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mercoledì 13 maggio 2020

Com’erano una volta le Tre Carrare

Via Nettuno angolo via D'Alò Alfieri


ABITAVO IN VIA NETTUNO

TRANQUILLA E SILENZIOSA

Conoscevo proprio tutti gli abitanti:
da “Segarone”, sempre con un “siluro”
tra le labbra, a “Menza meròdde, alta
un metro e cinquanta, alla “contessa”,
moglie di un vetturino. “Mest Fiorènze”
aveva la falegnameria nell’androne del
suo stabile; “mest’Andonie” in un locale
di fianco. Oggi la strada ha cambiato faccia.





Franco Presicci

Via Nettuno, a Taranto, una volta era periferia: a un centinaio di metri dall’orto di mèsta Rònze, dove mia madre mi mandava ad acquistare “’a gnète” (la bietola). Chi aveva voglia di spingersi più in là ”, poteva ammirare ”’a ‘ngègne, la noria, congegno mosso da un cavallo bendato e usato per sollevare l’acqua dal pozzo. Era collocata al centro di un altro orto, quello del signor Capone, un uomo alto, massiccio, rispettoso.

Istituto  Augusto Righi
Io ero un moccioso, quindi curioso di tutto ciò che c’era o avveniva in quel piccolo mondo antico: fa parte di un libro scritto nella mia memoria, dove spiccano, nonostante i 74 anni trascorsi, fatti e personaggi. La contessa, per esempio, bassina, un po’ in carne, socievole, abbigliamento ricercato. Nessuno sapeva se fosse davvero di nobile lignaggio (e a chi poteva interessare?), certo è che attorno a quel titolo ronzavano vespe e zanzare, che non consideravano le autentiche virtù della persona.
Se chiudo gli occhi, e la nostalgia m’induce a farlo spesso, rivedo a uno a uno tutti gli abitanti, soprattutto don Damiano, titolare del tabacchino, che mi aveva incaricato di sorvegliare le ante della porta per impedire ai ragazzini discoli di farle sbattere, dopo aver contato fino a tre a voce bassa, spingendole con forza. Compenso, una caramella. Di fianco a questo negozio abitava una famiglia numerosa: sei figli, di cui due maschi.

Via Nettuno
Margherita, la più bella. Il papà, che indossava sempre un borsalino scuro a tesa larga, aveva fatto parte della milizia per guadagnarsi il pane, ma non aveva mai procurato problemi a nessuno, anzi; e un tale, vantando idee, confuse e aggressive, opposte alle sue, lo bollava come fascista. Il pomeriggio alle 4 la moglie del brav’uomo si sedeva fuori del portone e parlava con chiunque vi si fermasse, specie Gilda, che abitava al secondo piano del palazzo di fronte e aveva un marito, Osvaldo, che pur avendo fatto soltanto un paio d’anni alla scuola per ragionieri insegnava, ottimamente, matematica a un ragazzo del liceo scientifico.
In questo androne aveva il banco il falegname “mèst Fiorènze”, che quando piallava o raspava riempiva il locale di “farfùgghie” e “serràzze” (sottilissime falde di legno espulse dalla feritoia dell’attrezzo e segatura). Ma siccome lui era il padrone dello stabile, nessuno protestava; a parte sua moglie Adelaide, che teneva molto alla pulizia. Quando mèst Fiorènze smetteva di lavorare, lasciava tutti gli strumenti in un angolo, e il giorno dopo li trovava tutti dove li aveva deposti.

