. A ricordarli, attraverso la storia di uno di loro rimasto senza lavoro, è stato il regista Lamberto Caimi con il cortometraggio “Ona strada bagnada”, che nel 1999 vinse, tra gli altri, il Premio Studio Universal. Nel maggio del 2015, a mo’ di testimonianza, ne hanno rimesso in acqua un esemplare dopo averlo opportunamente restaurato.
Il Barcone
Facemmo in tempo ad incontrarne due, di “barchiroeu”. Salimmo sulla loro chiatta a un paio di chilometri dalla darsena, notando sulla chiglia la scritta “Aufo” (acronimo di “ad usum fabbricae opus”, quindi materiale esente da dazio, da allora usata per bollare chi mangia sulle spalle altrui). Era prossimo il 31 marzo del ’79, un sabato, giorno previsto per la cessazione dell’attività. Ma non fu quella, lunga 38 metri, larga 5, sigla 6L-6043, l’ultima ad approdare nel porto di Milano, dove il Naviglio Grande e il Pavese si congiungono. Nel brevissimo viaggio, e all’approdo, i nostri personaggi, che stavano uno a prua, uno a poppa, si mostrarono restìi alla conversazione. Riuscimmo a cavare appena i nomi, qualche parola di circostanza e la durata del loro lavoro giornaliero, dall’alba al calar del buio: quasi la stessa vita del cavallante, che nella cascina aveva cura delle stalle.
Il pittore Kodra saluta da un barcone

Nemmeno una supplica rivolta al patrono della categoria, San Giovanni Nepomuceno (in meneghino e per simpatia “San Gioann né pù né men”), al quale un simulacro è stata concesso, avrebbe avuto qualche risultato. Entrambi di media statura, bene in carne, un berretto in testa, all’attracco si scusarono avviandosi verso il ponte dello Scodellino. Erano davvero stanchi. Come non capirli, dopo tutta quella fatica? Altri barcaioli ci accolsero durante una Festa del Naviglio con la “troupe” di Telemontepenice e il pittore Ibrahim Kodra, che della Montmartre milanese subiva il fascino.Non si curavano dell’operatore che con l’occhio magico li riprendeva; non avevano il tempo né la voglia di alzare gli occhi verso la gente che assediando le bancarelle sull’alzaia o il “pont de preja”, li applaudiva. Dovevano badare a guidare il bestione, che non era impresa facile né agevole.
Vendemmiammo notizie dal pittore Guido Bertuzzi, che dipingeva i barconi osservandoli dal parapetto; conosceva tutti i “barchiroeu”, e molte storie, come quelle di Giovanni Re, detto “Paronett” per aver ereditato un lenzuolino di terra; e di Luigi Colombo, “Scarp-e ghett” per via delle ghette calzate la domenica dal nonno. Di quei lavoratori conosceva la vita e le sgobbate. Che durante i viaggi controcorrente aumentavano, nonostante il contributo della “rozza del naviglio”: cavalli vecchi e bolsi difesi in consiglio comunale da chi voleva metterli a riposo, riuscendoci dopo il 1918, facendoli sostituire con un piccolo trattore. Poi le chiatte finirono in deposito e stimolarono versi toccanti: “Adio navili beIl/ adio barcon/ amis che t’hee servii l’ingegn de l’omm”…Il barcone si fermava per sempre, dopo aver fatto avanti e indietro per secoli, con la pioggia, il sole o la “scighera” (la nebbia): “l’han soteraa senza sonà i campan”…. “Adio me car barchett del temp passaa”.

