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mercoledì 7 agosto 2019

Scarpinando a Milano si scoprono tante storie

Maria Cavalieri

SU UN PRATO DEL QUARTIERE BOVISA

VIVEVA LA CUGINA DI LINA CAVALIERI



La vicenda del vecchio carbonaio picchiato
e rapinato dei soldi e del corredo che stava
preparando per la donna che sperava di
incontrare grazie alla sua partecipazione al
“Portobello” televisivo condotto dal grande
Enzo Tortora.




Franco Presicci

Ho trascorso anni a cercare storie da raccontare prima sul quotidiano “L’Italia”, quindi sul “Giorno”. Le ho cercate percorrendo strade lunghe e strade corte, polverose o asfaltate, vicoli e cortili in centro e in periferia, in una Milano sommersa nella nebbia o mitragliata dalla pioggia o ammantata di neve.

Il pittore Bertuzzi nel suo studio
Ad avviare la serie fu il pittore Guido Bertuzzi, scomparso ormai da tempo: conoscendo la mia curiosità, una mattina del ’76 mi raggiunse in un cortile di corso San Gottardo, dove ero impegnato in un servizio per Telemontepenice e mi parlò di una ragazza che aveva seppellito il suo cane in una corte, arredando la piccola tomba con diversi tipi di fiori. La bestiolina era morta per un brutto male, contro il quale la padroncina aveva lottato con tutte le proprie forze, andando anche negli Stati Uniti. Di storie ne raccolsi tante, negli anni. Un carbonaio di via Meda, al Ticinese, che viveva da solo in uno stabile popolare fece la drammatica esperienza di trovarsi in casa, di notte, due rapinatori che lo picchiarono, derubandolo dei soldi e del corredo che aveva riservato alla donna che sperava di trovare partecipando alla trasmissione televisiva Portobello” di Enzo Tortora. “Sono rimasto orfano due volte: morti i miei genitori naturali e dopo qualche anno quelli adottivi. Sono destinato alla solitudine. Spero nell’aiuto del Padreterno”. Parlai con la madre di un giovane tormentato da un difetto che secondo lui non gli avrebbe mai consentito di conquistare una donna e per farla finita aveva rapinato una pistola in un’armeria. Il capocronista del “Giorno”, allora Enzo Macrì, professionista abile e persona umanissima, mi chiese di spiegare il fatto nella rubrica “Dietro la notizia”, e lo feci con emozione. 

Cortile di corso San Gottardo
Partecipai al dolore del proprietario di un piccolissimo circo dalle parti di Pavia per la tigre che aveva azzannato uccidendolo il compagno ed era quindi per necessità destinata all’eliminazione, perché il sapore del sangue l’aveva resa pericolosa. Ne parlammo una serra alla mensa del giornale con il direttore Guglielmo Zucconi, che quando dirigeva la “Domenica del Corriere” aveva dedicato all’episodio la copertina a colori. Scarpinando, a Milano di storie se ne possono raccogliere a josa. Si possono anche pescare personaggi interessanti. Basta saper spigolare. Appresi dell’esperienza meneghina di Ho Ci-minh, poi diventato presidente del Vietnam, in un ristorate dalle parti di via Paolo Sarpi come cuoco o cameriere (la nuova generazione con ne era a conoscenza, nonostante la targa all’ingresso dell’edificio di fianco, in cui l’uomo politico aveva abitato. Ascoltai un artigiano ex pugile che sosteneva di essere stato “in America, obbligato da un contratto stipulato verbalmente con un ‘boss’, che imponeva la mia sconfitta in ogni incontro e fui costretto a scappare precipitosamente quando, stufo di andare al tappeto, decisi di aggiudicarmi la vittoria”. Testimone del fatto soltanto il naso appiattito. In archivio non trovai traccia dei “campioni” con cui a suo dire aveva combattuto. Neppure il collega Giulio Signori, vero esperto di “boxe” e di altri sport, mi potette illuminare. 

