Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 24 giugno 2020

La storia dei cappottari di Teresa Gentile


Fedele Pavone con i figli
RIPERCORSA NELLE PASSEGGIATE SEROTINE

CON UN RAPPRESENTANTE DELLA 

CATEGORIA



Pierino Pavone, che per quarant’anni aveva

frequentato i mercati del Leccese, mi faceva 

conoscere Martina, mi parlava dell’attività

che aveva svolto, mostrandomi i luoghi degli

opifici, dei depositi..





Franco Presicci
Dopo tanti anni, ho ripreso in mano l’interessantissimo libro di Teresa Gentile: “Dalla tessitura all’industria confezioniera a Martina Franca”, edito da Schena nel 1998.
Pierino Pavone al torchio
Quando lo vidi esposto nella vetrina del tabaccaio che sta tra via Taranto e lo stradone, ero con un ex cappottaro prestigioso mio amico: Pierino Pavone, che mi consigliò di acquistarlo. Accettai il consiglio, appassionato com’ero, e sono, di tutte le testimonianze del luogo del cuore e della memoria. Sapendolo, un altro amico, Peppino Montanaro, che come me e Pierino la sera frequentava il locale di Peppino Cito per fare quattro chiacchiere, mi regalò le fotocopie degli scritti di Aminta Scialpi, che divorai il giorno dopo. Dei cappottari Pierino mi aveva parlato molte volte. Ogni tanto verso le 19 percorrevamo insieme le strade di Martina, dal ringo a “u curdunnjdde”; da via Mercadante al foro boario, e durante il tragitto lui mi raccontava il mestiere che aveva praticato con passione e orgoglio per quarant’anni al mercato in provincia di Lecce. E quando gli confidai che avevo in mente di fare un salto a Cutrofiano per acquistare delle statuine del presepe per la mia collezione, si propose come accompagnatore. A noi si aggiunse Peppino Cito, che scattava quando era in cantiere una gita, per esempio, a Castellaneta Marina, dove Cenzino Ancona aveva una campagna. Partimmo il mattino presto in auto, e quando arrivammo a destinazione, parcheggiammo il mezzo e cominciammo a cercare un laboratorio di ceramica. 
Pierino Pavone

Parlando, mi accorsi di essere rimasto solo: Peppino si era infilato in un negozio di scarpe, attratto dall’esposizione; e Pierino? Era distante e conversava con una persona, a cui toccava il bavero del cappotto. Mi fermai ad osservare, finchè lui si ricordò di me, salutò l’interlocutore e mi raggiunse. ”Pierino, mi hai abbandonato!”, gli dissi sorridendo. “Ho riconosciuto il cappotto indossato da quel signore e gli ho chiesto provocatoriamente chi glielo avesse venduto; e quello mi ha risposto che era stato trent’anni prima uno che veniva da Martina. ‘Sono io’, e lui, dopo aver scavato nella memoria: ‘Sì, è vero, siete proprio voi’”. “Bella soddisfazione!”. “Il cappotto è ancora quasi nuovo, nonostante l’età”. Era contento, ma non volle darlo a vedere. Discreto, sincero, pacioso, di poche parole, intelligente, una sorta di monaco zen, mi ha raccontato tante cose della sua vita di cappottaro e dei tempi andati. E vedendomi attento, curioso, capace di ascoltare senza interrompere, una sera mi sottrasse allo scopone, a cui partecipavano anche Ninì Ponte e un maresciallo dell’aeronautica, Francesco, che scoppiettava a ogni errore del compagno, e mi portò a spasso per Martina per indicarmi i laboratori dei cappottari e ogni altro posto legato a quel lavoro, compreso quello che aveva ospitato il suo deposito, in via Quasimodo, sotto San Francesco. Sembrava non avesse letto il libro di Teresa e mi faceva domande come il professore all’allievo.
I trulli di Pierino Pavone
Gli riferivo che Teresa era stata bravissima a descrivere i cappottari di Martina, che – diceva - salivano sui traini diretti ai paesi vicini, in occasione delle feste patronali e in tutti gli altri giorni per vendere abiti confezionali, e lui ascoltava in silenzio, come fosse in meditazione. “Se non sbaglio tu avevi un furgone con cui trasportavi la merce al mercato, che t’impegnava dalla fine di ottobre ai primi di aprile. Avevi delle donne che cucivano per te”. Assentì. L’ultima volta ci andò con il figlio Giuseppe, di dieci 10 anni, che giorni fa mi ha regalato alcuni suoi ricordi: “Papà aveva una casa a Galatina e rientrava ogni ‘week-end’. Aveva cominciato il commercio dei cappotti quando aveva 16 anni. “Pierino, Teresa ha scritto che i cappottari pubblicizzavano i loro prodotti al grido: ‘Cappe e cappot… tallu… sodi….Martinaaa!’. Io non riesco a vederti dietro il banco mentre seduci gli avventori con quel richiamo”. Rispose accennando a un sorriso e mormorò un paio di parole che non riuscii a captare.
Si vendemmia da Pavone


