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mercoledì 18 settembre 2019

Il mitico fisarmonicista di Crispiano


Vito Santoro


UN’INTERVISTA SCOPPIETTANTE


CON IL BRIOSO VITO SANTORO




Ricorda i posteggiatori napoletani.

Suona il suo strumento con vera
maestria. 

Voleva studiare musica
classica, ma il papà gli chiedeva
sempre canzoni vesuviane.

Vuole resuscitare le tradizioni della sua
Crispiano, che ama ardentemente.






Franco Presicci

Incontenibile, effervescente, brioso Vito Santoro. Si presta all’intervista, ma vuole gestirla lui. Faticoso cercare di condurlo sui binari. Parla delle serenate; del carnevale e della quarantena, sua moglie; del presepe vivente defunti; dei mestieri che non ci sono più, ma salta di palo in frasca. Ha mille cose da dire, tutte per me interessanti, ma non osserva un ordine. Va indietro, anticipa, sottolinea, precisa, chiosa, si ferma sui dettagli. Trotta, galoppa, come un cavallo di razza. “Ti ricordi i ‘fiskere’; ‘u vuttere”, “’u calarere’; “’u conzapiatte…?’” (li ha annotati su un foglio di carta) “Beh non ci sono più. Crispiano è cambiata”. E’ disposto a qualunque impegno pur di rinverdire la tradizione. Venticinque anni fa, durante la celebrazione di Santa Maria Goretti, ha rispolverato le serenate, formando un duo: “Menele e Zucchere”, cioè lui e Franco Mirabelli, che è nato in Belgio. Un bel momento, le serenate. “Se un innamorato vuole conquistare il cuore di una fanciulla che lo respinge, magari soltanto per tenerlo sulla corda, o vuol rendere un omaggio a chi è già cotta di lui, noi lo seguiamo fin sotto la casa dell’amata e via con le canzoni ‘ad hoc’”. Nel loro repertorio hanno anche “Romantica” e altri brani capaci di far fiorire l’amore, se la pianta ha radici.


Omaggio floreale alla futura sposa
In masseria
















“Se l’abitazione è in alto, lui la raggiunge con una scala e porge a lei un mazzo di fiori”, mentre i musicisti diffondono le note. E’ sentimentale, Vito? Meglio non chiederlo, perché lui sta sempre dall’altra parte: è controcorrente. Se ti aspetti che risponda di sì, è no. Se uno sta a sinistra lui è a destra. E’ sempre ai margini del corteo. Così dice, e gli credo. Simpatico, schietto, lontano dalla retorica e dalle moine. All’improvviso spara la sua battuta di spirito, mai volgare, mai offensiva, e scatena la risata. Così fa quando si esibisce con la sua fisarmonica, animando le serate da ballo in piazza, le feste private. Fa anche sognare.

La serenata
L’ho ascoltato nelle masserie di Crispiano, l’anno scorso alla Francesca, in coppia con un sassofonista, in uno spettacolo memorabile. Lo immagino tra i posteggiatori napoletani di una volta. Quando recita una barzelletta lo fa con maestria. La barzelletta è un’arte. Quando il pubblico lo applaude, accende i suoi occhi vivaci. “Dovete venire tutti da me”, diceva con espressione seria, ma celiando, quando lavorava al cimitero. Egli altri si toccavano la zona meridionale. Stare con Vito Santoro è un piacere e un divertimento. Possiede un serbatoio di aneddoti. “Durante il servizio militare a Verona, in caserma, con il beneplacito del cappellano, organizzai il primo festival delle voci nuove. Mentre presentavo, andò via la luce; e io dissi: “ ‘luce’, ‘luce’, ‘luce’”. Alla fine un ufficiale si congratulò con me, dicendo: ‘Bravo, ho capito che cosa volevi dire”. Aveva scambiato luce per duce. Lo addolora vedere Crispiano privata delle manifestazioni che attraevano i turisti e chiamavano a raccolta la popolazione. Ripete: “Il presepe vivente è un ricordo. E un ricordo il carnevale. Mi stende sul tavolo un manifestino intitolato “Wanted”. Sottotitolo “Vino o morto – d virn o d staggion u carniel…”. A tutti i costi vuole leggerlo lui, con il tono giusto. Sintetizzo: Ha venòte e s na sciòte e nesciune s n’avvertòte/ se lamèntn i crestiène: ‘addò ha sciòte a quarantène????...se ballèv i sciurèje, e ce feste u martedèje…”. Poi prende una poesia. Vuole leggere anche quella. E’ dedicata a Crispiano: “Con le strade e i tuoi caffè/ ed il parco che non c’è/ non c’è manco un monumento ma lo stesso son contento/ A me basta quel che c’è ma poi dimmi: cosa c'è? Non c’è niente di speciale, non m’importa proprio niente/ a me piace questa gente… “. Firma, Giorgio e Vito.