Armando Sales
Al commissariato Ticinese l’ispettore capo Armando Sales, grande capacità investigativa e umanità (scopriva l’ago nel pagliaio), mi segnalò un anziano che, morto in solitudine, era stato scoperto dopo cinque giorni per via della radio che gracchiava di giorno e di notte. “I vicini riferiscono che fosse il fratello o fratellastro di Tina Pica”, la simpaticissima attrice e commediografa napoletana che recitava con Eduardo in “Napoli milionaria”, “Filumena Marturano”, “Questi fantasmi”… e con Vittorio De Sica nel 1953 in “Pane, amore e fantasia”… Avevo conosciuto, anni prima, quell’uomo, basso, sottile, coppola sempre in testa: faceva il posteggiatore di fronte a un residence di corso Garibaldi, dove alloggiava il mio amico tarantino Mario Ligonzo, giornalista al “Corriere della Sera”. Intervistai elementi della malandra, tra cui uno molto attivo nel dopoguerra: si presentò al giornale per illustrarmi il suo spessore e le sue imprese (per la verità io le conoscevo ampiamente). “Dove vivo – mi disse - nessuno crede ai miei racconti e sono convinto che se lei mi scrive un articolo, pubblicando anche la mia foto, si fideranno”. Dopo qualche giorno, uscito l’articolo, lo rividi al “Maurizio Costanzo show”. Mi colpì la vicenda di Samuele Jannuzzi, che continuava a partecipare alla Stramilano dei cinquantamila a dispetto dei suoi quasi novant’anni. Forse era nato di corsa, perché di corsa trattava la corrispondenza alle Poste, tanto da meritare il soprannome di Speedy Gonzales. Me lo trovai di fronte alla scrivania, mi declinò le sue generalità esibì la carta d’identità come prova che gli anni dichiarati erano quelli che si portava addosso. E conobbi Maria Cavalieri, 83 anni, che viveva in un carrozzone da circo in fondo a via Giorgio Castelli, alla Bovisa, una via allora ricca di archeologia industriale.

Il ricciolo d'acqua che attraversa il vicolo dei lavandai
Mi avevano detto che era cugina della famosa Lina, diva del “Cafè Chantant” e delle “Folies Bérgère” prima di diventare apprezzatissima cantante lirica. Voce splendida, bellezza notevole, considerata da D’Annunzio la massima testimonianza della Venere in terra. Maria non aveva nulla a che fate con palcoscenici, canzoni e brani lirici: per lavoro aveva seguito i luna park, scattando fotografie agli spettatori. Mestiere ereditato dai suoi genitori. Ricevendomi cordialmente, Maria mi invitò ad entrare nel suo guscio da lumaca inchiodato su un praticello. Mi mostrò una folla di bambole e tanti ritratti ingialliti disposti sul piano della cristalliera. Mi presentò Polli e Pallina, due cani dagli occhi languidi con la cuccia vicino a un tramezzo tra l’ingressino e la cameretta. La sollecitai a parlarmi di Lina e mi disse poche cose: “Era bellissima, aveva una grazia invidiabile. La sua vicenda artistica ebbe inizio nel 1900 e cantò nei maggiori teatri dell’Italia e del mondo. Appassionato il bacio che dette a Caruso sulla ribalta del Metropolitan. Morì nel febbraio del ’94 sotto un bombardamento aereo”. Non aveva visto il film della Lollobrigida sulla vita della star. 

