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mercoledì 7 dicembre 2016

L’ispettore capo Alberto De Simone


UNA VITA VISSUTA NEL PERICOLO

 

TRA ORDIGNI DA DISINNESCARE   


 


da destra: De Simone, Scalfaro, Parisi, Mancino

 

Artificiere presso la questura di Milano, non amava parlare di sé. “Se lo facessi, farei torto ai miei colleghi. Le famiglie vivono ore di ansia”.

 

 

Evitava cerimonie e celebrazioni. Rigoroso, ligio al dovere, molto umano, amato e stimatissimo.

 

 

Era nato in Puglia, a San Donato di Lecce.

 

 











Franco Presicci

A chi non lo conosceva bene poteva apparire freddo, distaccato, legnoso. Invece Alberto De Simone era intriso di umanità. Rigoroso, riservato, schivo ai compromessi, rispettoso degli altri.
Alberto De Simone in azione
 Ispettore capo, dirigente della sezione antisabotaggio della questura, entusiasta del suo lavoro. Evitava le cerimonie e le celebrazioni; cercava di passare inosservato; e quando nei terribili anni di piombo qualche giornalista lo avvicinava per strappargli notizie su una carica appena resa inoffensiva, la risposta era sempre la stessa: “Non spetta a me il compito d’informare”. Nell’aprile dell’86 rifiutò di concedermi un’intervista per il “Giorno”, nonostante fossi autorizzato dal questore Antonio Fariello; e cedette dopo una settimana, a patto che si parlasse, più che di lui, del gruppo che guidava: sei uomini e un robot di nome Willy.
Il questore A. Fariello
Fissammo un appuntamento in un bar, si sedette di fronte a me in un angolo, deponendo una borsa gonfia sul tavolo. Ricordò il chilo e mezzo di tritolo in scaglie innescato con detonatore elettrico e congegno a tempo, collocato nella sede di un punto-vendite di auto a Como, dopo la fuga dal Celio, la vigilia di Ferragosto del ’77, del maggiore Herbert Kappler, comandante della polizia SS a Roma e responsabile, il 23 marzo del ’43, dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ricordò le altre trappole mortali architettate, ancora a Como nell’81, nelle vicinanze del nuovo carcere in costruzione (dai lembi inferiori di uno striscione che rivendicava l’abolizione degli istituti di pena, partivano due fili di nailon collegati a due ordigni ben nascosti nella vegetazione, in modo che se qualcuno avesse strappato il telone, sarebbe stato l’inferno); e il 15 luglio dello stesso anno, nella notte dei fuochi, in cui cadde il brigadiere Luigi Carluccio, 28 anni, sposato, un figlio di 8 mesi.
Il prefetto Enzo Vicari con Presicci
Il sottufficiale aveva disinnescato il primo di nove ordigni, venne dilaniato dal secondo. Erano le 2.30. Le bombe erano state disposte davanti ad altrettanti negozi per dare un avvertimento ai negozianti “che chiedono a gran voce la pena di morte; che ingrossano il proprio conto in banca con il denaro degli svizzerotti e dei fuggi-metropoli milanesi”. “Le famiglie degli artificieri vivono momenti di trepidazione”, confidò l’ispettore capo, che in via Fatebenefratelli, e non solo, era stimato e amato, quasi riverito. “Il figlio dodicenne di un collega, avendo intuito il lavoro del padre, ad ogni squillo di telefono si svegliava e chiedeva: ‘La bomba è scoppiata o deve ancora scoppiare?’. Io vivo con mio padre, che ha 85 anni, e non puoi immaginare la sua ansia quando, magari per un mio ritardo dovuto al pullman bloccato nel traffico, pensa che io stia ad un passo dalla fine. Si è detto che nel nostro caso, se l’intervento fallisce, muore il chirurgo, non il paziente”. Gli chiesi di accennare alle qualità di un artificiere, e rispose con poche parole, come al solito senza enfasi: “Prima di tutto, qualità umane. Deve sentire il dovere di tutelare l’incolumità dei cittadini. E deve essere convinto di quello che fa, avere la consapevolezza di svolgere un servizio”.
Controllo del territorio

