Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 9 dicembre 2020

La passione per il dialetto

'A frascère

A TARANTO E’ “’U SPEZZIDDE”

IL NOTO GIOCO DELLA LIPPA


I genitori imponevano ai figli

di non usare il vernacolo, ma

c’era chi disobbediva e diceva

lucèscere”, anzichè albeggiare.

Il dialetto è un patrimonio da

non perdere, ma da difendere,

affermavano i vecchi.

 

Franco Presicci

Scaldino antico di Quatela

Scaldino scomposto di N. Quatela

Ascolto sempre molto volentieri chi usa il mio dialetto. Un piacere che posso permettermi nelle rimpatriate estive nella splendida città dei due mari. Di solito colgo l’occasione per fare un salto a Taranto vecchia, dove mi fermo, in via Garibaldi o “indr’a vìremenze”, ovunque veda gruppi di vecchi che parlano del governo, del sindaco o del pescato del giorno prima. Tengo l’orecchio teso per catturare suoni che escono da quelle labbra screpolate, e gioisco. A Milano, dove vivo da anni, non trovo mai nessuno che, pur nato quaggiù, dica, per esempio, “’mbasulàte” anziché appassire,”’ndruppecàre” al posto d’inciampare. E’ più fine. Si preferisce “Ghe pensi mi” (Ci penso io), che fa parte della lingua del Porta. Un collega dalla scrittura elegante, che ha tutta la mia stima, quando accennavo al vernacolo storceva il muso: “Il dialetto, accidenti!, no, perché fare torto a Calvino o a Porzio, che pure era di Taranto e non parlava mai come te?”. Anche mia madre, casalinga con un bagaglio culturale quasi vuoto, quando ero ragazzino mi redarguiva severamente se chiamavo “curciùle” l’uccello appena caduto dal nido (lo portai subito alla nonna perché lo salvasse). Lo considerava un peccato, e mi ripeteva la tiritera: “Lo capisci che devi elevarti? I ragazzi che vanno a scuola devono avere un linguaggio dignitoso ”. Come se il dialetto fosse roba da scaricatori di porto o (con tutto il rispetto per questi lavoratori). E rimanevo perplesso quando, parlando con mia zia, scivolava su “Criste le fàce e Criste l’accòcchie” o su “Pàne e panèdde fàcene le fìgghie bbèdde”. Pretendeva che mi distinguessi. Ma a me non importava essere diverso dagli altri. Con i miei compagni usavo “spezzìdde”, il gioco della lippa, “caùre” invece di granchio e “pezzùte”, per aguzzo. E godevo quando potevo urlare “Càpe, ci ‘a mandène è fàtte”, momento esaltante di un altro gioco da me molto praticato sul larghissimo marciapiede in terra battuta di fronte a casa: “’a Levòrie”, sul quale gli studiosi, compreso Filippo Di Lorenzo, hanno discusso tanto (pare fosse diffuso in Spagna addrittura nel Medioevo). Anche per questo passatempo ero ritenuto un ragazzo di strada. Soprattutto da “’nu maulòne”, una specie di pertica, che, essendo figlio di un impiegato, mi parlava con sussiego ricordandomi che mio padre era un arsenalotto e mi pronosticava un avvenire da garzone di bottega. “Grannezzùse”, altezzoso, e “cape de tùfe”, avrebbe sentenziato mia nonna, che lo soprannominava “’ndrasciòne” per la sua altezza. Diventato un po’ più grandicello, il mio vocabolario dialettale s’infoltì e dissi chiaro e tondo a mia madre che non potevo esaudire il suo desiderio di avere un moccioso fedele ai suoi canoni: il dialetto per me era ed è importante come il pane che mi nutre e come la lingua italiana che comunque sapevo che dovevo coltivare. Ma lei aveva la testa dura. Mio nonno, noto per aver lasciato sempre deserto il suo banco a scuola e per la sua sensibilità straordinaria, cercava di farle comprendere che il dialetto fa parte del nostro patrimonio e che anche lei doveva apprezzare parole come “lucèscere”, albeggiare; “’ngègne”, la noria del signor Capone, la cui campagna era vicino all’orto di mesta Ronze, dove lei andava a comperare “’a gnète”, la bietola. E la supplicava: “Làssele lìbbere a ‘stu uagnòne!”. 