La Viscontea
Dalla seconda metà del XVIII secolo al 1913 su quelle acque navigò anche “el barchett de Boffalora” (altro nome ”de Bbiagrass”). Faceva il percorso da Milano a Magenta, portando contadini di Corsico, Gaggiano, Abbiategrasso, Castelletto, Magenta, ambulanti di ogni tipo,…e, a sentire Paolo Valera, giornalista e scrittore senza peli sulla lingua nato nel 1850, anche “una ciurma indisciplinata, sghignazzante, che metteva sossopra, rumoreggiava, canterellava, sciaramellava, sacramentava….”. Gente povera ma perbene, dunque, ma anche malfattori che a domanda rispondevano di essere diretti “a fa el monda del ris in Piemont”; mentre tenevano scritto in fronte l’appartenenza alla consorteria dei “locch”, i duri della malandra meneghina, che si sfamavano nella famigerata locanda di via dei Guast.
La cascina Guardia di Sopra vista dal Naviglio Grande
Il “barchett” partiva di buon mattino; e all’ora stabilita l’avvisatore andava sotto il Trofeo, monumento scomparso voluto da un vanaglorioso governatore spagnolo, urlando ” El barchett el vaaa!”, e gli interessati uscivano dalle osterie correndo per non perdere la traversata.Per sconfiggere la noia, su quella che veniva paragonata all’Arca di Noè si esibiva il “torototela”, una sorta di cantastorie dai versi zoppicanti, che alla fine del numero chiedeva “el sesin” (il soldo), mentre l’avvisatore passava con la “basletta”, un vassoio di legno, per riscuotere il prezzo del biglietto (43 centesimi per i viaggiatori e 5 per le merci). Poi la scena era tutta di “quel de la riffa”. Il “barchett” fu reso famoso dall’omonima commedia dell’apprezzatissimo autore del Teatro Milanese Cletto Arrighi, al secolo Carlo Righetti, presentata per la prima volta con successo nel 1870, avendo fra gli interpreti l’esordiente Edoardo Ferravilla, il più grande comico dei palcoscenici meneghini, tra l’altro maestro nel dosare la mimica e i silenzi. Per lui le luci della ribalta si spensero nel 1916.

Scorcio del Naviglio Grande
L'architetto Empio Malara
Oggi sul Naviglio Grande - che i milanesi, già durante i lavori battezzarono “Panperduto” per l’enorme quantità di denaro che assorbiva; tanto che insorsero e uccisero, gettandolo nel fosso, il podestà Beno de’ Gozzadini, colpevole di non aver osservato il programma di eliminare certe tasse preferendo finanziare il proseguimento dei lavori del canale - corrono barche, barchette, gommoni. Fino a qualche anno fa spiccava la Viscontea, voluta dIl pittore Kodra saluta da un barconeal noto e stimato architetto Empio Malara, che oltre ad aver dato alle stampe numerosi libri sui navigli, si batte per un loro uso più adeguato al nostro tempo e a quello futuro.
Sulla Viscontea, bella, comoda, elegante, un salottino signorile, facemmo un viaggio fino a Gaggiano in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Associazione Amici del Naviglio. Con noi c’era anche lo storico di Milano Guido Lopez, tra l’altro autore di “Navigliando”, di “Milano in mano”… Sollecitato dalle domande, Lopez descriveva le ville di delizia, le cascine, che dal naviglio prendevano l’acqua, le chiese, i castelli… che passavano davanti ai nostri occhi.
A fare gli onori di casa a Gaggiano fu Malara, qualche anno dopo mente della discesa da Locarno a Venezia di una decina di natanti su questa via liquida celebrata dal poeta salernitano Alfonso Gatto e da tanti altri, compresi i giornalisti Guiodo Vergani e Gaetano Afeltra. Il secondo, amalfitano innamorato di questi capolavori creati dall’uomo, scrisse: “La prima volta che venni a Milano, la proprietaria della pensione di via San Marco, quasi a scusarsi che dalla mia camera non si vedeva più il naviglio, mi disse: ‘Non sa com’era bello prima affacciarsi. Adesso si vede solo la strada. L’è brutt l’è brutt!’”. E nel volume “I Navigli” della Celip don Gaetanino annotò che queste vene d’acqua davano alla città un’atmosfera serena, di campagna. E’ qui che Carlo Castellaneta portava i forestieri, in via Magolfa o davanti alla chiesetta di San Cristoforo, “dove si dice che i nobili milanesi prima di partire per le crociate appendessero le chiavi delle cinture di castità”. E parlava loro dei barconi e dei “barchiroeu”, ai quali chissà se un giorno lo faranno, il monumento.

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