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mercoledì 23 novembre 2016

Aria antica in corso Garibaldi 95 a Milano




                                                                                   

Mario Bardi

TANTE STORIE COMMOVENTI

IN UNA CASA DI RINGHIERA


La solitudine di nonna Caterina.

 

I murales eseguiti da Anna e dai suoi allievi.

 

L’egiziano e l’israeliano che temevano di spararsi addosso nel Sinai, se richiamati.

 

Il pittore Mario Bardi che nel ’68 disegnò il disastro provocato dal terremoto a Gibellina.






Franco Presicci



Casa di ringhiera
Mi affascinano le case di ringhiera, con la loro aria antica. Visitai quelle di via Borsieri, nel quartiere Isola; di corso San Gottardo, al Ticinese... interessato alla vita che un tempo vi si svolgeva; ai giochi che impegnavano i ragazzini; agli artigiani e ai loro laboratori… Cercavo tracce, ricordi da raccontare sul giornale. Un mattino della fine di ottobre del ’76 mi fermai davanti allo stabile di corso Garibaldi 95 - quasi all’angolo con via Moscova – con il timore che avesse bisogno delle grucce. Osservandolo, pensai al maggio 1898, alle barricate erette dai rivoltosi polverizzate dalla carica ordinata da Bava Beccaris: tre vittime, compresa una bambina di 9 anni.
Entrai nel cortile (il primo di tre), dove, sulla destra, si apriva lo studio di un noto e apprezzato pittore: Mario Bardi, siciliano cinquantenne, baffi capricciosi, capelli folti. Mi invitò ad entrare e mi mostrò com’era fatto il luogo in cui lavorava spesso fino a tarda sera e anche la domenica. Le pareti erano quasi coperte da quadri grandi e piccoli; da manifesti di mostre. Il cavalletto era occupato da una tela raffigurante un interno, con in basso a sinistra una piccolissima figura in abito barocco. Amava quello stile, e nei suoi dipinti ne infilava spesso un elemento. Avevo già letto di Bardi; e sapevo che dopo il terremoto di Gibellina, nel 1968, era andato sul luogo del disastro, per poi descriverlo, chiuso in una stanza de “L’Ora” di Palermo, in disegni fortemente espressivi destinati alla pubblicazione sullo stesso quotidiano.
Casa di ringhiera lungo il Naviglio
L’artista conosceva tutta la storia di quella casa di ringhiera. “Fatti un giro e ritorna da me, se vuoi che te la spieghi”, mi disse. Salii al primo piano e al secondo attraverso una serpentina di scale buie e consunte, dalle quali poi sbucò una donna vestita di nero, bassa, la chioma color carbone raccolta sulla nuca, occhi vivacissimi, molto in carne. “Cerca me?”. “No, signora”. “Allora?...”. “Mi chiamo Franco”. “Io Caterina”. E si avviò il dialogo. Aveva sette figli e venti nipoti. Sembrava fatta di ferro, “ma dentro sono vuota”. “Come le va?”. “Come vuole che vada?”. “Che cosa l’ha portata a Milano?”, “La fame”. “Suo marito che fa?”. “Mi aspetta al cimitero”. Era di Mazara del Vallo, paese che non avrebbe mai lasciato, “se non fosse stato per il lavoro… Non sto male qui: se mi lamentassi, farei un torto alla città. Ma sono rimasta sola e mi prende la malinconia…”.
Un angolo della casa di corso Garibaldi
Improvvisamente cigolò una porta e comparve Enrico, che era di Mantova, e da poco aveva finito l’Accademia. Viveva con Maurizia, allieva di Domenico Purificato a Brera. Mi invitò ad entrare per un caffè e notò che fissavo il pianoforte: “Non lo suona nessuno. Quando siamo arrivati era già lì. Non sappiamo di chi sia. Se qualcuno ne rivendica la proprietà può venire a prenderselo”. Sopraggiunse Gianni, un giovanotto alto, massiccio, disponibile. Quando un tavolo si azzoppava o la corda di una tapparella si spezzava chiamavano lui. A Milano vivevano anche i suoi fratelli. La madre era rimasta in Gallura e si sentiva tradita dai figli che avevano voltato le spalle al paese, costringendola a pascolare le pecore da sola. Lei si sedeva su un sasso e si abbandonava al proprio dolore.
Lo scultore Nado Canuti

