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mercoledì 10 aprile 2019

Mancava un gommone per una gita nel sottosuolo



LA DISCESA NELLE FOGNE DI MILANO

FU UN’ESPERIENZA INDIMENTICABILE




Secondo alcuni lettori del

“Giorno” sentiti per telefono,

occorreva includere il

percorso in un programma

turistico. Oltretutto,

sarebbe stato istruttivo.

Nessuno conosceva il ventre

della città.


La grata del Naviglio Martesana




      


     Il fotografo Zanni, un Tecnico e   Presicci pronti per entrare    nel tombino




Franco Presicci

Una sera a cena in un ristorante di via Tertulliano, dalle parti del Corvetto, sentii un vicino di tavolo accennare alla Milano sotterranea. Qualche mese dopo fu un amico, funzionario del Comune, a propormela come luogo da visitare. Colsi la palla al balzo. Andare lì sotto, nel ventre della città, di cui la maggioranza dei cittadini ignorava l’esistenza e il resto riteneva irraggiungibile, forse anche oscuro e sinistro, mi esaltava. La curiosità è una delle caratteristiche di chi sceglie il mestiere che ho scelto io; e mi trovai davanti all’assessore Giulio Polotti per ottenere l’autorizzazione necessaria. Trascorsero due giorni e alle 9 del mattino, un mercoledì, con il geometra Cighetti, della divisione fognature, e il fotografo Duilio Zanni, ero già in via Melchiorre Gioia, all’angolo con viale Lunigiana, dove il tecnico m’impose la vestizione: stivali fino all’inguine, guanti di gomma, incerata gialla, elmetto con lampadina; e mi esortò all’immersione.
La Cassina de' Pomm
Un addetto sollevò il tombino e mi lasciai ingoiare da quell’esofago, attento a dove mettevo i piedi su staffe conficcate sulla parete, per non commettere errori che mi avrebbero fatto travolgere dalle acque del naviglio Martesana, che passa sotto pelle, veloce e con fragore, e senza spazzatura, che viene bloccata dalla griglia sistemata all’altezza della Cassina de’ Pomm, quasi a ridosso del ponte oltre il quale si apre piazza Greco, dove troneggia il campanile della chiesa di San Martino, testimone della strage di bimbi della scuola elementare avvenuta il 20 ottobre del ‘44. Quella gola non portava da nessuna parte, o presentava ostacoli per me troppo pericolosi, non ricordo bene, e risalii. La squadra di pronto intervento stappò un altro tombino un po’ più avanti, all’imboccatura di via Stresa. Altro tentativo di discesa in questa specie di boccaporto di sommergibile. Zanni, sempre professionale e instancabile, puntava l’obiettivò su un collettore che sputava acqua verso due condotti “gemelli” accostati che lo fronteggiavano, mentre un rostro “tagliava” il liquido e questo, biforcandosi, si ripartiva in due grossi tubi. Alcuni impiccioni facevano commenti a voce alta, assimilandomi a Jean Valjeant de “I Miserabili”; e Zanni indagava con lo sguardo per catturare il guizzo di uno di quei topi grandi come gatti, che passeggiavano sulle sponde del canale quando scorreva a cielo aperto, incuranti delle perplessità della gente che si fermava ad osservarli.
Il Palazzo del Giorno
Li vedevo anch’io, quei sorci, anche di notte, quando uscivo nei primi anni 60 dal “Giorno”, che aveva la sede in via Fava, tra la chiesa che si apre su Melchiorre Gioia e il villaggio dei giornalisti. Lo dissi al geometra, che mi rassicurò: nella pancia della città i topastri non avevano più “habitat”. Tornai in superficie: secondo Cighetti occorreva seguire un’altra strada, più agevole. Quindi salimmo su un gippone per avviarci verso piazza Bonomelli, mentre ventilava la battuta di uno dei ficcanaso: “Raggiungeranno gli inferi da un’altra parte”. Duilio Zanni non vedeva l’ora di arrivare a destinazione. Quel percorso lo aveva immaginato più volte, ed era stato contento alla notizia che al cronista incapace di tenere il didietro inchiodato alla sedia, fosse venuto in mente di esplorare il sottosuolo, pensato come nauseabondo e tenebroso; e invece, nonostante fosse stato costruito nel 1901, se non aveva l’aria profumata, non era certo rivoltante. E non aveva un mattone lebbroso, screpolato. Vi arrivammo, scendemmo una decisa di scalini, che se non erano quelli dei trionfi della Wandissima, erano comunque integri e puliti. L’interno, altro che sinistro. Mi aspettavo che ci mettessero a disposizione un gommone per una gita tra quei meandri, ma questo non accadde: l’imbarcazione era impegnata altrove. Peccato.
La Martesana
Avrebbe consentito un’avventura più attraente. Le ripercorro oggi sul filo della memoria, quei tunnel che si snodano e s’intersecano affiancati, qua e là con stecche di cemento tra pavimento e volta, simili alle colonne che separano le navate; e i punti in cui il sottosuolo riproduce in miniatura certe caratteristiche della città sovrastante, comprese le targhe stradali, che ogni giorno abbiamo sotto gli occhi; persino la “nebbia”, da atmosfere sulfuree, che si alza dal collettore di Nosedo, che in via San Dionigi si congiunge alla Vettabbia, incrociato dallo scaricatore di piena che va al Redefossi. Così la ricordo quella parte della Milano silenziosa e tranquilla che scivola sottotraccia.
Nelle fogne
Si affacciò stranamente l’ironia di Zanni, che mi invitava a fargli sapere se per caso mi capitasse di incontrare Caronte. Ma lui era di poco dietro di me con l’attrezzatura tracolla, quindi lo avrebbe visto subito anche lui. Passammo alla cabina di comando facendo lo slalom tra manovelle che aprivano le paratie. Fu una giornata memorabile, che mi faceva pensare alla bellezza del mio mestiere, che mi consentiva di provare quasi ogni giorno un’esperienza nuova: oggi in volo su un aerostato tedesco a oltre mille metri di altezza; domani su una mongolfiera; dopodomani su un elicottero della polizia che sorvolava il traffico di ferragosto, un altro giorno ospite di una gara di canoa sul Naviglio Grande, affrontando i dislivelli che t’inzuppano; negli altri giorni su strade del centro o rurali a seguire episodi di “nera”. Ritornerei in quelle vene di Milano, in quel grembo nascosto, inimmaginabile. Lo stesso fotografo, di solito freddo e inespressivo, tipico dei professionisti che ne hanno viste tante, si disse stupito di quello scenario. Le sue parole furono interrotte da un brivido, che ci colse quando scorgemmo alcuni operai sul punto di iniziare un lavoro nelle vicinanze di quattro sifoni pronti a risucchiarli alla minima disattenzione. 
La Martesana com'era

