Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 18 maggio 2016

Vito Arienti e le sue Edizioni del Solleone







LA STORIA DEL COSTUME

 

NEI TAROCCHI STORICI

 

 




Valorizzò talenti giovani e tradusse in mazzi le loro creazioni nella sua tipografia di Lissone.


Ridette vita a carte antiche come la “Corona Ferrea” e i vecchi mestieri di Milano di Ferdinando Gumppenberg, stampatore tedesco emigrato nel capoluogo lombardo nel 1809


                                                                                               





                                                                                        

                                                                                     

Il gioco geografico pubblicato da Vito Arienti nel 1975.


Franco Presicci


Era di Lissone. Un quarto d’ora di macchina da Milano. Lì aveva casa e bottega: una tipografia bene avviata. La casa, una villetta al centro del paese, sulla porta subito a destra dell’ingresso, aveva un foglio bianco con la scritta: “Teatro di Vito Arienti”. E in quel teatro lui custodiva circa 10mila tarocchi storici provenienti da molti Paesi, persino dalla Cina, e da diversi secoli. Ci volle quasi una notte per osservarne più meno trenta. Li prendeva con una delicatezza che si usa con un oggetto di vetro antico, e li spiegava con la pazienza e la competenza che tutti gli riconoscevano. “Queste vengono da Pechino, sono di bambù, hanno varcato la frontiera durante la diplomazia del Ping Pong; questi sono i “Tarocchi della Corona Ferrea”, del 1838, usciti dalla stamperia dei Giardini della Scala del bavarese Ferdinando Gumppenberg; questo è il Gioco del Cuccù (1846), che era in voga nelle valli bergamasche… Questo è uno dei due sopravvissuti al rogo nel settembre del 1725. E’ la “Geografia intrecciata nel gioco dei tarocchi”. Nel ‘700 si usava dare notizie di ogni tipo, anche filosofiche, sulle facciate delle carte. Questa con il numero 21 indica, come vedi, in Bologna un governo misto, mentre la gerarchia ecclesiastica ne rivendicava l’esclusiva’”. E allora? Allora si scatenò il quarantotto: l’arcivescovo Ruffo, imparentato con l’omonimo della Repubblica partenopea, ordinò che i mazzi venissero portati in piazza per essere bruciati, e che la disobbedienza fosse punita con il carcere (5 anni in Forte Urbano per i plebei, 3 per i patrizi). La tipografia venne chiusa; il tipografo perseguito; il canonico Montier, autore dell’opera, spedito in esilio, ma a quanto pare, avendo protettori in Vaticano, fece soltanto mezza strada.
Tarocco della Corona Ferrea
“Il mazzo della ‘Geografia’ lo ripubblicherò io e gradirei che fossi tu a fare la presentazione, rispolverando questa vicenda”. Parlava piano, sottovoce, Vito Arienti. E ogni tanto regalava un sorriso amabile. Lo conobbi nel luglio del ’72; avrà avuto una cinquantina d’anni. Alto, robusto, volto da Gino Cervi. Si alzava alle sei, leggeva le lettere che gli arrivavano da ogni parte del globo e andava in ufficio, dove rispondeva a collezionisti russi, giapponesi, americani che condividevano con lui un gusto quasi pagano per queste preziosità. Usava il termine “cartagiocofilia” mentre mi mostrava i “Tarocchi del Mantegna”; un mazzo con immagini caricaturali; “I tarocchi Visconti-Sforza”, Milano XV secolo, “realizzati da un artista la cui identità non è stata ancora individuata con certezza. Esistono elementi che ricondurrebbero a Bonifacio Bembo, ma non solo a lui. Che fosse destinato alla famiglia viscontea si ricava dalle insegne araldiche incise su alcune pezzi”.     E  poi: “Guarda che bello questo.    Ogni   volta   che   lo   guardo   mi  pare    di
Osvaldo Menegazzi
avvertire l’odore della polvere da sparo della Rivoluzione Francese”. Quando gli dissi che avevo bisogno di una sua fotografia per corredare l’articolo già atteso da Paolo Cavallina, che dopo aver condotto per anni la seguitissima trasmissione su Rai 2 “Chiamate Roma 3131”, aveva assunto la direzione de “Il Mezzogiorno”, quotidiano per l’Abruzzo confezionato a Roma, tirò fuori da una elegante scatola d’acciaio un mazzo disegnato dal pittore Domenico Balbi di Genova pubblicato nel '78 per l’Italsider: “Pubblica quattro o cinque di queste figure e l’impaginazione risulterà sicuramente migliore.
