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martedì 21 febbraio 2017

Il gergo della “mala”





LA MARMOTTA? LA CASSAFORTE

 

Se qualcuno pensava al roditore si sbagliava.

 

 

"Ladro in fuga" - disegno di Franco Presicci

Il “canarino” non è

 

il bell’uccellino che gorgheggia

 

in gabbia, ma il ruffiano, la spia.

 

La “quaglia” e “la fisarmonica”

 

il portafoglio. E “camporella”?

 

L’uscita dal carcere: la libertà.

 










Franco Presicci


Non so se i malavitosi milanesi, e quelli del resto della Penisola, parlino ancora il gergo della categoria. Se cioè dicano ancora “broccolare” per giocare d’azzardo; “bella” per fuga; “ciappone” per coltello; “bevuto” per arrestato; “stirato” per ucciso o squattrinato; “smorfire” per mangiare; “viole” per soldi...

L'orologio di San Vittore

Circa una trentina di anni fa, una notte di maggio calda e tranquilla in cui ero di turno in Cronaca, al “Il Giorno”, andai a bere un “bitter” nel bar aperto a pochi metri dal giornale; e, stando sulla soglia, ascoltai una conversazione, che si snodava sull’altro lato della strada, quasi sotto il lampione, fra una sorta di orso bruno attempato e un piccoletto grifagno che lo ascoltava come il discepolo il maestro. Il primo, che avevo già incrociato fra due divise in questura, nel lungo corridoio che dal cortile porta agli uffici della squadra Mobile, diceva di essere appena uscito dal “due” (il carcere di San Vittore, che si trova a quel numero di piazza Filangieri) e di non avere ancora pensato a “sfangarsi” (realizzare un’impresa).
E accennava alla propria “carriera”, sostenendo di essere una volpe, tanto da essere riuscito, a suo tempo, a “far caporetto” (fuggire) dalla Legione Straniera. Rientrato in Italia, era stato “pizzicato” (liberato), nuovamente “imballato” (ripreso in flagranza), rimesso in “casanza” (galera), “steccato” (condannato) per l’ennesima volta. Con voce cavernosa si vantava di avere conoscenze, non fra i “dilittanti”, nella società criminale e di essere un estimatore del capo del clan dei catanesi, Angelo Epaminonda, detto “il tebano”, che considerava un “manager”, un “er più”, termine copiato dal Belli. Era ricco, il suo lessico: “spisusu” (uomo ricco), “vicaria” (carcere), “gran finale” (resa dei conti), “ciummari” (sgraffignare), “spamare” (scoprire), “smalloppare” (andarsene)…, una mescolanza di voci di varie regioni.
di Roberto Baldasarre "Lo sbandato"
Dino Donati, in permesso-premio, venne a trovarmi al giornale il 2 novembre del ’79, per farmi dono del suo libro. “Lo sbandato”, scritto in cella nel carcere di Opera. Attese un bel po’ nel salottino, a causa di un tragico avvenimento (la strage di Moncucco, 8 morti ammazzati, di cui 7 perché testimoni), che teneva in fibrillazione i telefoni. Trovai un varco e lo ascoltai. Dopo pochi giorni lessi quelle pagine: una biografia fatta di “spaccate” (furto compiuto mandando in frantumi le vetrine dei negozi), arresti, traduzioni da un casa di reclusione ad un’altra, sofferenze, riflessioni…Un racconto dallo stile semplice e schietto, illustrato da Roberto Baldasarre e qua e là cosparso di parole come “balin” (branda della cella); “boia” (spia della polizia); “ciocco” (allarme); “cricca” (valigia); “spicciola” (bicicletta); “zanza” (imbroglione); “marmotta” (cassaforte a muro); “quaglia” (portafoglio); “rebonza” (refurtiva)…
 disegno di Franco Presicci
Anche in “Tango con sinuose movenze”, storie “di una Milano che è stata e di una Milano che è oggi”, pubblicato da Bruno Brancher nel 1997, ritrovai diverse voci di questa parlata. E ho anche apprezzato il contenuto del volume di questo “picaro di una straordinaria Milano leggendaria – parole di Oreste Del Buono -, passato attraverso ogni disavventura, sviste giudiziarie, carceri, follie, manicomi, più volte sceso agli inferi e più volte riemerso a forza di senso”. Brancher si fa seguire con attenzione e interesse: “… A Milano è tornato in auge il furto delle biciclette.
Il mio vecchio amico e compare … non demorde dalla sua antica professione di ladro di biciclette. Anch’io rubavo biciclette, ma ero giovane e inesperto. Infatti crescendo mi sono dato ad altre ruberie. Ricordo quando… fu preso da grande invidia nei miei confronti perché io riuscii in una clamorosa impresa: fregare la bicicletta del grande Fausto Coppi... Ma come oggi fa notare un altro grande, Umberto Eco (di cui sono ammiratore) in quel mestiere non dovevo essere bravo. Infatti mi beccavano sempre…”. L’autore precisa che l’amico era “lader de vòla, de “spiciùl” fin dal lontano anno 1945…”: “Vola” è il troncamento di volante (la squadra di pronto intervento della polizia) e “spiciùl” sta per spicciola, (due ruote), parola in uso non soltanto in Lombardia, ma anche in Veneto, Emilia e Toscana. “Par na spicioli te risci due barète” (per un velocipede corri il rischio di due anni di galera). A Palermo nell’ultimo dopoguerra a spaventare la piccola criminalità era la “lupa”, la “jeep” della “Military Police”. A Milano ai primi del ‘900 era “el Dondina”, un poliziotto severo, onesto e infaticabile, dal fiuto finissimo, terrore di teppa e “ligera” (i primi in origine buontemponi burloni e in seguito malavitosi di un certo calibro; i secondi giovani che sfioravano il codice penale.