Stabile di via Nettuno
Noi abitavamo al civico 10 e tra questo numero e quello del falegname c’era un localino in cui faticava ”mèst’Andònie”, il calzolaio con il deschetto, che quando si alzava rovesciava il contenitore dei chiodini (le “semenzelle”) e se la prendeva con il mondo intero: gli urli arrivavano fino alle scuole elementari Acanfora, in via Dante, perpendicolare di via Nettuno. Per me nutriva un’antipatia speciale: quando il nonno mi spediva da lui con un paio di scarpe da risuolare, mi trattava con modi bruschi, se non bellicosi. Il motivo derivava dal fatto che tempo addietro quattro o cinque ragazzi irrequieti gli avevano fatto uno scherzo consegnandogli un fagottino che avvolgeva non scarpe ma pietre. Giuro: ero innocente, ma tutto ciò che accadeva nella strada era colpa mia, perché avevo i capelli ricci, mi chiamavano “rezzetjìdde” ed era facile individuarmi. “Ci hà’ stàte?”. “”U rezzetijdde”, e andavano a protestare dal mio vecchietto, che era un bell’uomo, aveva i baffetti bianchi ed era elegante, oltre che comprensivo e intelligente.

La Chiesa del Sacro Cuore
Una volta ero colpevole davvero: detti un calcio a un cavolo di cappuccio caduto da qualche borsa della spesa, mandando in frantumi il vetro di una finestra; ma la feci franca. Pensai che il mio santo in paradiso qualche volta si svegliasse.
Nel quartiere,le Tre Carrare, tutti conoscevano la signora Magenga, che abitava al primo piano del numero 16. Faceva le iniezioni con mano leggera; e se qualcuno aveva un foruncolo ricorreva a lei anche di notte. Invano ho cercato di ricordare il nome della levatrice che mi fece venire al mondo. Era piccolina, ormai un po’ ricurva e di poche parole. Non ci siamo mai parlati; la vedevo passare sempre con la sua borsa in mano, a passo svelto. Ho in mente un nome: Vestita, ma era lei o una mia maestra della prima elementare che passò come una meteora? Al 12 si apriva il negozio di articoli elettrici di Quatraro, il cui figlio, Gennarino, alla maggiore età, si dedicò anche lui a riduttori di corrente, voltimetri e lampadine. Dirimpetto stava il palazzo dei Belloni, il cui nipote diventò un maestro del violino.

Scuola Acanfora
I nomignoli si sprecavano. Una donna gentile, premurosa, sui cinquanta, era “Mènza meròdde” a causa dell’altezza (un metro e cinquanta); un’altra “Cap’a ‘na còste”, per via del collo appena appena reclinato a sinistra; un fumatore benestante, panciuto, aria da padrone del vapore, sempre con un “siluro” tra le labbra: “Segaròne”… A ribattezzare le persone erano due chiacchierone che dopo le 5 si affacciavano al balcone, al primo piano, e osservavano i passanti. Se una ragazza usciva verso le 21 con il fidanzato, fioriva il commento: “Chissà dove va quella a quest’ora?”. Quando rincasava, un paio d’ore dopo: “Bah, ci sàpe?. ‘A màmme, nìende dice?”. Una specie di damigiana anzianotta che parlava seminando dicerie era “Lènga lònghe”; un trentenne sempre pronto alla burla, “Cegghiòne”i… La signora Gina, alta, capillare, faccia angolosa, tacchi alti, sedicente sosia della Lollobrigida, sapientona senza succo, era “’a Grannezzòse”. Insomma, ce n’era per tutti. “Uèlìne” (forse il diminutivo di Emanuele) era uno dai modi sbrigativi, pane al pane e vino al vino, sempre calmo e prudente: un birbantello con una pallonata gli ruppe un vetro, lui andò dal padre e gli presentò il conto senza fiatare. In strada si faceva vedere pochissimo e per gli altri era in clausura.

Piazza Messapia

Statua della Madonna in piazza Messapia





















Il marciapiede di fronte alle persiane della nonna era molto largo e in terra battuta: il luogo ideale per giocare alla “livoria”, allora molto diffusa in ogni quartiere, e anche nella città vecchia: occorrevano due sfere d’acciaio (ricavate dai cuscinetti dei camion americani), due palette che le spingevano, perché non si dovevano mai toccare con le mani, e un cerchio di ferro sostenuto da una sorta di chiodo che si conficcava nel terreno: per realizzare il punto le sfere dovevano attraversare il cerchio, che in dialetto era “’a scìgghie”.


