Portavano
sabbia, ghiaia, generi alimentari, i
marmi di Candoglia per la Fabbrica del Duomo.
Da
oltre un secolo è scomparso anche “el Barchett
de Boffalora”; da quattro anni la Viscontea, bella,
elegante, salottino signorile
Solo un poeta disse loro addio
Franco
Presicci
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Veduta del Naviglio Grande |
Che
io sappia, non hanno eretto un momento agli uomini che governarono i
barconi sul Naviglio Grande.
E non so se a qualcuno sia venuta in
mente l’idea. A suo tempo a San Rocco di Quistello nel maggio ’74
hanno fatto onore alla prima Lega del contadino con una statua in
bronzo eseguita dal grande scultore Giuseppe Gorni, che plasmava
l’argilla del Po; a Massimo Visconti nel ’72 hanno immortalato
l’ombrellaio; a Vigevano il calzolaio e da qualche altra parte lo
spazzacamino. Ma i barcaioli, in milanese “battilocch”, che per
secoli portarono a Milano ogni genere di merce, soprattutto il marmo
di Candoglia prelevato a Tornavento per la Fabbrica del Duomo, sembra
siano stati dimenticati. A ricordarli, attraverso la storia di uno di
loro rimasto senza lavoro, è stato il regista Lamberto Caimi con il
cortometraggio “Ona strada bagnada”, che nel 1999 vinse, tra gli
altri, il Premio Studio Universal. Nel maggio del 2015, a mo’ di
testimonianza, ne hanno rimesso in acqua un esemplare dopo averlo
opportunamente restaurato.
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Il Barcone |
Facemmo in tempo ad incontrarne due, di “barchiroeu”. Salimmo
sulla loro chiatta a un paio di chilometri dalla darsena, notando
sulla chiglia la scritta “Aufo” (acronimo di “ad usum fabbricae
opus”, quindi materiale esente da dazio, da allora usata per
bollare chi mangia sulle spalle altrui). Era prossimo il 31 marzo del
’79, un sabato, giorno previsto per la cessazione dell’attività.
Ma non fu quella, lunga 38 metri, larga 5, sigla 6L-6043, l’ultima
ad approdare nel porto di Milano, dove il Naviglio Grande e il Pavese
si congiungono. Nel brevissimo viaggio, e all’approdo, i nostri personaggi, che
stavano uno a prua, uno a poppa, si mostrarono restìi alla
conversazione. Riuscimmo a cavare appena i nomi, qualche parola di
circostanza e la durata del loro lavoro giornaliero, dall’alba al
calar del buio: quasi la stessa vita del cavallante, che nella
cascina aveva cura delle stalle.
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Il pittore Kodra saluta da un barcone |
Nemmeno una supplica rivolta al
patrono della categoria, San Giovanni Nepomuceno (in meneghino e per
simpatia “San Gioann né pù né men”), al quale un simulacro è
stata concesso, avrebbe avuto qualche risultato. Entrambi di media
statura, bene in carne, un berretto in testa, all’attracco si
scusarono avviandosi verso il ponte dello Scodellino. Erano davvero
stanchi. Come non capirli, dopo tutta quella fatica? Altri barcaioli
ci accolsero durante una Festa del Naviglio con la “troupe” di
Telemontepenice e il pittore Ibrahim Kodra, che della Montmartre
milanese subiva il fascino.Non si curavano dell’operatore che con
l’occhio magico li riprendeva; non avevano il tempo né la voglia
di alzare gli occhi verso la gente che assediando le bancarelle
sull’alzaia o il “pont de preja”, li applaudiva. Dovevano
badare a guidare il bestione, che non era impresa facile né agevole.
Vendemmiammo notizie dal pittore Guido Bertuzzi, che dipingeva i
barconi osservandoli dal parapetto; conosceva tutti i “barchiroeu”,
e molte storie, come quelle di Giovanni Re, detto “Paronett” per
aver ereditato un lenzuolino di terra; e di Luigi Colombo, “Scarp-e
ghett” per via delle ghette calzate la domenica dal nonno. Di quei
lavoratori conosceva la vita e le sgobbate. Che durante i viaggi
controcorrente aumentavano, nonostante il contributo della “rozza
del naviglio”: cavalli vecchi e bolsi difesi in consiglio comunale
da chi voleva metterli a riposo, riuscendoci dopo il 1918, facendoli
sostituire con un piccolo trattore. Poi le chiatte finirono in
deposito e stimolarono versi toccanti: “Adio navili beIl/ adio
barcon/ amis che t’hee servii l’ingegn de l’omm”…Il barcone
si fermava per sempre, dopo aver fatto avanti e indietro per secoli,
con la pioggia, il sole o la “scighera” (la nebbia): “l’han
soteraa senza sonà i campan”…. “Adio me car barchett del temp
passaa”.