Alfredo Lucifero Petrosillo

Io ne approfittavo per stimolarla spiegandole la bellezza di certi gioielli, come “’U travàgghie d’u màre”, titolo del poema di Alfredo Lucifero Petrosillo, dal quale ero stato affascinato.

La stessa venerazione nutrivo per Alfredo Nunziato Majorano, che andava nel borgo antico per bearsi della parlata de “le chiùdde”, i pescatori, o de “le cuzzarùle”, i mitilicoltori o “d’u putejàre”, il bottegaio. Don Alfredo, come lo chiamavo io, aveva molti meriti, riconosciuti da studiosi eminenti, tra cui Michele De Noto, che, in una lettera del ’32, di lui scrisse che era un vero talento di folclorista e che se fosse nato trent’anni prima molte più persone avrebbe sottratto all’oblio. Don Alfredo scriveva anche di teatro, regalandoci opere come “’U fìgghie d’a Madonne”, ”’A truccchelesciàte de fratèlle Spiridiòone”, “’A Sanda Mòneche”, “’A stutàte”, ”A vite d’u piscatòre”, uno dei lavori a lui più cari, in cui racconta i drammi familiari, la miseria, i sacrifici, le sofferenze della gente “che per sopravvivere s’impegna l’anjidde d’a bonàneme”… Le sue commedie, commentò nel ’31 Gaetano Savelli, avevano il merito di essere popolari senza essere volgari, fedelissimo specchio della vita tarantina, dell’anima del suo popolo, quel popolo che viveva ‘ind’u strittile, ca stè sèmb’arrajate cu sole…”.

'A frascère della bisnonna Addolorata Tagliente-Anni '30
'A Frascère della nonna Antonietta Greco-Anni '50
Di Majorano ricordo una fitta raccolta di poesie e “Zazarèddire”, edito da Mandese. Ricordo i suoi rapporti dì amicizia con Gerald Rohlfs; e i suoi studi demopsicologici.
Indimenticabile un altro grande: Diego Marturano, autore di tante commedie, come “U cuèrne de Marije ‘a Canzirre”, ” Mastro Agostino Fragaglia”, “L’ove de zia Cuncette”; e di migliaia di versi drammatici o brillanti, ispirati dalla sua città, dalla sua vita quotidiana, dal suo passato, dalla sua bellezza… Come non ricordare “’U relògge d’a chiàzze”, “Tàrde vècchie mie”, “’A vie de mìenze”? Alto, magro, signorile, schivo, lo vedevo passeggiare in via D’Aquino e lo ammiravo, questo delicato cantore di Taranto, storico attento e scrupoloso, come Giacinto Peluso, Nicola Caputo….Tanti poeti ha avuto la nostra città. Tra i più… recenti, Claudio De Cuia, Nerio Tebano, Diego Fedele... Di Diego, che ho frequentato quando abitava in via Messapia, ricordo, fra i tanti altri, i divertenti versi di “’U rafanìedde”, attraversati da un doppio senso garbato, sottile, divertente; e i brani sul Natale: ”Natàle tarandìne”, “’A frascère”; “Da Natale a Sande Stèfane”, “Creije è Natale”. Con poeti e commediografi ho tenuto vivo il mio dialetto, ho amato sempre di più la parlata del mio cuore. Anche con “’U panarjidde”, che veniva confezionato nella tipografia Leggieri, che aveva sede di fronte a piazza coperta. Il periodico fu diretto anche da Petrosillo, che lavorava in Arsenale, dove durante la pausa pranzo si isolava per mettere mano alla penna, adottando come scrivania il bancone. Persona simpaticissina, camminava a passo di danza. Un anno prima della mia partenza per Milano mi disse che le sue “cose” erano all’Archivio di Stato, dove mi sarei potuto rivolgere in caso di bisogno. Nessuno può accusarmi di aver tradito il mio vernacolo.
 