Vito Santoro col sassofonista Armando De Sales
Annese, De Lucretiis, Santoro
















E’ nostalgico. Mi rivolge lo sguardo, stralunato. “Il carnevale era fatto di balli in famiglia; si ammazzava il maiale, il mercoledì si faceva il carnevale morto, si appendeva la ‘quarantena’, la moglie di carnevale, e nelle masserie al ventesimo giorno si rompeva ‘’a pignate’, opera della biblioteca e poi della Pro Loco, si formavano i carri, i massari aspettavano i suonatori, a cui davano le uova, la salsiccia, il caciocavallo. A Pasqua dopo la messa i massari arrivavano con il carretto… “. Parla sempre lui; non conosce pause. S’intuisce che le parole gli escono dal cuore e dalla rabbia. Cerco di porgli domande, ma lui le soffoca. Gli voglio bene anche per questo. E’ un ruscello, una cascata. Grande Vito. Deraglia ma per il bisogno di narrare la sua Crispiano svuotata delle manifestazioni che piacevano a tutti, come la sagra del fegatino, nota non solo in paese. E continua: “Mi batto per ridar vita al carnevale: se non lo fanno loro, lo faccio io”. Torna al passato: “Parecchi suonatori dell’epoca non ci sono più, sono rimasto solo. Mi ricordo Ciccillo ‘u pappatène”, che mangiava patate; Tonino Pentassuglia, detto ‘ il barbone’; Tonino Spada, un batterista che faceva le serate con me e mio fratello Lillino ‘’u russe’ per il colore dei capelli; Alfonzo Palazzo, che suonava la batteria, tutti della stessa orchestra.

Il duo “Menele e Zucchere”
Facevamo i matrimoni nelle case e nelle masserie”. Tu suoni soltanto la fisarmonica? “No, anche il pianoforte da quando avevo 12 anni. Nel ’68 (avevo 18 anni) la fisarmonica non si usava più, considerata come strumento da masseria, e allora mi sono dato alla tastiera, cominciando a formare gruppi musicali… Ah, il carnevale era molto bello, nel paese…Tu lo hai visto, giravi con la macchina fotografica attaccata all’occhio…”. Si l’ho visto: era grandioso, interminabile. Egidio Ippolito, allora al timone della Pro Loco, dal palco urlava che i carri e le maschere di Crispiano non avevano alcunchè da invidiare ad altri: non faceva i nomi ma s’intuiva che si riferiva a quelli di Massafra e di Putignano… e di Viareggio. Aggiungeva che per vedere le fantasmagorie crispianesi molti scendevano dal Nord. E non sbagliava. Ricordo la giovane signora che presentava e un personaggio in attesa di essere chiamato sul palco, mentre sfilava un carro folto di abiti ispirati all’antica Troia. E’ vero, era bello il carnevale di Crispiano. Si svolgeva, se non sbaglio, a luglio, tra lunghissime e folte ali di gente e cascate di applausi. Ha coinvolto anche me, Vito Santoro, che si blocca per riprendere la poesia, composta nell’80: “Con le tue tradizioni / e con tutti i tuoi rioni/ hai tanta ospitalità per chi viene e per chi va/ e chi torna da lontano tu abbracci, mia Crispiano/ e lo tieni stretto stretto/ come un figlio prediletto…”. Da chi hai ereditato la virtù della fisarmonica? “Ti faccio un po’ di storia. Mio nonno, Vito Castellano, che con i fratelli era il proprietario del palazzo del municipio, suonava la chitarra; il fratello Angelo il violino e la fisarmonica e aveva anche una scuola di musica, dove io ho imparato l’arte. Volevo studiare musica classica, ma mio padre mi chiedeva sempre canzoni napoletane e mi ha dirottato il gusto”. Nonostante le sue digressioni, ascoltarlo è veramente un piacere. Seduto di fianco a me, il direttore del giornale Michele Annese non perdeva una parola. Ancora quei versi: “Ma fra tutte queste cose/ una sola è importante: ritrovarsi tutti quanti nella piazza del paese/ a raccontar le nostre imprese”. E il carnevale: “In quel periodo ci vestivamo in maschera e andavamo in giro per le case, preceduti dal capogruppo che stilava il programma. Il fidanzato respinto dal padre di lei indossava la maschera e parlottava con la ragazza senza essere identificato (le furbizie dell’amore: n.d.a.). E poi tutti a tavola”. E’ innamorato della sua Crispiano, Vito Santoro, loquace, ma amabile. Con tutto questo suo bagaglio potrebbe scrivere un libro. Anzi, non so se posso rivelarlo: le sta già scrivendo, le sue memorie: quanto prima appariranno sugli scaffali. Prometto che sarò il primo a leggerlo. Prevedo che sarà ricco di storie dilettevoli. Quelle che mi ha raccontato a mezzogiorno di un martedì afoso nella villa degli Annese sono soltanto una parte. Lo saluto dicendogli che non andrò alla sagra “d’u puperùsse ascquànde” di San Simone, sperando di non far torto agli “Amici da sempre”, che ogni anno mi hanno accolto con affetto, ricambiato: motivi che non dipendono dalla mia volontà m’impongono di anticipare il ritorno a Milano. Mentre ci salutiamo, gli ricordo la sagra di tanti anni fa, in cui abili parrucchiere architettarono con vari tipi di “diavolicchio” le capigliature di belle ragazze, mentre lui, Vito Santoro, virtuoso della fisarmonica, lasciava uscire dal mantice una musica che metteva le parole sulle labbra del pubblico.


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