Ridiscesi, imboccai il secondo cortile. Su una porta a sinistra, la scritta: “Scultore Nado Canuti”. Bussai. Mi si presentò un uomo basso, calvo, grembiule scuro. Anche lui cortese. Mi prese sottobraccio e mi guidò fra decine di opere in bronzo, enormi. Alcune mi sembravano ali o pinne di squalo. “Fanno parte dei ‘racconti del padre’, dedicati a mio figlio”. Le ho appena esposte in una mostra. Nell’angolo del terzo cortile troneggiava un fico. “Lo sai che quando è tempo mangiamo i suoi frutti?”. Mi voltai. La voce era di Adalberto Bertero, un pittore che avevo incrociato altre volte, altrove. Impiegato nella segreteria di redazione di un giornale”, curava anche la rubrica dell’oroscopo. E, siccome sapeva che il direttore lo leggeva, gli regalava sempre previsioni positive. “Come mai da queste parti?”. “Qui ho lo studio. E accanto al mio c’è quello di Mario Ligonzo, un tarantino che lavora al ‘Corriere della Sera’”. Ligonzo? Lo conoscevo. A Taranto aveva curato la pagina politica de “Il Corriere del Giorno”, e aveva avuto una galleria d’arte in via Berardi.
Mario Bardi
Tornai da Bardi, che mi parlò dello spettacolo teatrale che qualche mese prima un aiuto regista di Dario Fo aveva allestito proprio sul tetto del suo studio, avendo come pubblico anche gli inquilini della casa di ringhiera. In prima fila, Anna, compagna di un giovane israeliano e insegnante di educazione fisica in una scuola media. Era l’autrice dei murales che prendevano tutta la parete del suo ballatoio. Li aveva eseguiti con l’aiuto dei propri allievi. Ad Anna piaceva organizzare feste in casa. Durante una di queste si presentò un amico cubano che non sapeva dire da dove venisse e dove andasse. Mentre gli altri sorseggiavano, lui si addormentò su una poltrona. Se ne andò il mattino dopo senza salutare. “Vedi quel paravento Liberty? – riprese Bardi - Me lo ha regalato la padrona dello stabile, una contessa che morendo ha lasciato tutti gli arredi alla governante”. Poi mi disse di due coniugi, che, spaventati dai capelloni (cominciava allora la moda delle capigliature cespugliose), sprangavano la porta di casa alle sette di sera. “In corso Garibaldi 95 sono passati cubani, arabi, israeliani, spagnoli, americani…”. Ai tempi di Pinochet una sera si presentò alla porta di Mario Bardi un cileno che si era perso per le abbondanti bevute. “Dove sta il compagnero Ramirez?”. Chi era costui? . “Ramirez, Ramirez”, insisteva, credendo che l’artista lo avesse nascosto. Il pittore riuscì a convincerlo invitandolo ad entrare.
Lo scultore Canuti con il tenore Mario De Monaco
Commovente la storia di due amici: uno del Cairo, l’altro di Tel Aviv. Mentre i loro connazionali combattevano nel Sinai, erano spaventati dal pericolo di essere richiamati e di potersi sparare addosso. “Se ci mandano al fronte – si promettevano per darsi coraggio - ci mettiamo un cappello rosso in testa e così sul campo ci possiamo individuare”. Partì l’arabo. Il giorno dopo si fece male a una gamba e conquistò le retrovie.
Ugo Ronfani
Mario Bardi, uomo affabile e preparatissimo, aveva insegnato storia dell’arte al liceo scientifico. Aveva moltissimi amici. Tra questi i giornalisti Roberto Ciuni e Ugo Ronfani, il primo direttore de “Il Mattino” di Napoli dopo essere stato al “Corriere”; il secondo critico teatrale e vicedirettore de “il Giorno”, autore de “La toga rossa” e di altri libri sui palcoscenici di Parigi; di interviste a grandi personalità, da Jean Paul Sartre a Simon de Beauvoir… Per anni corrispondente dalla capitale francese, da pensionato assunse la direzione della rivista “Sipario”. A Taranto, al Jolly Hotel, nell’80, organizzò un convegno sul teatro, al quale partecipò anche Ernesto Calindri.
Sono tornato, un pomeriggio di tanti anni fa, in corso Garibaldi. Il portone del civico 95 era chiuso. “Inutile bussare”, mi disse un signore anziano. “Dentro non c’è più nessuno. Si vocifera che lo stabile sia destinato al sacrificio… Qui non dovrebbe essere toccato nulla…è una zona storica. Alla Foppa, nel 1848, i tedeschi, con l’ausilio di una ventina di soldati boemi, fecero irruzione in un abitato, saccheggiandolo, e uccidendo l’accendilampade Francesco Roncari, che aveva tentato di difendere la figlia e la moglie”. Al civico 93 aveva soggiornato per breve tempo Picasso; e chi ricordava il privilegio ne andava fiero. E con orgoglio il custode riferiva dei celebri artisti che vi avevano lo studio: Tallone, Alciati, Solenghi, Ferraguti-Visconti.


















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