Sagra del peperoncino piccante

Quando vado a Crispiano per passeggiare con il mio amico Michele Annese, pilota del periodico on line “Minerva News”, lungo via Sant'Arcangelo con sosta nella adiacente piazza Martellotta, nel quartiere di San Simone, alla “Sagra d’u diavulìcchie asquànde”, mi sfogo sciorinando termini che hanno a che vedere con questa spezie famosa in tutto il mondo: “diavulìcchie”, nome che probabilmente scaturisce dal suo colore rosso, afferma Nicola Gigante nel suo “Dizionario della parlata tarantina”. E perché non dal suo potere d’infiammare la gola? osservo. Mi vengono in mente la frase di James Joyce (“Dio ha creato l’alimento, il diavolo il condimento”) e le tante personalità che non potevano farne a meno, da Greta Garbo a Bertrand Russell, ad Anna Magnani, a Cole Porter, ad Anthony Quinn, a Frank Sinatra…Oggi sono interessato ad alcuni bravissimi cultori del dialetto che postano su facebook gli antichi proverbi: “Muttete e Detti”.

Enzo Loperfido

Uno di questi è Enzo Loperfido, che non solo raccoglie i vari gioielli di saggezza popolare, contribuendo a tenere vivo questo serbatoio lessicale, ma ne scova le origini, il momento storico in cui sono nati, le interpretazioni dei massimi studiosi e le proprie… Insomma una fatica meritevole, utile anche ad estendere la conoscenza. Una delle ultime “sentenze” trae spunto dai primi versi di una poesia di Nerio Tebano, poeta tarantino che viveva a Roma: “Achiure, achiur’a porte p’a currende, ci no po’/ ‘mbagghiare ’a parturènde….”. Ecco: il verbo “’mbagghiare”, per il quale Loperfido fra l’altro consulta i vocabolari del Rohlfs e De Vincentis, ma non si ferma lì: arriva fino al XV secolo per concludere che con il termine “mbagghiare” si voleva indicare un malanno che poteva colpire la donna gravida. Da tutto questo lavoro emergono anche altri elementi, come i modi di vivere di un tempo, gli usi, i costumi, le abitudini, le necessità. E rispunta “’a caggiòle pe’ le surge”, cioè i topi, ospiti ovviamente sgraditi delle vecchie case di una volta. In alcune, di roditori ce n’erano tanti ed era indispensabile una gabbia per catturarli. All’epoca faceva parte della dote del giovane innamorato. In casa di mia nonna abitava una famiglia numerosa di muridi, e mio zio, falegname e figlio di falegname (mest Fiorènze, un uomo eccellente che aveva il laboratorio nell’androne del palazzo in cui abitava e del quale era proprietario) confezionò una trappola con un gancio a molla al centro, a cui si appendeva un pezzettino di formaggio: attirato dall’odore, il topastro entrava, toccava la prelibatezza, scattava il congegno e la porta “s’achiutève”.

L'abbraccio fra l'Isola e il Borgo
Il resto lo lascio alla fantasia di chi legge. Insomma questi “Muttete e Detti calendarizzati” sono di un grande interesse e chi ama il dialetto “d’a nàche” farebbe bene a seguirli: imparerebbe tanto. In altri interventi emerge una figura di Taranto molto nota: Marche Poll, al secolo Amedeo Orlolla. Batteva tutte le strade vendendo il periodico satirico “’U Pamarjidde” e la schedina della Sisal. Proponeva la sua merce dicendo ad ogni passante: “A vuè mo’ ‘a schedine? No ? E pìgghiate ’U Panarjidde”. Un giorno Enzo Loperfido, laureato in informatica, intelligente, colto, tarantino doc, incontrandolo, gli disse. “Amedeo, ti porto tanti saluti dal tuo amico Giuànne Portafoglio”. La risposta: “Amiche tùve, je fatjie”. Marche Poll, nome dovuto al fatto che il padre era stato imbarcato sulla Marco Polo (lo raccontava, quando gli capitava, lo stesso Amedeo), non era dunque annebbiato come molti pesavano. Lo ricordo bene. E ricordo le serate in cui strillava lungo via D’Aquino i messaggi burleschi che gli venivano commissionati in cambio di qualche lira. Altri tempi. Altra via D’Aquino, dove il comitato della Festa della Matricola si sedeva al Bar Principe con l’intento di sviluppare i progetti per la baldoria.

                                             &&&&&&&&&&&&&&&&&

      UN REGALO PER NATALE-(SCONTO 20% - SCHENA EDITORE-

      tel. 3925429365)











Nessun commento:

Posta un commento