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La Viscontea |
Dalla seconda metà del XVIII secolo al 1913 su quelle acque navigò
anche “el barchett de Boffalora” (altro nome ”de Bbiagrass”).
Faceva il percorso da Milano a Magenta, portando contadini di
Corsico, Gaggiano, Abbiategrasso, Castelletto, Magenta, ambulanti di
ogni tipo,…e, a sentire Paolo Valera, giornalista e scrittore senza
peli sulla lingua nato nel 1850, anche “una ciurma indisciplinata,
sghignazzante, che metteva sossopra, rumoreggiava, canterellava,
sciaramellava, sacramentava….”. Gente povera ma perbene, dunque,
ma anche malfattori che a domanda rispondevano di essere diretti “a
fa el monda del ris in Piemont”; mentre tenevano scritto in fronte
l’appartenenza alla consorteria dei “locch”, i duri della
malandra meneghina, che si sfamavano nella famigerata locanda di via
dei Guast.
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La cascina Guardia di Sopra vista dal Naviglio Grande |
Il “barchett” partiva di buon mattino; e all’ora stabilita
l’avvisatore andava sotto il Trofeo, monumento scomparso voluto da
un vanaglorioso governatore spagnolo, urlando ” El barchett el
vaaa!”, e gli interessati uscivano dalle osterie correndo per non
perdere la traversata.Per sconfiggere la noia, su quella che veniva
paragonata all’Arca di Noè si esibiva il “torototela”, una
sorta di cantastorie dai versi zoppicanti, che alla fine del numero
chiedeva “el sesin” (il soldo), mentre l’avvisatore passava con
la “basletta”, un vassoio di legno, per riscuotere il prezzo del
biglietto (43 centesimi per i viaggiatori e 5 per le merci). Poi la
scena era tutta di “quel de la riffa”. Il “barchett” fu reso famoso dall’omonima commedia
dell’apprezzatissimo autore del Teatro Milanese Cletto Arrighi, al
secolo Carlo Righetti, presentata per la prima volta con successo nel
1870, avendo fra gli interpreti l’esordiente Edoardo Ferravilla, il
più grande comico dei palcoscenici meneghini, tra l’altro maestro
nel dosare la mimica e i silenzi. Per lui le luci della ribalta si
spensero nel 1916.
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Scorcio del Naviglio Grande |
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L'architetto Empio Malara |
Oggi sul Naviglio Grande - che i milanesi, già durante i lavori
battezzarono “Panperduto” per l’enorme quantità di denaro che
assorbiva; tanto che insorsero e uccisero, gettandolo nel fosso, il
podestà Beno de’ Gozzadini, colpevole di non aver osservato il
programma di eliminare certe tasse preferendo finanziare il
proseguimento dei lavori del canale - corrono barche, barchette,
gommoni. Fino a qualche anno fa spiccava la Viscontea, voluta dIl pittore Kodra saluta da un barconeal
noto e stimato architetto Empio Malara, che oltre ad aver dato alle
stampe numerosi libri sui navigli, si batte per un loro uso più
adeguato al nostro tempo e a quello futuro.
Sulla Viscontea, bella, comoda, elegante, un salottino signorile,
facemmo un viaggio fino a Gaggiano in occasione dell’inaugurazione
della nuova sede dell’Associazione Amici del Naviglio. Con noi
c’era anche lo storico di Milano Guido Lopez, tra l’altro autore
di “Navigliando”, di “Milano in mano”… Sollecitato dalle
domande, Lopez descriveva le ville di delizia, le cascine, che dal
naviglio prendevano l’acqua, le chiese, i castelli… che passavano
davanti ai nostri occhi.
A fare gli onori di casa a Gaggiano fu
Malara, qualche anno dopo mente della discesa da Locarno a Venezia di
una decina di natanti su questa via liquida celebrata dal poeta
salernitano Alfonso Gatto e da tanti altri, compresi i giornalisti
Guiodo Vergani e Gaetano Afeltra. Il secondo, amalfitano innamorato
di questi capolavori creati dall’uomo, scrisse: “La prima volta
che venni a Milano, la proprietaria della pensione di via San Marco,
quasi a scusarsi che dalla mia camera non si vedeva più il naviglio,
mi disse: ‘Non sa com’era bello prima affacciarsi. Adesso si vede
solo la strada. L’è brutt l’è brutt!’”. E nel volume “I
Navigli” della Celip don Gaetanino annotò che queste vene d’acqua
davano alla città un’atmosfera serena, di campagna. E’ qui che
Carlo Castellaneta portava i forestieri, in via Magolfa o davanti
alla chiesetta di San Cristoforo, “dove si dice che i nobili
milanesi prima di partire per le crociate appendessero le chiavi
delle cinture di castità”. E parlava loro dei barconi e dei
“barchiroeu”, ai quali chissà se un giorno lo faranno, il
monumento.
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