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mercoledì 15 giugno 2016

La vita e le opere di Dino Abbascià, imprenditore geniale


Abbascià ad un convegno

ARRIVO’ DA BISCEGLIE A MILANO A 13 ANNI

E COSTRUI’ UN’AZIENDA D’AVANGUARDIA






Cominciò lavorando in un negozio di frutta e verdura compensato solo con vitto e alloggio; ma si rifaceva vendendo gelati la sera in un cinema.

Aprì la “boutique” della frutta” in via di Porta Nuova.

 

Divenne vice presidente dell’Unione Commercianti e sedeva in vari consigli di amministrazione.

 

Un giornalista lo definì “il cavaliere con il nome da sultano”.

Abbascià ad una festa pugliese

 

 

Milano gli ha dato l’ "Ambroginod’oro".

 








Franco Presicci



Dino giovane a Milano

Un giorno andai a fargli visita nel suo ufficio, in via Toffetti 110, al Corvetto, a Milano, e lo trovai intento a sfogliare “I luoghi persi: atri, corti e cortili di Bisceglie”. “Guarda quant’è bello questo arco di via Gramsci…Che ne dici della Villa Guarini con la doppia scala di servizio, a tenaglia, per accedere al piano superiore?…Te lo regalo, il libro, così potrai conoscere la mia Bisceglie…”. “Tanti anni fa ci sono stato.
Dino Abbascià
Vi accompagnai mio figlio per una partita di tennis. Ne approfittai per vedere il porto, un dolmen, una chiesa, un pozzo monumentale, avvertendo il profumo della frutta fresca.”. Era innamorato del suo paese, Dino Abbascià, il cavaliere con il nome da sultano, come lo definì un giornalista. I professionisti della notizia lo rincorrevano spesso; e lui, che si alzava alle 4 del mattino per correre all’Ortomercato a comprare i prodotti della terra all’ingrosso e andava a letto tardi, rifacendosi con un pisolo il pomeriggio, non diceva di no a nessuno. Lo chiamavano in televisione a spiegare il motivo del prezzo delle ciliegie che aveva subito un’impennata? Prendeva subito l’aereo, se la trasmissione era a Roma.
Dino Abbascià con Nico Blasi
Un cronista gli telefonava per chiedergli un’intervista? Abbascià, detto anche il “fruttivendolo d’oro” e “il leader dell’ortofrutta”, lo riceveva senza fargli fare anticamera. Non gli importava che fosse di “Repubblica” o del “Corrierone” o di un foglio di provincia. “Il capocronista de “Il Giorno” – scuotendo la mia vita di pensionato – mi affidò una serie di pagine: la prima su di lui, mostrandomi una bella foto a colori che lo ritraeva nel suo deposito, enorme, ricco di colori e di odori, da dove partivano i furgoni, con il nome della ditta sulle fiancate, che distribuivano la merce ad alberghi, ristoranti, negozi, compresa la sua “gioielleria della frutta” di fianco all’ospedale Fatebenefratelli.
Abbascià-Avv.Bernardini De Pace-Prof.ssa De Natale
Chi non conosceva Dino Abbascià, faccia da Serge Reggiani, basso, capelli argentati, sorriso aperto, dinamico, generoso, scomparso il 13 giugno dell’anno scorso, giorno di Sant’Antonio, cogliendo tutti, amici e conoscenti, semplici estimatori, alla sprovvista? Un giorno mi telefonò da un ristorante dicendomi: “Ti passo una persona che ti vuole bene”. Era Giovanni Morandi, il direttore di allora del mio giornale. Incontrai Dino le prime volte nel salone di rappresentanza dell’Unione Commercianti, in corso Venezia, alla presentazione del libro di Emilia Bernardini “Antonietta e i Borboni”, e a quella di “Capatosta” di Beppe Lopez. Non era ancora il presidente dell’Associazione regionale pugliesi, ma il vice di Carlo Sangalli nell’istituzione che ospitava le manifestazioni.
Le Noci-Abbascià-Michele Stacca
E sedeva in vari consigli di amministrazione e ne presiedeva. Massimo Alberini, autorevole gastronomo ed esperto di circo e collezionismo, sul “Corriere della Sera” sottolineò le sue doti di “imprenditore geniale”, che per primo aveva portato sulle nostre tavole kiwi, papaia, mango…”. Con chi gli ricordava il giudizio di Alberini lui, che amava scherzare, si schermiva: “Non sapevo come si mangiassero, ma che gioia vedere i contenitori svuotarsi uno dietro l’altro”. Era un piacere stare con lui. Alle feste dell’Associazione, all’hotel Quark o altrove, era un anfitrione ineguagliabile. Quelle feste erano sempre affollate. Mentre le coppie si esibivano in un tango figurato, arrivava la telefonata di auguri da Al Bano da Cellino San Marco o da un Paese straniero; e Abbascià la faceva ascoltare con il vivavoce.
Abbascià-Le Noci a Martina
