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giovedì 11 maggio 2017

Attilio Alfieri, burbero, polemico, gentiluomo




IL GRANDE PITTORE CHE AMAVA

IL ROSSO ACCESO DELLE ANGURIE

 


Opera di Attilio Alfieri

 

 

 

 
Attilio Alfieri

 

 

 

 

 

 

 

Con il suo carattere irritava i critici, che per un lungo tempo lo ignorarono,

 

  

 

“Sono sempre stato un libertario

e ho pagato un caro prezzo. 

Non mi pento, rifarei tutto quello

che ho fatto”.

 

Fu un anticipatore, la sua opera era “ricca di impeti e empiti

lirici”, come scrisse Franco Russoli.


 






Franco Presicci


Durante il mio percorso professionale ho incontrato tanti personaggi: da Enrico Maria Salerno a Enzo Tortora; da Tony Renis a Mike Bongiorno, a Pippo Baudo, a Memo Remigi; da Renato Guttuso a Domenico Cantatore; da Sandro Pertini al capo dell’FBI, William Webster (quest’ultimo nell’agosto dell’85 ad Assago, al convegno mondiale sulla criminalità organizzata). Del pittore Attilio Alfieri sono stato amico. Lo conobbi nel ’74. Una mattina andò nel laboratorio, in via Chiossetto 10, del ceramista Giuseppe Rossicone, per accordarsi su un lavoro da fare insieme, e lesse un articolo che avevo pubblicato sul “Giornale del Mezzogiorno” diretto da Paolo Cavallina, noto per aver condotto su Raidue “Chiamate Roma 3131”.
Rossicone nel suo laboratorio
La Torre Velasca
La pagina, incorniciata e appesa a una parete, gli piacque e chiede Peppino a presentarci. Alfieri era artista eccellente e persona generosa. Ma facile alle impennate; burbero, polemico e schietto. Non le mandava a dire a nessuno. Neppure ai critici più severi. Tanto che questi lo ignorarono per un lungo periodo. Rossicone mi raccontò che, sfornate le piastre raffiguranti i sette vizi capitali eseguite dal pittore, questi si inalberò perché il rosso non somigliava al cremisi delle angurie che il padre vendeva a Loreto. Quel colore era per lui un simbolo importante, evocativo del tempo trascorso nella sua città natale, dove da ragazzo aveva suonato il clarino nella banda. Sognando un’alba che si poteva godere soltanto a Milano. Non si raccontava volentieri, Attilio. Soprattutto con chi vedeva per la prima volta.
Tuttavia, mi fissò un appuntamento nel suo studio in via Pantano 17, nel capoluogo lombardo, dove viveva da anni, quasi sotto la Torre Velasca; e siccome lo avevo anticipato di un quarto d’ora, impiegai una quindicina di minuti osservando un restauratore che spalmava la porporina su una cornice antica. Attilio arrivò con il suo passo felpato e mi sorprese nel cortile riposante, immerso in un’aria di pace che mi ricordava il chiostro dei cappuccini di San Severo. Mi regalò un sorriso, aprì la grande porta di legno del suo studio, al pianoterra, uno stanzone illuminato da una finestra con le sbarre. Mi indicò una sedia, che cigolò sotto il mio peso, e mi trasferì su una brandina camuffata da divano. Risolse l’alternarsi del “tu” e del “lei” in maniera sbrigativa: “Parliamoci da vecchi amici, senza formalità”, mentre guardavo tre o quattro carote e altrettante cipolle che essiccavano su un tavolino. “Naturalmente non devo mangiarle. Devo dipingerle in quello stato. Ecco così”, mi disse. E mi mostrò una natura morta che cedeva alle seduzioni del colore in un’esaltazione lirica. Aprì una cartella e senza dire una parola sfogliò una serie di acquerelli molto suggestivi eseguiti sulle facciate bianche di vecchi calendari. Prevalentemente paesaggi “marchigiani”, tra cui il Conero.
Attilio Alfieri - 1° a destra
“Vuoi ascoltare la narrazione della mia attività professionale? Bene, preparati a far tardi”. Si alzò, andò alla scrivania, aprì un cassetto, facendo emergere il ritratto della madre. “Mi è molto caro, lo tengo come una reliquia. L’ho fatto tantissimi anni fa”. E si accinse a rivelarmi il proprio ordito biografico; la sua crescita difficile, come l’aveva definita Domenico Cara. Partì dai manifesti per la Fiera di Milano da lui realizzati nel ’33-’34 e oltre; del suo rifiuto di tutti gli “ismi” che affollavano il mondo dell’arte (“Non ho niente a che fare con questa roba: io sono libero, indipendente, se vuoi ribelle, contestatore”) e rivendicava le sue “anticipazioni attribuite ad altri”. E. Persico scriveva che Alfieri “è certamente da annoverare tra i più significativi pittori d’avanguardia, anticipatore di quella rottura ideologico-formale del ‘900. E. Barilli: “Credo che Argan abbia centrato molto bene il problema, lamentando che molte sue cose non siano state conosciute o meditate con la giusta attenzione, al momento buono”. Nei primi tempi, quando abitava in via Solferino, lavorava di notte (di giorno rinfrescava stanze). Gli piaceva stare davanti al cavalletto o seduto alla scrivania impegnato nei suoi disegni, mentre la città dormiva in un silenzio squarciato dalle sirene delle ambulanze, dei carabinieri della polizia o dei pompieri. Respirava la notte, che per lui aveva un fascino indefinibile.
