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mercoledì 27 marzo 2019

In mezzo a un verde ben pettinato


Porta con una sua casetta
FRANCESCO PORTA COSTRUISCE

CASE DI LEGNO PER GLI UCCELLI.


Abita a Castiglione d’Intelvi, sulle
colline del Comasco. Realizza volpi,
cinghiali, cervi, lumache, pipe usate
un tempo nella zona; falcetti che
servivano ai contrabbandieri per
liberarsi delle bricolle alla vista delle
“fiamme gialle”.









Franco Presicci

Molti uccelli non hanno alloggio, e d’inverno non sanno dove ripararsi dal freddo, dalla pioggia, dalla neve. A Castiglione d‘Intelvi - un paesino sulle colline di Como, riposante, tranquillo, poche anime e una chiesetta con un bel campanile, un’ora e mezza da Milano - ci pensa Francesco Porta, 83 anni, ex autista di pullman, radicato in quest’oasi di pace per amore della moglie Mariuccia, ma nato a Lanzo, luogo ameno che festeggia la Madonna Nera ed è ritratto da Antonio Fogazzaro nelle pagine del “Mistero del Poeta”.
Case sotto il monte
Lo si attraversa andando alla Sighignola, il balcone d’Italia, al confine con la Svizzera. Nel suo laboratorio pieno di attrezzi e di oggetti desueti, tra cui una caldaia appena regalatagli da un’amica, Francesco costruisce casette rifinite in ogni dettaglio: il comignolo, la staccionata con il cancelletto, le finestre con posatoio, fregi sulla facciata, il beccatoio, il pluviale e ogni altro elemento che rende bella l’opera, eseguita con pazienza e passione. ”Gli uccellini qui dentro dormono, fanno il nido, svezzano i piccoli…”, spiega Francesco, e sorride mentre mi congratulo con lui. “Queste creature hanno anche loro diritto ad avere ogni ‘confort”, puntualizza. E non si limita a venire incontro alle loro esigenze: scolpisce in legno (frassino, nocciolo, faggio) lumache, cinghiali, volpi, cervi, daini, pipe di fattura particolare… di cui gli anziani hanno forse soltanto memoria. 
Il cinghiale
“L’hobby si è rivelato 30 anni fa e l’ho iniziato realizzando giochi di una volta, pestelli piccolissimi, topini (‘murtèe’, nel nostro dialetto’)… “, a cui Mariuccia ha riservato un posto d’onore: la mensola del camino, in cucina, dove ci ha fatto sedere, con cordiale ospitalità. Il “serraglio”… inanimato popola gli scaffali in ferro nell’officina, dove signoreggia, su un ripiano a parte, una civetta, che al comando di Francesco agita le ali. “Dovevano buttarla via, io l’ho recuperata, rimessa a nuovo ed ora è lì a fare la sua figura”. Non si vanta di questa sua produzione, che non ha mai commercializzato. “Non chiedo soldi; e, se qualcuno insiste per pagare, rimpolpo il gruzzolo che mando in Uganda per beneficenza”. Solidarietà da seguire. Ma è un argomento da evitare: Mariuccia è fedele ai versi della “Pentecoste” manzoniana: “Doni con volto amico, con quel tacer pudico che accetto il don ti fa”. Non ammette deroghe, neppure per il giornalista curioso e impiccione. Francesco è d’accordo. Me lo confida con voce bassa e calma francescana. “Fuori ho visto delle gabbie, Francesco, a che cosa servono?”. Torniamo all’aperto. “Quella è una voliera, che ho fatto per le gazze. Adesso è deserta. Quello sulla destra è il ricovero dei conigli, che vi passano la notte e quando il cielo s’imbroncia.
Il pavone con la ruota
Di solito sgambettano o si rincorrono attorno a Luigi”, il pavone che fa una ruota spettacolare. Francesco gli chiede di girarsi e di aprire a ventaglio il piumaggio, che cambia colore, e Luigi obbedisce, offrendosi al mio obiettivo come un attore della tivù. Il padrone gioisce; I roditori l’osservano e poi riprendono avidamente a mangiare l’erba. Non si lasciano avvicinare dagli estranei; si lasciano convincere da frammenti di pane. Che pace! La taglia il rumore della motosega che sta facendo i ciocchi a pezzi per il camino. Domando spiegazioni su una serie di falcetti conficcati in una base di legno. “Sono una sorta di coltelli: i contrabbandieri, che trasportavano merce attraverso i valichi alpini, se ne servivano per tranciare gli spallacci abbandonando le bricolle in vimini o in tela alla vista dei finanzieri. Nella zona gli spalloni erano molti, e dovevano ben guardarsi dalle ‘Fiamme Gialle’ accasermate a una certa distanza l’una dall’altra.
Falcetti
I falcetti venivano adoperati anche dai contadini per recidere corde, rametti, quant’altro”. “Faticavano tanto, i contadini – interviene Mariuccia, non per correggere il marito, bensì per integrare la narrazione e contestualizzarla, mentre prepara il caffè – “Nei primi del ‘900 le feste delle Madonne si celebravano nei mesi invernali, quando gli uomini, che lavoravano in Svizzera, rientravano in famiglia. Allora, in assenza dei mariti, le donne nei campi facevano tutto quello che c’era da fare: zappavano, aravano, seminavano il granturco, raccoglievano le castagne, che erano cibo per le persone e per gli animali (ogni famiglia aveva polli, mucche, conigli…). Per ogni castagno si pagava una tassa comunale. Mio padre, scavando un fosso profondo 1 metro e lungo 340 dalla provinciale, portò l’acqua fino alla nostra abitazione”. Mariuccia snocciola notizie a spizzichi e bocconi: “Quelli che rimanevano a piegare la schiena nei campi a Castiglione (‘Castion’ in vernacolo, patrono Santo Stefano: n.d.a.) sfruttavano i boschi. I taglialegna salivano da Argegno”; e furono protagonisti anche di qualche leggenda. Come quella del lupo con gli occhi dalla luce sinistra che forava il buio e si scoprì che erano buchi in un tronco fradicio. Mariuccia, cortese, intelligente, determinata, figlia di contadini, parla per esperienza personale. E lo fa con proprietà di linguaggio senza assumere l’aria di chi sta in cattedra. Ha lavorato per 30 anni come impiegata nella clinica di Lanzo. E’ precisa, sintetica, chiara. La sollecito e lei non si tira indietro. E’ evidente che apprezza l’hobby del marito e lo descrive con sapienza.
Il museo
Poi intuisce il mio intento di conoscere brani di storia di Castiglione, come del resto quella di tutta la Val d’Intelvi, e mi indica il museo etnografico della civiltà contadina delle arti e dei mestieri, inaugurato il 5 novembre del 1995 nel vicino borgo di Casasco; e tira fuori da una pila di libri un nutrito catalogo di questa interessante istituzione, che contiene anche foto e piante geografiche della zona. Lo sfoglio: è un libretto prezioso. Vi si susseguono la ricostruzione di una camera da letto risalente all’alba del ‘900; una cassapanca e una culla in noce antico; l’abito di uno spallone, categoria ormai scomparsa; una radio degli anni ’30; una nevera; un’uniforme del regio esercito italiano di epoca umbertina; il percorso della memoria del Sasso Cadorna, reperti della Prima Guerra Mondiale… Testimonianze custodite in un fabbricato rurale che conserva l’architettura originale. Il discorso quindi prende tutt’altra piega. Francesco se ne sta in silenzio, attento alle parole di Mariuccia che per vezzo chiama mamma. “Qui di fianco c’è il campeggio, che prima era nostro.