Mario Castellani in Inscì parla la "mala"
I contrabbandieri dicono ancora “burlanda” o “sicura” per indicare la Dogana? E a Torino biliard”, tavolaccio in camera di sicurezza? E a Bologna “a vag a fer ‘na rapa”: una rapina, come si legge in “Gergo della malavita”, edito nel ’69 dal Ministero dell’Interno? E a Reggio Calabria va ancora di moda “’ncavallatu”¸ armato? A Palermo “omo di panza”? A Milano “zanzata”, roba truffata; “piove” per mettere in guardia i compari dall’arrivo della “pula”, la polizia …? Certo è che in terra meneghina sono ormai in pochi quelli che sanno del “bosch de la Merlada, antico luogo a nord della città un tempo abitato da briganti, il più famoso dei quali Giacomo Legorino, “magnà”, acciuffato, nel lontanissimo 1566. Stando a Giovanni Luzzi, sapido intenditore della materia (è suo “Inscì parla la ‘mala’”, edito dalla Libreria Meravigli), il gergo di cui parlo non è completamente caduto in disuso. Sopravvivono dunque “bava”, canaglia, derivato da Bava Beccaris, il generale che ordinò le cannonate del maggio del 1898; “canarino”, ruffiano, spia, delatore; e “cascettone”, in voga con lo stesso valore nel dialetto tarantino di una volta; “camporella”, che ha una doppia traduzione: il luogo isolato in cui gli innamorati si appartano per scambiarsi carezze e l’uscita dal carcere. Nel capoluogo lombardo in alcune cronache compare “cravattaro” per riferirsi allo strozzino e al ricettatore; ma nella “mala” forse nessuno più dice “cocumia” per Meridione e “maraman” per uomo del Sud.
di R. Baldasarre ne "Lo sbandato"
Non rintracciai espressioni gergali nel libro di Luciano Lutring, “Il solista del mitra”, titolo ispirato al nomignolo affibbiato negli anni Sessanta dal capocronista de “Il Corriere della Sera” Antonio Di Bella al personaggio diventato in carcere pittore e uomo onesto: nell’androne di uno stabile dal quale si vociferava fosse passato Lutring, venne rinvenuta la custodia di un violino, e la circostanza accese la fantasia del futuro direttore del quotidiano di via Solferino. Per inciso, in quel libro l’autore abbozza il ritratto del maresciallo Ferdinando Oscuri, “cintura nera di judo e terrore della malavita milanese. Il maresciallo era un uomo alto un metro e ottanta circa con capelli lisci castani tirati indietro, aveva uno sguardo duro, tanti davanti a lui tremavano, solo che lui li guardava in faccia e fu lui con i suoi superiori che eliminarono tante bande nel 1945 alla fine della guerra, e fu lui che tolse di mezzo i miei cugini…e le loro bande”… Compresa – aggiungo - quella di un bandito detto gentiluomo… (dava la mancia ai cassieri delle banche che rapinava), claudicante come “el Dondina”. Ma definisce “cok” il ricettatore; e la banda “gang”, voce appartenente al linguaggio mafioso italo-statunitense.
Uno dei cancelli del carcere
Paolo Valera, giornalista e scrittore, frequentatore degli ambienti degli Scapigliati milanesi, autore del romanzo “La folla”, elogiato da Emile Zola, soffermandosi in “Milano sconosciuta” sulla locanda del Berrini, che tra le seicento aperte a Milano nel 1874 “era la più famigerata” (tra l’altro – afferma – “vi si sono coricati quasi tutti gli inquilini che popolavano alternativamente la Polla”, carcere di via Santa Margherita demolito nel 1888), dice “sveglia”: sorveglianza della polizia; “piè”: soldi; “introibo”: porta d’ingresso; “bombola” o “bugliolo”: a suo tempo una vergogna che nelle celle prendeva il posto del cesso…. E anche nel capitolo in cui delinea l’irreprensibile, esemplare figura del Dondina, da lui definito “il Vidocq milanese dei locch” per l’attività svolta da colui che dopo essere stato tra l’altro il re delle evasioni creò e per un certo periodo guidò la gendarmeria francese, usa “fondeur” per borsaioli, “stecch”, per coltello, “goga”, per buffetto, “stacchett” per borsellino… Paolo Valera, nato a Como nel 1850, morì a Milano nel ’26, epoca in cui quel linguaggio pittoresco era la norma nella giungla della malandra.

















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