Hai a disposizione un’intera pagina”. Era fatto così Vito Arienti. Era considerato il maggiore collezionista di tarocchi storici d’Europa, aveva una cultura profonda in materia, faceva conferenze in ambienti elevati, era stato collaboratore della “Linea Grafica”, periodico autorevole del settore, ma era schivo alla pubblicità. Più volte, autorizzato dal pittore Filippo Alto e da Bruno Marzo, il primo responsabile culturale dell’Associazione regionale pugliesi (quando la sede era in piazza del Duomo) e il secondo presidente, ma mi pregò di soprassedere perchè aveva male a una gamba ed era costretto ad usare il bastone. Non voleva farsi vedere con quell’appoggio. “Quando avrò superato la difficoltà sarò lieto di venire. Adesso proprio no, ti prego. Sai che amo la Puglia e ho grande simpatia per i pugliesi”.Era di una cortesia disarmante. E generoso. Sensibile. Rispettoso. Cercò per anni gli stampi di un mazzo; venne a sapere che li possedeva un tipografo; intensificò la ricerca, e si trovò in un ospedale.
 Steve Erenberg, Stuart Kaplan e Osvaldo Menegazzi
“Non puoi immaginare la mia sofferenza quando fui di fronte a quel collega non più in grado di capire quello che dicevo”. Poi si accinse ad acquistare il mazzo con cui aveva giocato Gabriele d’Annunzio; ma gli chiesero una somma spropositata e fece marcia indietro. Decise allora di ripubblicare i classici, tra cui alcuni di quelli stampati dal Gumppenberg e di stimolare idee nei nuovi talenti, cominciando dal figlio architetto, che aveva un tratto graffiante. Ed ecco, quindi, le Edizioni del Solleone, che propose una produzione limitata e a prezzi molto bassi per regolare il mercato, ed ebbe un tale successo che, quando dal Giappone arrivò la richiesta di un quantitativo consistente, Arienti aveva solo qualche esemplare. Trascorrevo ore ad ascoltare Vito Arienti, nella sua tipografia, dove trovavo a volte Osvaldo Menegazzi, che ha creato bellissime carte elogiate da Stuart R. Kaplan, personaggio interessante, specialista mondiale della materia (di Osvaldo ricordo il “Tarot de Napoleon”, che per gli arcani maggiori si ispira alle imprese del Corso, ma anche i quadri surreali con le conchiglie che vagano tra le nuvole).
Massimo Alberini
E in quelle conversazioni apprendevo, per esempio, la storia del “mahjong”, nato in Cina forse nel XIX secolo; ammiravo un mazzo con scene de “I Promessi Sposi” realizzate dal Gonin; un altro con i vecchi mestieri di Milano, “Il Tarocchino lombardo”… Mi si apriva un mondo affascinante. “Sono esempi di “imagerie populaire”, testimonianze di costume, grafica, gusto pittorico…”.. Ferdinando Gumppenberg ritornava spesso nei suoi racconti.
Diceva: “Cominciò a ristampare vecchi giochi e valorizzò tanti artisti lombardi”. Proprio come stava facendo lui, riscuotendo  l’apprezzamento   di   Massimo  Alberini,   vero
Tarocchi di D. Balbi, di Genova
intenditore degli ambienti del circo e del collezionismo. Spuntò a un certo punto la curiosità sulle origini dell’uso “divinatorio” di ori e figure, e Arienti strinse il mento tra il pollice e l’indice e rispose: “Bah, c’è chi tira in ballo gli arabi, chi gli ebrei, chi i nomadi”. Stando a Boiteau d’Ambly, il cui volume “Les cartes à jouer e la cartomanzie” (Parigi 1852), ristampato a suo tempo dall’editore Forni di Bologna, la cartomanzia venne portata in Europa dagli zingari venuti dall’India. Per il Merlin, autore di “Origine des cartes à jouer” (Parigi 1869), nella storia degli arabi e degli ebrei le carte non erano previste nei mezzi di chiaroveggenza, dei quali pure parlano Peucer (1553) e Richelet (1732). Secondo altri, la pratica non ha radici antiche. Sarebbe stata inventata da un parrucchiere, un certo Alliette, che diventò benestante al tempo della Rivoluzione, stendendo un opuscolo sulla tecnica di “fare le carte” con un gioco detto di picchetto. Il barbitonsore anagrammò il proprio nome (Etteila) e fu imitato anche dalla Lenormant, confidente di Giuseppina Bonaparte. Pseudoindagini sul futuro a parte, le carte erano invise sia all’autorità politica sia agli ordini religiosi. Il 23 marzo 1376 il Consiglio della Repubblica di Firenze vietò il gioco delle carte (naibbe), comminando pene pesanti quanto quelle stabilite per il gioco d’azzardo. Nel 1473 San Bernardino da Siena tenne una predica a Bologna bollando le carte come la bibbia del diavolo. Vito Arienti non c’è più da anni. Ma mi capita di pensare alle sue dotte “lezioni” su questo pianeta, tra l’altro non immune dalla separazione fra ricchi e poveri: i primi utilizzavano carte dipinte su pergamena, cuoio o carta di lusso da veri artisti; mentre i secondi carte eseguite in qualche maniera.

2 commenti:

  1. Sono Giacomo Fassini e ho una collezione di quasi 3000 mazzi di carte artistiche di cui vado molto fiero. Ringrazio anch'io il maestro Arienti per tutto ciò che ha fatto per valorizzare il magico mondo delle carte da gioco. G. Fassini

    RispondiElimina
  2. Salve, come potrei mettermi in contatto con Giacomo Fassini?
    La mia e-mail è
    giordano.berti@gmail.com
    Grazie

    RispondiElimina