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mercoledì 16 novembre 2016

Una valigia potrebbe raccontare una vita



COMPAGNA DI UN EMIGRANTE RITORNA DOPO MEZZO SECOLO
 

La valigia
L’aveva realizzata Domenico Carbotti,
 
pellaio di Martina Franca, per un amico
 
in partenza per il Venezuela per motivi di

lavoro.

Dopo aver fatto forse l’agente

di commercio nel campo dei preziosi,

l’uomo, prima di morire, pregò la sorella
 
di far restituire il manufatto.




Franco Presicci


Una valigia, come tanti altri oggetti, può indicare la posizione che chi la possiede occupa nella società; rappresentare uno “status symbol”; ma anche essere testimone di una vita. Raccontare storie, viaggi, paesi visitati, gente incrociata. Una valigia può stimolare memorie, riecheggiare i tempi in cui è stata confezionata. Quella che aveva in bella mostra su un tavolo Domenico Carbotti, di Martina Franca, sollecitava domande e lasciava soltanto immaginare. L’aveva realizzata lo stesso Domenico circa 50 anni prima per un amico, Giovanni, in partenza per il Venezuela, e gli era stata restituita dopo che il destinatario era deceduto. Osservando quella valigia Domenico, Ninuccio in famiglia, cercava un indizio che gli aprisse uno squarcio sull’attività all’estero di Giovanni; che gli facesse capire se fosse riuscito a concretizzare i sogni, le aspettative. Giovanni aveva la vocazione per la professione di commesso viaggiatore, glielo aveva detto, ma aveva raggiunto l’obiettivo? Certo era un giovane con i piedi per terra, capace, intelligente, onesto, oltretutto di buon carattere, ma come si sa non sempre raccogliamo quello ci spetta. Dal baule comunque non venivano segnali.
Domenico Carbotti e la sua valigia

A quella decisone Giovanni non era stato spinto dallo spirito di avventura, dal fascino che può esercitare un luogo remoto; ma dalla voglia di un lavoro sicuro, non saltuario e vario come quello che gli aveva offerto fino a quel momento Martina: una decisione meditata e sofferta, che ingrossava il numero delle persone che avevano lasciato il paese per andare a cercare fortuna oltreconfine o al Nord. Tra il ’51 e il ’61 la popolazione di Milano lievitò del 24,1 per cento e quella di Torino del 42,6, mentre le nostre regioni subivano un salasso di due milioni di abitanti. In quegli anni le cronache registravano l’alluvione del Polesine; il processo contro un centinaio di braccianti accusati di occupazione di terre a San Severo; la vittoria di Fausto Coppi al trentanovesimo Tour de France. A Milano da quattro anni era stato battezzato con “L’Albergo dei poveri” il “Piccolo Teatro”, nome suggerito ai fondatori, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, dall’ampiezza del locale, ma anche dai teatri moscoviti; a San Giovanni Rotondo erano iniziati i lavori (nel ’47) per la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza di Padre Pio. Il ’51, quando probabilmente Giovanni salutò Martina, veniva inaugurato con le celebrazioni per il cinquantenario della morte di Giuseppe Verdi.



Peppino Cito decora i suoi trulli.

Era una sera dell’aprile del 1999, quando Franco, ex maresciallo dell’Aeronautica, sempre rispettoso e affabile, mi fece un invito. Eravamo nel laboratorio di Peppino Cito, quando, nel bel mezzo di una partita a scopone, tra una esortazione e un rimprovero per una carta giocata male (che provocavano i mugugni di Pierino Pavone, che pure aveva una pazienza invulnerabile oltre che un passato di venditore a Cutrofiano, nel Leccese, di cappotti confezionati a Martina), mi dette appuntamento al giorno dopo sullo Stradone, promettendomi una sorpresa.

