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mercoledì 2 dicembre 2020

Feste di ieri e di oggi

                                                                

Figure per il presepe di Manola e Vincenzo

 

NON SPEGNERA’, IL CECCHINO   

LA MAGIA DEL SANTO NATALE

    Una volta le strenne le portava

    la Befana, calandosi nella gola

    del camino, dove c‘era. Almeno

    questo si raccontava ai bambini.

    Ma la vecchietta distingueva tra

    ricchi e poveri. In verità erano i

    portafogli dei papà ad essere

    vuoti 

 




Presepe dei Soliti Ignoti

 

 

Franco Presicci

Natale è alle porte. Ma temo che quest’anno

la ricorrenza sarà in tono minore: il cecchino

invisibile continua a tenerci in scacco. Ma non

bisogna mai perdere la speranza. Certo,

stando ai provvedimenti del governo, le

tavolate non potranno essere affollate e i baci

e gli abbracci dovranno essere evitati. Ma

forse potranno essere riaperti i

negozi, e quindi gli innamorati potranno

scambiarsi i regali e i ragazzini

avere le ultime novità tecnologiche.

Zampognari al Centro dell'Incisione
I più piccoli convinti che a portare i giocattoli è Babbo Natale, quell’omaccione con il volto incorniciato da pelo bianco, l’abito rosso e il cappello a punta e la pallina di lana bianca penzolante; a differenza dei più grandi, i quali sanno che Santa Claus è una figura immaginaria e che sotto il suo abbigliamento c’è una persona che magari invece di ridere vorrebbe piangere. Io ricordo altri Natali, con i papà e le mamme in giro per la città in cerca di giocattoli meno costosi, che non si trovavano certo in esercizi tipo la Rinascente a Milano, che – come dice Carlo Castellaneta nel suo libro “Nostalgia di Milano” – era un Paese dei balocchi, che i più poveri potevano al massimo sognare”. Nelle vetrine i trenini della Lima e della Rivarossi correvano in un regno di bambole e di eserciti di soldatini di piombo (mamma quanto li ho sognati!), mentre sulla città fioccava la neve. Per ricevere un semplice Pinocchio di legno bisognava essere stati buoni o aver riportato voti decenti sulla pagella; altrimenti, cenere e carboni. Ma non so quanti genitori se la siano sentita di rovinare la festa ai marmocchi. So di molti che aggiungevano al regalo un biglietto. “Gesù Bambino ha pensato a te anche se non lo meritavi”. Ma io mi riferisco ai Natali tarantini, quelli di circa ottant’anni fa, quando laggiù l’automobilina a pedale e il pulcinella su quattro ruote, che, spinto da un’assicella, percuoteva i piatti, li portava la Befana, che faceva distinzioni tra ricchi e poveri. Ma non ci facevo caso e piuttosto mi domandavo come facesse la vecchia con il naso lungo e curvo e il mento appuntito ad infilarsi nel camino, dove c’era, con il sacco dei giocattoli sulle spalle, come si raccontava.
 
Le pettole
Con me e con quelli che abitavano nella mia via era avara: ci lasciava un anno “’nu currùchele”, un altro “’nu tirammòlle”, un altro ancora ‘”nu monopàttene”, che poi scoprii, origliando, che l’aveva fatto, in modo rozzo, mio padre e mia madre, per riparare, disse che lo aveva incaricato la Befana. Solo verso i dodici anni mio cugino Enzo, più grande di me e più smaliziato, mi rivelò che “’a ròzzele” che avevo trovato sul comodino era opera di mio zio Dionigi, cioè suo padre, che per mia sorella aveva eseguito una camera da letto raffinata. Quindi la Befana non era una vecchietta che volava a cavallo di una scopa come i barboni nel famoso film di Vittorio De Sica. I doni li portavano papà e mamma, e i miei avevano il borsellino che piangeva.
 
Statuine della Casa del presepe

Una volta sentii piangere una bambina a cui la Befana aveva portato una bambola di pezza piena di segatura. Ne aveva avuta una anche mia sorella, che non pianse, ma rimase molto male quando quella subì uno strappo ed emise “tande di chidde farfugghie” che poteva riempire una grossa scatola di scarpe. A pensarci, mi viene in mente l’antica filastrocca cantata da Renato Carosone: “Mo’ vene Natale e nun tènghe denare, m’appicce ‘na pippe e me vaco a cuccà”. Eppure il Natale lo aspettavamo con ansia per un anno. Non dico la gioia di vedere passare gli zampognari che arrivavano dall’Abruzzo e suonavano “Tu scendi dalle stelle” con le cornamuse. Erano il simbolo, i messaggeri della grande festa Natale. Alla vigilia mettevamo la letterina sotto i piatti del nonno e del papà e quando il piatto veniva riportato in cucina i destinatari facevano un po’ di teatro inscenando la sorpresa. Le due lire ce l’avevano già in tasca.