Un fedele servitore dello Stato, Alberto De Simone, che alla Festa della Polizia del ’93 riceverà la medaglia d’argento al merito civile dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, presenti il ministro Nicola Mancino e il capo della polizia Vincenzo Parisi. Diventammo amici. Con il collega de “Il Corriere della Sera” Alberto Berticelli andammo più volte a pranzo con lui in un ristorante di Porta Venezia. Durante gli incontri De Simone parlava spesso del suo paese d’origine, San Donato di Lecce; del padre, Armando; della sorella, che era rimasta al Sud; e della sua passione per la Puglia, che il tempo non aveva minimamente affievolito, tanto che in luglio o agosto non mancava di soggiornarvi. Mi offrì ripetutamente la sua ospitalità nella casa salentina, ma non ebbi mai l’occasione di accontentarlo. Mi sarei ritrovato volentieri in piazza S. Oronzo, piazza vivace per la gente, per movimento, per varietà architettonica; rotta com’è dall’anfiteatro romano, come scrisse Guido Piovene nel suo libro edito da Mondadori: “Viaggio in Italia”. Allora Alberto De Simone aveva 53 anni, era in polizia da 33, artificiere dal ’67. Già una parte della sua attività mi era nota. Per esempio, che era stato il primo ad arrivare in piazza Fontana, nella Banca Nazionale dell’Agricoltura distrutta da 7 chili di tritolo alle 16.37 del 12 dicembre 1969 (17 morti e 88 feriti); e che era stato lui, nel marzo del ’74, a neutralizzare l’ordigno che nell’intenzione di un gruppo eversivo doveva far saltare in aria la sede de “Il Corriere”, in via Solferino. Sapevo anche di un episodio accaduto nella primavera del ’77 in via Cimarosa, dove sotto un’auto avevano scoperto un manufatto composto da sette candelotti di esplosivo da mina. Con due collaboratori De Simone si avvicinò, avvertendo una specie di soffio provenire dall’involucro, che deflagrò, lanciandoli a sette-otto metri di distanza. “Vedi, se io mi mettessi a raccontare ufficialmente, trascurando i miei colleghi, farei loro un torto grave. Affrontano i miei stessi rischi, vivono le mie stesse paure, sono bravissimi e a disposizione 24 ore su 24; non si considerano eroi, non soffrono di protagonismo, siamo una squadra affiatata, lavoriamo in sinergia, facciamo soltanto il nostro dovere… Ho voluto che all’intervista per ‘Il Giorno’ fossero presenti due miei compagni, non per avere testimoni, per difetto di fiducia, ma perché esponessero, volendo, anche le loro esperienze e i loro stati d’animo”. Poi deviò il discorso su Joe Petrosino, il poliziotto nemico della “Mano nera” di New York, assassinato la sera del 12 marzo 1909, nella splendida piazza Marina a Palermo, dove era andato per individuare e recidere le radici sicule della mafia newyorchese.
Alberto Berticelli
Che cosa c’entra Petrosino? “Fu uno dei primi artificieri. Faceva parte della compagine di specialisti istituita nel 1903 per smantellare il clan che nella Grande Mela costringeva con gli attentati i titolari degli esercizi commerciali a pagare il pizzo”. Anche il nostro Paese vanta artificieri di altissimo livello operativo, al quale hanno contribuito i corsi inaugurati il 27 febbraio del ’68, per volere del Ministero dell’Interno. “Le lezioni – chiosava De Simone – hanno appunto lo scopo di formare elementi espertissimi nell’individuare, riconoscere, rimuovere, maneggiare, disinnescare meccanismi micidiali fabbricati a regola d’arte o in maniera artigianale. Le squadre hanno mezzi cingolati; nuove valigie antisabotaggio dette ‘Trovago’, tute antiesplosione; cani che fiutano l’insidia con la stessa abilità di quelli che aiutano le ‘Fiamme Gialle’ a intercettare hascisc, eroina, coca negli aeroporti e nei depositi-bagagli delle stazioni ferroviarie”. In qualche occasione a Milano è stato impiegato un cane di nome Lorenzo, di stanza alla scuola di Nettuno, infallibile nel captare l’odore della polvere. “E c’è Willy, che, manovrato a distanza, interviene soprattutto nelle situazioni ad alto pericolo. Afferra gli ordigni e li porta in luoghi sicuri. Lo trattiamo come un amico, e lui obbedisce ai comandi senza fare bizze”, aggiunse l’ispettore dopo una dimostrazione in piazza Duomo delle prestazioni del robot, applaudite da una folla numerosa. L’iniziativa rientrava nel programma di Antonio Fariello, “Polizia tra la gente”, che comprendeva anche il libro, ampiamente illustrato, “Milano, una città, una questura”, presentato dal sindaco Carlo Tognoli, dal prefetto Enzo Vicari e dallo stesso Fariello. Alberto De Simone si è spento il 26 giugno del 2011 nella sua abitazione di Lecce, dove negli ultimi tempi si era trasferito. Aveva 78 anni.

2 commenti:

  1. Sono stato un suo collaboratore ed alle sue dipendenze fino a quando è andato in pensione, e ne sono molto ma molto orgoglioso di avere lavorato con lui.

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    1. dal 74 al 78 in servizio di capo pattuglia della volante Lambrate(Turno di DI Giacomo), sono andato a prenderlo direttamente sotto casa per condurlo sul luogo dove era stato segnalato qualche esplosivo. In particolare ricordo quella volta che rinvenni abbandonati sul marciapiedi di una via di Milano sei po sette candelotti di dinamite ; un attentato fallito per una circostanza fortuita del mio passaggio con la macchina ed aver notato questi candelotti a ridosso di un albero

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