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mercoledì 10 giugno 2020

Quando venne arrestato l’ultima volta


TELEFONO’ AL SUO VICINO DI CASA
DI PRENDERSI CURA DEL SUO GATTO
Oscuri, il questore Bonanno, Gino Cervi

Per tutti i profitti della sua attività di
ricettatore venne soprannominato
dalla mala e dai cronisti Paperon de’
Paperoni. Si diceva che negli anni 70
si fosse fatto costruire in Svizzera una
villa da nababbo. Da giovane aveva
frequentato il ring, al quale preferì un
altro mestiere.


Franco Presicci
Nel mondo della malandra gli avevano assegnato il soprannome di Paperon de’ Paperoni per il profitto derivante dalla sua attività di ricettatore: si diceva che disponesse di forzieri e magazzini pieni di merce rubata, compresi oggetti preziosi e che in Svizzera si fosse fatto edificare negli anni 60 una villa da nababbo. Nato in un’ottima famiglia dell’alta Italia, aveva intrapreso questo mestiere, diverso da quello previsto nella palestra di pugilato agonistico che aveva frequentato. Viveva a Milano, era intelligente e conduceva i suoi affari con abilità imprenditoriale.
L'ex commissariato trasformato in pub
Ciononostante, gli investigatori, guidati dal maresciallo Ferdinando Oscuri, bussarono spesso alle porte della sua “azienda” e non ne uscirono mai delusi. Almeno così raccontavano le cronache e così lo descrivevano i poliziotti che lo avevano mandato più volte al “gabbio” (la cella). Sempre secondo le voci correnti, i ladri, i topi d’auto, le “mani di velluto”, come vengono definiti i virtuosi del borseggio, i “volinisti”, autori del furto con destrezza, affidavano a lui ogni sorta di malloppo. 

Un amico istruito sui meandri della mala, sui suoi abitanti e sulle loro specializzazioni mi aveva parlato ripetutamente del personaggio e del suo presunto pozzo di San Patrizio. Finchè per me venne l’occasione di captare le risposte – stando per motivi personali, leciti, in una stanza di un commissariato il 24 luglio dell’80 - che dava al sottufficiale che stendeva il verbale per l’arresto. Mi fece anche un po’ di tenerezza, oltre che simpatia, sentendolo supplicare il maresciallo, cintura nera di judò e sosia di Bud Spencer, o meglio di Folco Lulli (deceduto nel ’70), protagonista nei film “I compagni”, “Il Passatore”, “La ragazza di Trieste” (ne interpretò una quarantina), perché gli concedesse una telefonata al vicino per pregarlo di prendersi cura del suo gatto.

Poliziotti nel mezzanino del metrò
“Adesso mi mandate alla ‘casanza’ (o meglio il carcere: n.d.a.) e il mio micino rimane solo. Lui non ha alcuna colpa”. Piangeva, non per finta, non per fare teatro: non era il caso, visto che, lacrime o no, in piazza Filangieri, a San Vittore, doveva andarci. Il poliziotto, un duro, un mastino, barba e baffi folti e neri, corpulento e in completo scuro, non so se per pietà o per stanchezza, gli porse la cornetta del telefono; e lui, rivolgendosi all’interlocutore: “Ti prego, t’imploro, prenditi cura del mio micio: mi hanno arrestato, non so quando potrò tornare a casa e la bestiola al mio ritorno non la troverò più viva, se tu non compi questo atto di carità”. L’altro lo rassicurò e lui smise d’implorare, sicuro che il vicino avrebbe mantenuto la promessa. L’arresto, conclusione di indagini partite da alcune rapine, era stato preceduto dalla perquisizione, che, se non ricordo male, riempì il carniere con gioielli per il valore di cento milioni e altro. 
                          
La polizia si era presentata prima al domicilio di certi elementi conosciuti per le loro imprese, quindi alla porta di Paperon, che, oltre al mestiere di “riccardor”, come nella Bassa Padana viene indicato il ricettatore, a quanto pare, aveva le mani in pasta anche nel campo variegato del falso. Salì dunque sulla volantina del commissariato, diretta alla “casanza”, da dove uscì tre mesi dopo con l’obbligo di firmare una volta la settimana l’apposito registro in un commissariato. Ma dopo qualche mese fu ricoverato in ospedale, a causa di un insistente mal di testa, provocato da un colpo di pistola che lo aveva ferito la notte del 25 luglio ’75: tre killer incappucciati gli avevano sparato sulla porta di casa. Motivo? Un mistero rimasto tale fino ai suoi ultimi giorni. 

Controlli di polizia
Il pub la Madama



















So che alla notizia della sua morte, avvenuta nel gennaio dell’80, molti detenuti di San Vittore si commossero, giudicandolo tutto sommato una brava persona. Un quotidiano importante titolò: “Morto in un letto d’ospedale Paperon…, primo ricettatore dei ladroni di Milano”; e un altro: “E’ morto Paperon, il buono della mala”. A quanto mi fu riferito non era uno spaccone né un esibizionista, ma gli piaceva circondarsi di cose belle; e a quanto pare non ricettava soltanto per fini di lucro, ma anche per ragioni… estetiche. Era gentile, rispettoso. Dopo tanti anni lo ricordo con benevolenza. E penso che se tutto il popolo della malavita fosse stato come lui, ci sarebbe stata meno violenza e quindi meno sangue versato sulle strade. Oggi la malandra è spietata, facile all’uso delle armi. 