Luna park, opera di Aldo Cortina
Aggiunse che sull’argomento non avrebbe potuto dirmi alcunchè di nuovo. Sembrava avesse il timore di dare l’impressione di vantarsi. Era una donna riservata, tranquilla, saggia, dignitosa, affabile, con un sorriso dolce. Da trent’anni stava in quell’angolo di Milano, a due passi dai binari della ferrovia. Aveva un ottimo rapporto con la gente, che le voleva bene e la stimava. Teneva in ordine la sua “roulotte”, al centro di una tavolozza di rose e gerani. Le piaceva ricevere visite; e se qualcuno le chiedeva del suo passato, lo snocciolava con tono pacato e senza nostalgie. Mi confidò che un tale le aveva chiesto di fargli alcune fotografie formato tessera, pretendendo di vederle senza aver pagato. “Gli mostrai il cartello che imponeva il pagamento prima dello scatto, ma quello non voleva saperne. La discussione proseguì e mi fratturai l’indice per le tante volte che lo avevo picchiato sul tavolo per rimarcare la mia determinazione”. 

Bertuzzi in vicolo dei Lavandaii
Mi mostrò il dito, dritto come un punteruolo, come un trofeo. Mentre parlava, i cani la seguivano con attenzione, e lei li accarezzava. “C’è stato un tempo in cui di cani ne ho avuti sei. Un giorno di carnevale un ragazzo legò un petardo sotto la pancia del mio preferito, lo fece esplodere e della povera creatura rimase quasi niente. Era una femmina, incinta. La riconobbi dai denti. Non le dico il mio dolore. Mio marito, Costanzo, non c’era più da qualche anno”. Maria mi offrì un bicchierino e al mio rifiuto fece spallucce. Sorridendo. Accese una sigaretta e riprese il discorso. “A Susegana, nel Veneto, fotografai i principi di Collalto; e sui Bastioni di Porta Venezia a Milano un gruppo di giovani che nel ’44 moriranno su un ponte minato”. 

Aldo Cortina
Le aveva cercate tanto, quelle foto, per il desiderio di darle ai parenti delle vittime. Ma erano finite chissà dove. E ricordò la pioggia di ordigni che, sempre nel ’44, cadde sulla città distruggendo tanti edifici, compresa la scuola elementare di Gorla. Maria Cavalieri tirava avanti con un minimo di pensione. Ma aveva il conforto della gente: c’era chi le portava il giornale e chi l’acqua. Spesso la notte sognava il suo lavoro nei luna park, fra il tiro a segno, le giostre, l’autoscontro. Parlava volentieri, anche dei bambini che volevano salire sul trenino che correndo veniva ingoiato dal tunnel dei misteri. Mi parlò anche della sua casa da circo: “Me la feci costruire un pezzo alla volta, a mano a mano che racimolavo qualche soldino”. Mi salutò con rammarico: avrebbe voluto continuare la conversazione. Anch’io sarei rimasto ancora ad ascoltare i suoi “amarcord”, affascinato anche dal silenzio, interrotto di tanto in tanto dall’ansimare di un treno diretto chissà dove. Prima di voltarle le spalle per imboccare la strada del ritorno, le lanciai un ultimo sguardo. Anche lei era bella. Nonostante l’età. Aveva cominciato a seguire i luna park assieme ai genitori, quando era bambina. Con il passare degli anni divenne autonoma. In un padiglione aveva la camera oscura, la macchina fotografica e i fondali. Uno di questi raffigurava un cancelletto spalancato su un paesaggio inondato dal sole. “Era quello preferito dalle coppie di innamorati. Mi piaceva tanto seguire i luna park, andare da una città all’altra, fotografare la gente che bersagliava con le palle di pezza le facce allineate in fondo al baraccone”. Non confidava a nessuno di essere cugina di Lina Cavalieri. Lei era Maria e basta. Con gli anni avvicinai anche qualcuno dei barboni che dormivano, in uno sgabuzzino oltre un muro di cinta, in una carcassa d’auto al Giambellino o su una porzione di terreno erboso dalle parti di Niguarda o sulle scale o nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione Centrale o nei vecchi, tetri spazi che si aprono lungo le gallerie sotto i binari della ferrovia. Qualcuno si era fatto una casa di cartone. Ma questo è un altro capitolo.




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