“Questo ‘paesaggio’ – m’informò il geometra – comprende 1257 chilometri di canali, 196 corsi d’acqua tombinati e 247 scoperti. Nacque con Milano libera su proposta, nel 1866, dell’ingegner Emilio Bignami (gli hanno dedicato una via nel quartiere Bicocca), che delineò il progetto sul ‘Politecnico’. Due anni dopo, la delibera comunale”. Nell’81 la manutenzione ordinaria era costata 700 milioni e 800 quella straordinaria; 13 miliardi il costo di nuovi progetti. Negli ultimi quattro anni (eravamo nel febbraio ’82) sono stati spesi 90 miliardi per progetti contro i 20 del quadriennio precedente; i lavori in corso al 31 dicembre ’81 ammontavano a 23 miliardi e quelli ultimati a 5. 
La Martesana
“Non c’è tregua – mi disse poi l’assessore Giulio Polotti – per i lavori eseguiti per il completamento della rete delle fognature, che non hanno nulla da invidiare a quelle di Parigi; anzi, sono più giovani, più funzionali, più moderne”. E aggiunse: “La nostra soddisfazione è che il magistrato del Po ha detto che siamo stati la città che più di tutte è intervenuta in questo settore, il meno visibile e quindi il meno gratificante ai fini della pubblicità”. Era gentile, disponibile, Giulio Polotti. E aggiunse: “Il Comune ha anche istituito una squadra di 15 operai, che su segnalazione dei cittadini sblocca gli ingorghi che si creano negli allacciamenti tra le abitazioni e le fogne”. E i difetti? Ci saranno pure dei difetti. 
La Martesana
O no? “Sono rappresentati da pezzi di quartieri periferici sprovvisti di fogne e dal problema della depurazione dei liquami neri, che adesso sono scaricate nelle marcite in superficie. Rientrato al giornale, il capocronista e vicedirettore Guido Gerosa, uomo di grandissima cultura e pazienza, avendo a che fare con uno come me che una ne pensava e cento ne faceva, voleva far precedere la mia firma dalla dicitura “dal nostro inviato”. Lo pregai di non farlo. Non mi piaceva. E lui ci rinunciò. Il giorno dell’uscita dell’articolo alcuni lettori mi telefonarono per dirmi che era sicuramente interessante calarsi in quell’intestino; e mi domandarono come mai nessuno avesse mai pensato di inserirlo in un itinerario turistico, che tra l’altro sarebbe istruttivo, soprattutto la parte più antica, quella tra via Manzoni (dove si scende di notte, quando gli scarichi sono meno frequenti) e il Carrobbio. “A Parigi, almeno sino a dieci anni fa lo si faceva e nessuno al pensiero di scendere nelle fogne si tappava il naso. Dovrebbero consentire a tutti la possibilità di conoscere Milano anche laddove nessuno la vede.













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