Il giornalista Paolo Chiarelli
Ricordo la quantità di mitra, pistole, caricatori, radio ricetrasmittenti… che ai miei tempi di cronaca bollente la polizia allineava sui tavoli congiunti in occasione delle conferenze-stampa dopo un “blitz”. Paperon non è il solo esponente della “maglia”, la mala, in cui mi sono imbattuto. Non dimentico la suora laica, Angela, che aveva fatto parte di una banda molto bellicosa. Un pomeriggio mi dette appuntamento in un bar affollato di gente arcigna e incuriosita dalla mia presenza; mi invitò ad un tavolino in fondo a una delle sale e cominciò a raccontarsi. Tra l’altro, mi disse che un giorno, mentre stava per uscire di casa con in pugno una pistola “per andare a vendicare alcuni miei compagni in carcere infamati da certe maldicenze di chi stava fuori, sentii una voce: ‘Dove vai con quel cannone?’. Mi fermai di scatto: era la voce del Signore che mi parlava. E mi cucii questo saio”. Al termine, mi regalò una medaglietta della Madonna, raccomandandomi di non spargere più peperoncino piccante nei miei articoli. L’ho sentita al telefono mesi fa e mi ha fatto la stessa raccomandazione. Figlia di una circense, abitava alla Comasina.

Controllo di polizia

Ho conosciuto anche un ex spaccatore di vetrine, che ha passato molti anni in galera. Quando era nel carcere di Opera, durante un permesso venne a cercarmi al giornale, il 2 novembre del ’79, il giorno della scoperta della strage di Moncucco: sette persone ammazzate in un ristorante perché testimoni dell’uccisione del proprietario. Mi porse un libro sulla sua vita di sbandato (questo il titolo) e gli suggerii d’intraprendere la carriera di editore, pubblicando scritti di altri detenuti. Promise che ci avrebbe pensato, ma quando tornò per ringraziarmi della recensione non aveva ancora cominciato. Uscito in libertà vigilata, si era messo dietro il banco di un’oreficeria, forse della moglie. La viglia di Natale un tossicomane vi entrò, arma in pugno, e la svuotò, lasciandolo al verde. Venne al giornale e affranto mi riferì l’episodio, commentando: “Chi la fa se l’aspetti, vero?”. “No, non è così che la penso”, risposi. Ero davvero dispiaciuto. 

Catania e i prefetti Serra e Colucci


Tra i personaggi che ho conosciuto nella mia vita professionale c’era anche il “bandito gentiluomo”. A capo di una banda di rapinatori del dopoguerra, al termine dell’assalto in banca lasciava la mancia al cassiere, ringraziava e si ritirava con il bottino. Mai sparato un colpo. Un giorno un collaboratore di piano al “Giorno” venne a dirmi che ero atteso nel salottino. A sentire lo pseudonimo con cui si era annunciato credetti a uno scherzo.

Invece quando lo vidi comparire nel salone della cronaca e venire verso di me claudicando rimasi sbalordito. “Che cosa vorrà da me? Pensai: “Ho scritto di lui più volte in inchieste sulla malavita dell’epoca e sicuramente qualche passo non gli è andato a genio, quindi è venuto per farmi la ramanzina”. Sbagliato: mi chiedeva un’intervista. “Nel paese in cui vivo, narro la mia storia e nessuno mi crede. Se esce un suo articolo sul ‘Giorno’ con tanto di fotografia si ricrederanno”. “Ma i suoi parenti…!”. “Sanno tutto, non ho nascosto nulla nemmeno agli altri”. Era uno “scoop” e non me lo lasciai scappare. Quante storie avrei da snocciolare. Anche strane. 

Una quarantina di anni addietro lessi su un quotidiano autorevole che un ladro aveva in mente di creare il sindacato della categoria. Forse a difesa dagli improperi lanciati contro di loro da chi subisce il danno? Incredibile. Nel suo lavoro un giornalista incontra capitani d’industria, personalità della cultura, politici, primari, questori, prefetti e quindi anche elementi della “mala”. Ho intervistato pure un famoso “boss”. Me li ricordo tutti, anche quelli che la malandra la combattevano. Come mamma L., una signora molto a modo, che, stanca di vedere il suo quartiere assediato dagli spacciatori di droga, a mezzanotte usciva di casa, suonava la tromba per chiamare a raccolta la gente e tutti insieme perlustravano le strade. Tutti i giornali parlarono di lei. Tra i cronisti più simpatizzanti dell’iniziativa, il sottoscritto, che dopo aver seguito il corteo, ne parlò sul “Giorno”, di cui era capo cronista Enzo Catania; e Paolo Chiarelli, ottimo collega de “Il Corriere della Sera”.





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