Porta con giochi antichi


Lo abbiamo ceduto da poco. Fino a qualche anno fa ci veniva la scrittrice Vivianne Lamarque, affabile, simpatica, disponibile, che amava ascoltare”. Affascinata dai racconti che le faceva Mariuccia. “Spesso mi ha esortato a mettere nero su bianco i miei ricordi. Mi dette anche un quaderno raccomandandomi di riempirlo. Non l’ho più vista. L’avrei voluta accontentare, ma il tempo era avaro e dovevo pensare al lavoro, alla figlia, al marito, alla casa”. Quando arriva il momento di salutare mi dispiace, ma per ora ho immagazzinato una buona dose di informazioni. Mi soffermo sulla soglia della palazzina: il paesaggio m’inebria. Guardo le case sotto il monte di fronte; la terra di Francesco, sinuosa, ben modellata. Adocchio un cervo, forse di latta, che signoreggia su un poggio. “Anche quello doveva essere rottamato, io l’ho recuperato e messo su quella gobba”. Ha l’atteggiamento del soldato di guardia nella garitta. Prima di andare, ancora una visita agli animaletti di legno. Francesco aziona il tornio per mostrarmi come dalle sue mani nasce un cinghiale, levigato come il marmo, come gli altri in posa non aggressiva. Quanti animali possiede? Di quelli in carne ed ossa, intendo. “Due pecore, mamma e figlia; otto conigli, tutti arzilli; una decina di galline scatenate; il pavone. 
Porta tra le galline
Le galline mi saltano addosso, mi fanno il girotondo mentre sono disteso sulla sdraio nei pomeriggi di sole… Io le accarezzo, faccio loro le coccole, le chiamo per nome. Anche i conigli ne hanno uno… Dico: ‘Non allontanatevi, loro drizzano le orecchie e mirano alla scodella. Io parlo con le mie bestiole”. Come mai non ne ha riprodotta una per il suo zoo di legno? “E’ un caso, soltanto un caso… Ma no, se vede bene, c’è un gallo”. La popolazione è così fitta che il “play-boy” del pollaio mi era sfuggito. Mi rimetto in auto, raggiungo la via Case Sparse, che ho percorso un paio di ore prima scortato da Francesco. Incontro tre o quattro auto appena, forse perché è sabato. Mi dirigo verso casa, a Laino, una località deliziosa di 300 abitanti, che d’estate con l’arrivo dei turisti diventano 3000. Mi propongo di consultare meglio il catalogo del Museo, magistralmente curato da Chiara Boldorini e Alfredo Zecchini, entrambi nati a Milano e appassionati di storia, la prima laureata in Scienze filosofiche, il secondo prevalentemente impegnato in campo industriale; e ripenso alle storie di Mariuccia di oltre un secolo fa e alla sua rappresentazione della Val d’Intelvi, “da sempre terra di contadini, costruttori e artisti”, abili soprattutto nel lavorare la pietra, caratteristica che li ha resi famosi, come “picapreda”, anche in Europa, oltre che nel resto d’Italia. Avevo incontrato Francesco nel negozio di ferramenta di San Fedele. Ricordando che cercavo qualcuno di quelli che fanno casette per gli uccelli, “Eccone uno”: la voce di Rodolfo Patriarca, il titolare, che ha un diploma di perito industriale, un carattere gioviale ed è prodigo di suggerimenti per chi come me non ha molta dimestichezza con l’uso degli attrezzi di cui ha bisogno. Cercavo un artigiano e ho trovato un artista.






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