Se la palla di uno dei giocatori si trovava verso “’a menàte” (la linea dalla quale partiva il gioco), l’altro con la propria poteva fare due punti se riusciva a colpirla. Ma doveva dire: “Cape, ce mandène jè fàtte”. Senza volermi dare le arie, io in questo gioco ero abbastanza bravo. Altri passatempi, “’u spezzìdde” (la lippa), praticato anche a Milano in piazza della Vetra; “’u turnìedde”, che si faceva con un cerchio segnato per terra... Spesso da via Dante sbucava “’u ‘nghiappacane” “c’u chiàppe e ‘a carrettèlle” e tutti noi ragazzi ci davamo da fare per salvare l’amico “vagabondo”, facendo sbarramento attorno a lui.
In occasione delle feste, in piazza Marconi (cinque o sei isolati da via Nettuno), sede del mercato, separato da via Dante da “’u mònde de le vàcche”, dove adesso c’è l’ospedale Santissima Annunziata, s’innalzava l’albero della cuccagna: la gente arrivava dappertutto per vedere i giovanotti che si affannavano per guadagnare la cima, da cui pendevano salsicce, provoloni, bottiglie di vino, e quello che arrivava all’ultimo momento, si inerpicava senza molta difficoltà e arraffava il ben di Dio.

Via Nettuno
Io dicevo che era un’ingiustizia con quell’asso pigliatutto che scavalcava gli altri. Ci sono voluti anni per sentirmi spiegare che era tutto organizzato (i primi, salendo e scivolando, dovevano solo togliere il grasso dal palo, agevolando la scalata del… vincitore). Poi il mercato si è trasferito alla caserma Fadini, in via Leonida, nei pressi dell’Arsenale, e per comperare arance, verdura e “lambasciùne” bisogna passare attraverso corridoi di auto rumorose e a volte prepotenti.
Le Tre Carrare non sono più periferia, non finiscono più in via Giovan Giovine. Via Nettuno, pur conservando un’atmosfera popolare, ha visto abbattere modesti caseggiati e costruire palazzi di cinque o sei piani. In via Dante, dopo via Giovan Giovine, la campagna è scomparsa sotto edifici moderni, come i Beni Stabili, poco prima di viale Magna Grecia, che allora era una prateria (la prima costruzione fu la clinica Vestita), dove ogni tanto passava una bicicletta.

Via Nettuno
Via Nettuno la ripercorro a piedi nelle mie brevi rimpatriate, attraversando piazza Messapia, oggi alberata e dominata dalla statua della Madonna e proseguendo fin dove una volta la strada era troncata dai campi, poi fagocitati dalla caserma dei vigili del fuoco. Tornando sui miei passi, appostandomi sulla soglia del civico 10, rivedo, sull’angolo con via Dalò Alfieri la salumeria “d’a francaveddèse”, da noi frequentata per comperare l’olio; il negozio di Quatraro (la signora sulla soglia ad intrecciare discorsi con chi andava o veniva dalla piazza); la piccola casa recintata della famigliola il cui figlio amava il “tip tap” e mostrava a tutti le scarpe con le placchette metalliche… E rivedo “Bbecchemmuse”, lo spilungone a cui colava sempre il naso; la famigliola che gli impertinenti chiamavano “Brutos”, dall’insegna del complesso musicale noto negli anni Sessanta; Rocco, un ragazzo d’oro, magro come un fuscello, malaticcio, che in un baleno faceva le divisioni, le somme, le sottrazioni, le moltiplicazioni e le radici quadrate più complicate, senza toccare carta e penna.
La “mia” via Nettuno non c’è più. Come non c’è più viale Venezia, allora una prateria e oggi con il nome di viale Magna Grecia è ricca di giganti di cemento, tra baccano e confusione. Ah, ricordo il vecchio che mi raccontò della “Mano Nera” che secondo lui usciva a mezzanotte dalle parti di “mèsta Rònce”. Certamente una balla o una credenza popolare: Taranto non era New York, dove la “Mano Nera” c’era veramente, combattuta nei primi del ‘900 dal più famoso poliziotto della Grande Mela Giuseppe Petrosino.





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