Erano amici da tempo. Abbascià era stato più volte a far visita al cantante nella sua tenuta in Puglia; e il cantante per lui si esibì anche all’Arcimboldi, dove, oltre a intonare le sue canzoni, raccontò episodi dei suoi primi anni milanesi, in cui lavorò come cameriere in un ristorante. Anche per Abbascià gli esordi a Milano furono magri. Arrivò quando aveva appena 13 anni: il 10 luglio del ’55; e appena scese dal treno alla stazione Centrale si sentì come Pinocchio nella pancia della balena. Uscito dalla Galleria delle Carrozze, ebbe un attimo di smarrimento alla vista dei colossi di cemento armato, del traffico caotico e assordante, della gente che correva quasi come Mennea su una pista. Ebbe la tentazione di tornare al suo paese, dove l’ambiente era più tranquillo e rassicurante. Passarono i giorni, lenti e pesanti, e scrisse alla madre pregandola di trovargli un posto nell’ospedale di don Pasquale Uva.
Abbascià con la figlia Annamaria
Ma ascoltò il cuore: “Dino, tu sei coraggioso e volitivo, acuto e sfacciato, caricati di fiducia e vai. Milano è tua”. E dopo aver bussato a varie porte fu reclutato come garzone in un negozio di frutta e verdura di via Pacini. Solo vitto e alloggio; e libertà dalle 13 alle 19 la domenica. I soldi li prendeva la sera vendendo gelati in un cinema. Ai mercati generali, che allora erano in via Cadore, andava con il triciclo e la sera rientrava tutto bagnato per l’acqua colata dalla catalogna portata in spalla. Le consegne ai benestanti le faceva in bicicletta. Tra i garzoni vantava parecchi amici, con i quali si incontrava davanti alla Centrale o in piazza San Marco, dove giocavano al pallone, quando il titolare non gli chiedeva di accompagnare il bambino al Campo Giuriati. Il piccolo Abbascià cominciava a sperare.
Le Noci-Marasca-Abbascià
Veniva mandato in via Montenapoleone, il “salotto di Milano”, dove visse e morì Carlo Porta, ad acquistare tre pesche fuori stagione per una donna gravida nel negozio Moretti, per lo scrittore Alberto Vigevani il “Toscanini della frutta”, e lui osservando le ciliegie in mostra in cofanetti raffinati come fossero perle, sognava un regno come questo. Era contento. “Le clienti mi chiamavano ‘sciur’ e mi dicevano ‘Dino, el me daga un poeu de dote’, che erano gli ingredienti per il minestrone”. Era bravo, infaticabile, entusiasta. Urlava la qualità della merce con tanta passione da meritare anche qualche applauso dalle “sciure” in coda. Era un venditore nato. E vendeva tanto che gli altri ragazzi impegnati nello stesso lavoro, gareggiando con lui, perdevano sempre e dovevano pagargli l’aperitivo. Cambiò negozio, dove a 16 anni assunse il comando. I primi bagliori del successo.
Dino con la moglie Teresa tra i bambini in Kenia
Nel ’69 sposò Teresa, deliziosa, gentile archivista romana incontrata in una vacanza; rilevò l’esercizio di via Porta Nuova, gli cambiò i connotati, lo arredò con eleganza e divenne l’Armani della frutta. Il sogno si era avverato: Dino Abbascià il nuovo Moretti. Aveva già chiamato a Milano il fratello Donato, ma il suo impero, che si andava delineando, aveva bisogno di più forze; quindi arruolò gli altri fratelli, e fece venire a Milano anche i genitori. La famiglia si ricomponeva nella città che sa riconoscere e premiare il merito. Dino Abbascià era un “habanero” e non si cullava sugli allori. Perfezionava l’azienda che aveva modellato con cura, intelligenza, senza risparmio di energie. Lo prendevano ad esempio, cercavano di imitarlo.
Dino costruisce una scuola in Kenia
Lo sbarbatello venuto da Bisceglie aveva raggiunto i suoi obiettivi, era sulla vetta.Parlava nei convegni e nei consigli di amministrazione con garbo, competenza, da esperto di marketing, mercati internazionali, di leggi sindacali e sanitarie…I giornali continuavano a scrivere di lui. Il professore Francesco Lenoci, docente alla Cattolica e autore di oltre 30 libri, pellegrino e diffusore di cultura (a giugno parlerà a Noci nel chiostro delle Clarisse), ha detto: “Ha creato un’azienda d’avanguardia; è un eccezionale fornitore di qualità”.E lo vede cavaliere anche in cielo, perché lì sicuramente lo hanno portato le tante opere di beneficenza da lui compiute, tra cui la scuola in Kenya per bambini costruita con le proprie mani. Abbascià stimava moltissimo Lenoci, che ricambiava con affetto; e lo volle vicepresidente dell’Associazione pugliese. Un giorno a pranzo mi disse: “Sai, davanti a tanti laureati io parlo con il linguaggio della scuola dell’obbligo: sono un fruttivendolo”. Altro che fruttivendolo (era anche iscritto all’albo dei giornalisti). Quando prendeva la parola i laureati lo ascoltavano con attenzione. Lo rispettavano. La sua scuola era stata la vita. E sarebbe andato oltre, se non lo avesse fermato, a 73 anni, quella maledetta che nel mio dialetto si chiama “senzanase”. Milano ha dato a Dino Abbascià l’”Ambrogino d’oro”. Arrivando in ritardo.

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