Altra opera di Attilio Alfieri
La notte guidava la sua mano di artista, complice della sua ispirazione. Anche i bozzetti per manifesti nacquero di notte: più immagini accostate, squarci, brandelli di realtà circoscritti qua e là da segni, geroglifici…Manifesti e pannelli anche per il Lido di Venezia, datati 1939. E tele con fiori; spezzoni di paesaggi vibranti di luce: case attorniate da prati brillanti, colline modulate con tocco armonioso...: una trama pittorica che induce alla contemplazione. Nel ’43 R. Toselli recensì una personale di Alfieri alla Galleria Barbaroux titolando “Un uomo solo”. Il pittore si ispirava ad oggetti sparsi per strada, che gli procuravano amarezza: erano un indizio di abbandono. “Sono sempre stato un libertario - ripetè - E ho pagato un prezzo per la mia caparbietà a non sottostare a questo e a quello; per la mia volontà insopprimibile di seguire soltanto l’istinto”. Ma un raggio di sole forò improvvisamente la coltre d’indifferenza dei più. E Franco Russoli chiosò: “Da qualche anno Alfieri s’impone finalmente alla fama e all’apprezzamento che la sua opera, sempre ricca di empiti e impeti lirici, merita largamente”. L’esilio di Attilio Alfieri, antesignano e lottatore, si era concluso. Tutti gli “investigatori”, i giudici della tavolozza lo cercavano, lo analizzavano, lo interpretavano, lo celebravano. Quando conversai con lui per la prima volta era il luglio del ’77. Attilio aveva più di 70 anni. Era energico, scattante, determinato, sempre presente alle mostre, personali e collettive, a cominciare da quella di Renzo Cortina: il libraio di piazza Cavour che in vetrina, tra i “best seller”, esponeva le opere dell’amico Dino Buzzati (di Renzo, sceso a Milano da Belluno, ricordo il suo libro “Horca miseria”, in cui si ritrovavano tanti nomi noti dell’industria, del giornalismo, dell’arte, dell’editoria di Milano e non).
Attilio Alfieri nel cortile di via Pantano
Basso, fiero, occhi vivaci, fronte spianata, quasi calvo, spesso Alfieri si aggirava, con gli amici Birolli, Del Bon, nelle mostre alla Bergamini, a Palazzo Reale, alla Permanente. Ma non a tutti i premi che gli venivano assegnati, tra cui uno a Ferrara; un altro, nel ’76 (“La Ginestra d’oro del Conero”), e altri ancora, tutti prestigiosi. Il Comune di Dozza, in provincia di Bologna, lo invitò alla Biennale del “Muro dipinto”, e vi partecipò con entusiasmo. Mi confidò le fatiche affrontate, i sacrifici, le sofferenze, le incomprensioni… senza malinconie. “Se rinascessi rifarei tutto quello che ho fatto, senza mutare una virgola”. E aggiunse che il suo nome lo aveva scritto in grande nel libro dell’arte. In una ponderosa antologia della Mostra “Gli Anni Trenta, arte e cultura in Italia”, voluta dal Comune di Milano nell’80, eccolo con alcuni suoi lavori e una sintesi della sua storia: la sua partecipazione nel 1933 alla Triennale di Milano con opere astratte di notevole interesse; alla Biennale di Venezia; alla Quadriennale di Roma, New York, Amsterdam…alla Mostra universale di Parigi nel ’37… Un “curriculum” lungo e ricco. Mi regalò il catalogo che gli aveva pubblicato Cortina e volle scrivermi una dedica: “Non sei un critico, ma sei riuscito a penetrare nella mia anima e nella mia arte”. Non era da lui esprimersi in quel modo. Ogni tanto con Rossicone ricordiamo quegli anni e le figure di Remo Brindisi, Gianni Dova, Giuliano Adonai, Elvio Becheroni, Ibrahim Kodra, Ernesto Treccani, Arnaldo Pomodoro, Salvatore Fiume… Domenico Cantatore, al quale Giuseppe Giacovazzo, nel ‘76, dedicò il primo documentario a colori della televisione. All’anteprima, nella sede di corso Sempione, c’era anche Filippo Alto, che dell’autore del filmato era amico dai tempi dell’oratorio. E c’erano Mario Azzella, giornalista e documentarista della stessa Rai, e Rossicone, che di Alfieri dice: “Era duro, imprevedibile… un’espressione austera… raramente lasciava lampeggiare un sorriso… ma era un grande pittore e un galantuomo. Ha fatto cose memorabili”…. Se ne andò nei primi anni 90.









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