Pierino Pavone
Quando arrivai, puntuale, in compagnia di Peppino, era seduto da una decina di minuti sulla panchina di fronte al tabaccaio e seguiva con lo sguardo chi conversando faceva la ronda da un capo all’altro della via dello struscio. “Ti voglio presentare mio cognato. E’ titolare di una ditta di borse dirimpetto al commissariato di polizia e alla sede dell’Inps, a 50 metri dal Foro Boario. Lo conosci? Domenico Carbotti”. Non lo avevo mai incontrato, questo signore noto per le sue virtù di gentilezza, riservatezza, ospitalità, bravura professionale, che venne ad aprirci con un sorriso comunicativo, ci fece accomodare nel suo ufficio, e, dopo averci offerto una tazza di caffè, ci guidò tra macchine e prodotti. Mentre ascoltavo la descrizione delle fasi di lavorazione delle pelli, notai in un angolo quella valigia, una specie di piccolo armadio con scomparti e cassetti. Ne fui colpito. E Domenico: “Non è solo un contenitore. La realizzai per un amico più grande di me di 20 anni, dopo che mi aveva manifestato l’intenzione di abbandonare il nido. Era venuto nella mia bottega di sellaio quasi urlando: ‘Mi trasferisco dalle parti dell’Orinoco’. La notizia mi lasciò perplesso: arrivava così all’improvviso… Dovevo fargli un regalo utile, resistente all’uso…Mi scervellai …Ma sì, che cosa c’è di più utile di una valigia? Non una valigia qualsiasi, ma particolare, originale. Ed eccola lì”. Vuota. Ma con tracce invisibili di Giovanni, delle sue esperienze nella terra che, scoperta da Cristoforo Colombo, fu colonia spagnola per quasi 283 anni.

Domenico Carbotti e Peppino Cito
Non seppe dare risposte neppure lo sconosciuto che gli aveva restituito lo scrigno. Si limitò a dire di avere solo eseguito l’incarico ricevuto. Basso, panciuto, capelli argentei, naso a becco d’aquila, occhi di antracite, ben vestito, aggiunse che Giovanni, “poco prima di morire, aveva pregato la sorella di fare in modo che la valigia tornasse a me, che l’avevo ideata e costruita”. Domenico poi, non per curiosità ma per affetto, aveva chiesto in giro, ottenendo risposte vaghe. “Probabilmente Giovanni era stato rappresentante di preziosi”. Almeno così sosteneva qualcuno. Domenico è una formica di Puglia. Ricco d’inventiva, serio, di poche parole, restìo ai trionfalismi, infaticabile, si era realizzato con l’impegno e la passione. Dagli otto ai dodici anni e mezzo eseguiva borchie e frontali, groppiere, museruole; poi in casa della mamma a ritagliare pelli per farne cinture e cartelle per la scuola. A sedici anni si impose con i suoi manufatti alla mostra dell’artigianato a Taranto…E lavorando sodo aprì a Martina Franca la sua ditta di borse, con l’orgoglio di essere allora il solo pellaio a creare quegli oggetti in una zona lunga fino a Napoli. Oggetti apprezzati per la loro raffinatezza.


Maria Matarrese


Fu un incontro piacevole, quello con Domenico Carbotti, esempio della Puglia che cammina, capace di allungare le gambe sul territorio nazionale. Sono trascorsi anni da quella visita, e non ho mai più avuto l’occasione di ripeterla. Non ho più visto neppure Franco (il cognome mi sfugge come un’anguilla), alto, snello, buon parlatore dal passo da bersagliere, che negli ultimi tempi, ogni giorno, macinava quattro chilometri (andata e ritorno), a piedi, per andare a trovare in campagna Peppino Cito. Un conoscente, in una delle tante feste martinesi con luminarie, bande, processioni, bancarelle, palloni dondolanti sulla folla, mi disse che Giovanni era tornato a Martina e che Ninuccio ogni tanto portava un fiore sulla sua tomba. Ne porteranno anche su quella di Peppino Cito, deceduto la settimana scorsa a 96 anni. Uomo dalle mille idee, tra l’altro dipingeva, faceva casette di legno in miniatura, ricavava dll’argilla statuine per il presepe e trulli così curati nei particolari, da meritare di essere collocati tra migliaia di fischietti in terracotta nell’esercizio di Maria Matarrese ad Alberobello. All’età di 16 anni trasmigrò a Milano, lavorò nella ditta Geloso, dopo un paio d’anni rientrò a Martina, aprì un emporio nel Ringo e tra una vendita e l’altra installava antenne televisive. Fu lui ad issare la prima, nella città delle case con i tetti a cono di gelato e della musica. Quelle case che Giovanni, nei suoi viaggi, non dimenticò mai.




















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