Bambinello di Manola Artuso e Gianluca Seregni
Erano comunque Natali di gioia. Già un mese prima si cominciava a fare il presepe, che non era certo come quelli di Napoli, dove anche le scenografie popolari raggiungevano livelli d’arte (non parliamo poi dei presepi in cui, nel XVII secolo, provvedeva a sistemare i pastori il re Carlo III, mentre sua moglie si occupava personalmente dell’abbigliamento e eminenti architetti facevano il resto). Molto più modestamente il nostro lo faceva mio padre con fogli di giornali impastati di creta sciolta in un secchio, e poi impiegati per ricoprire, aggrinziti, lo scheletro di compensato. Gli alberi erano compito mio: andavo a prendere, a piedi, i rami di pino già strappati a Praia a Mare, stabilimento balneare sulla strada per San Vito. L’erba proveniva da un campo a due passi da noi, noto e frequentato “p’a ‘ngègne”, la noria, fatta girare da un cavallo bendato. Per l’illuminazione veniva utilizzata una normale lampadina nascosta fra gli aghi. Le statuine le confezionava mia madre: non ci potevamo permettere di fornirci dalle bancarelle allineate vicino alla chiesa di San Cataldo (tra l’altro troppo lontane dalla nostra via, alle Tre Carrare).
 
Presepe di Manola e Gianluca

La creta ce la dava uno che l’acquistava abbondantemente per sé ”sus’a le Tammòrre”. Insomma non era un presepe spettacolare, di quelli con le casette ben distribuite, cioè le più piccole dietro e le più grandi davanti, secondo un ordine prospettico, tante luci nelle grotte e lungo i sentieri, l’acqua non simulata con fogli di carta argentata, un paesaggio da sogno, i personaggi sagomati da artigiani o da artisti, come a Milano Manola Artuso e Gianluca Seregni, una coppia affiata nell’arte e nella vita, nella loro bottega di viale Certosa; e a Taranto la famiglia Mazzarano della Casa del Presepe. Eppure l’allestimento del presepe era un momento magico, che mi faceva immaginare di trovarmi tra il guardastelle e un pastore con la zampogna o addirittura seduto in una grotta accanto a quella del Bambino. Per monsignor Gianfranco Ravasi - presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura e dei Dicasteri Vaticani per l’archeologia e l’arte sacra, già prefetto della Biblioteca e Pinacoteca ambrosiana – “con tutto il suo apparato di figure, e di emozioni e di paesaggi, il confluire dei pastori stupiti che avanzano verso quella grotta e quel Bambino appena nato, l’adorazione solenne dei Magi con il loro insieme sontuoso di doni costituiscono infatti per l’arte un vero e proprio alfabeto colorato della vita, della fede, della fiducia, dell’avvio di una storia segnata della pace tra Dio e l’umanità e degli uomini tra loro”.

Presepe vivente di Crispiano

E per Elisabetta Oropallo, esperta di spettacolo e comunicazione, il presepe è fonte di attesa gioiosa per tutti i bambini che attendono l’arrivo del Natale…”. Qualunque sia il risultato ottenuto da chi lo ha concepito. Il periodo natalizio memorabile l’ho avuto anch’io, ed è stato quello in cui mia madre, facendo un sacrificio enorme, mi regalò un drappello di soldatini di piombo, uno più bello dell’altro. Un mese dopo un militare disertò e lo cercai dappertutto, piangendo. E quando mi ero ormai rassegnato alla sua perdita, lo ritrovai in casa di un lontano parente e non ebbi il coraggio di rivendicarne la proprietà. I sopravvissuti sono oggi allineati su uno scaffale della libreria. In ricordo dei tempi in cui improvvisavo le battaglie navali con le mollette come aerei e le navi di carta galleggianti in una vaschetta colma d’acqua. Quanti ricordi avrei da snocciolare. Tanti ne sono emersi dall’archivio della memoria il giorno di Santa Cecilia, che introduce l’aria del Natale. Amici di Taranto mi hanno mandato un paio di video con la banda in giro per la città fin dalle prime ore del mattino.

I Magi nella Casa del presepe di Grazia Spataro

Mi viene in mente il grande, autorevole, coltissimo Giacinto Peluso, che in uno dei suoi libri, “Taranto da un ponte all’altro”, ha scritto che una volta le bande erano due: quella di Scattigne e quella degli Scarpari, che si alternavano, attirando un bel numero di persone, ragazzini compresi. Suonavano le “pastorali”, aggiunge un altro grande, Nicola Caputo: “Le ‘pastorali’ sono fondamentali nella tradizione natalizia tarantina. Dal 22 novembre e sin al 6 gennaio saranno le vere protagoniste della festa più intima, più raccolta dell’anno”. Meticoloso, storico appassionato, Caputo lo fa rivivere, il Natale di una volta, descrivendo anche i piatti, dalla pasta con le cozze o con le anguille, “’u capetòne”, per concludere, dopo altre pietanze, con le “castagne d’u prèvete”. Allora le donne preparavo “u resòlie”, operazione in cui erano bravissime. Per acquistare gli ingredienti si rivolgevano a Misciose, in una drogheria di via Garibaldi, nella città vecchia. Le vie profumavano di “scarcèdde”, “sanacchiùtele” costellati di “anesine; “taradde”, che mia nonna ci faceva portare al forno di “mest Petrìne”, che mandava aromi in tutta la via Giusti, parallela alla nostra. E, giacchè c’era, confezionava anche le “fresèdde”, con le quali facevano colazione. Il nonno stava a guardare, tenendo in tasca la pipa a collo di giraffa, perché gli era proibito fumare durante la lavorazione di quelle prelibatezze. La sera si faceva la partita a scopone con mio padre e i miei zii, e noi a guardare, vigendo la proibizione per i mocciosi di partecipare. Anche per gli adulti il Natale era ed è una festa magica e importante.

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