Teresa, in quel libro, racconta ogni aspetto dell’industria confezioniera della sua città, dedicando molte pagine alla categoria dei cappottari. Parte da lontano: nel 1927 una cinquantina di ditte della città occupavano circa 400 operai e alcune sartine lavoravano a domicilio. Il libro è un serbatoio di avvenimenti. Mi ha avvinto. L’ho letto con vero piacere, colpito anche dai dettagli. Teresa delinea persino la quantità di cappotti e capi maschili che veniva prodotta (attorno ai 40 mila capi, venduti in Puglia, Marche, Calabria); il costo delle stoffe, che oscillava tra 10 e 20 lire al metro; e i metri necessari per un capo: 2,50. Per Pierino ovviamente la mia esposizione non era una novità; eppure non schivava il discorso. Aggiunsi che quel libro era prezioso per chi volesse informarsi sull’industria confezioniera di Martina. C’era tutto: gli sviluppi, i periodi di crisi, la ripresa grazie all’intelligenza, alla tenacia, all’intraprendenza dei martinesi. Alla laboriosità delle donne che filavano e tessevano alla luce dei lumi. Un mondo che non conoscevo.

Pierino Pavone
E quando incontrai una di queste donne nel negozio di ottica di Lella Cito, in via della Libertà, proprio per la mia ignoranza non ebbi l’idea d’intervistarla. Anche perché Annina – così si chiamava - bassina, esile, taciturna, che nonostante l‘età continuava a tessere coperte e altro e a fare orecchiette “a memoria”, come diceva lei, a causa della vista, era sempre molto indaffarata. “Insomma, il libro ti è piaciuto”. “E’ da tenere in libreria per utilizzarlo all’occorrenza, data la ricchezza degli elementi che custodisce. Parla anche di personaggi specializzati nell’allestimento di abiti ecclesiastici, sottane, cappotti, “paletots”, zimarre, mantelline e altro, come Maria Campanella e Leonardo Marangi. Parla dei matrimoni che consentivano a famiglie di concorrenti di allentare la competizione. Seguono le biografie, che informano sulla operosità, l’inventiva, il coraggio del popolo della città dei trulli.

Il padre Fedele Pavone
Giorni fa, ripassando il libro, ho telefonato a Giuseppe per sapere se una foto del libro fosse quella di suo nonno; e lui: “Aspetta, sto lavorando in campagna, tempo fa ho trovato, fra le cose di mio padre, un volume, vado a vedere”. Il titolo era quello di Teresa Gentile, quindi Pierino lo aveva letto e la foto era del suo papà, Fedele. Le biografie contribuiscono ad immerge il lettore nel fervido ambiente dei cappottari. Come anche le fotografie, tra cui quella della donna al telaio, dove i fili di lana diventano tessuto. Bella anche quella della giovane che cuce a macchina a tarda notte. Sfilano i Salamina, una dinastia; Francesco e Nicola Caramia, altra dinastia; Grazia Basta Lucarella alla macchina per cucire; Pietro Carelli, “che si reca cona la moglie Rosa Pamettino in giro per i mercati e porta merletti e stoffe a Locorotondo; Cosimo Cannarile… Ci sono le foto di auto, depositi, insegne, punti - vendita, mercati, stabilimenti, macchine, lavoranti, tavolate, documenti. Michele Annese, direttore di “Minerva News”, anima dell’Università del tempo libero e del sapere di Crispiano, già segretario generale della Comunità montana di Mottola e già direttore della Biblioteca “Carlo Natale” della città delle cento masserie”, mi diceva che molte donne, tanti anni fa, alzandosi molto presto, con il treno salivano a Martina a lavorare alle confezioni. Un opificio a Crispiano c’era già; a questo se ne aggiunsero due, i cui titolari senza chiudere l’attività a Martina, assunsero una quarantina di persone. Uno dei due prese in affitto un locale della madre della professoressa Silvia Laddomada, in via Castello, e lo utilizzò come laboratorio. Poi, lasciando il locale ad un altro confezionista, tornò a Martina e s’insediò nella zona industriale. E’ stata una civiltà, quella dei cappottari.
Pierino Pavone in campagna
Pierino, che è deceduto all’età di 75 anni, e ha curato con tanto amore la terra lasciatagli dal padre sulla via di Mottola a un chilometro da Martina (faceva di tutto, potava gli alberi, arava, accudiva alla vigna, orgoglioso del cappero che lussureggia sul bordo del piazzale). Adesso lo sostituisce il figlio Giuseppe, che dopo il diploma si è iscritto all’università, ma si è messo subito a lavorare e non gli rimane tempo per le aule dell’ateneo. Non ci sono più Peppino Cito, Ninì Ponte, Cenzino Ancona… I locali di Peppino nel ringo sono stati svuotati delle decine di trulli in terracotta, del forno, dei quadri, delle migliaia di foto che Peppino aveva scattato in varie parti del mondo. A me restano i ricordi: le partire con Cito, che voleva sempre vincere, con Ninì Ponte, ex mobiliere che conservava in campagna sulla via del cimitero tutti gli attrezzi del mestiere, compresa la sega elettrica e il bancone, con Cenzino, alla presenza come spettatore di Franchino Lodeserto, sempre in abito scuro e “papillon”. Soprattutto ho nostalgia delle passeggiate serotine con Pierino, che, profondo conoscitore di papa Galeazzo, un arciprete fantasioso, strambo, furbo, burlone, mordace, autore di barzellette, aneddoti e piccoli racconti, poi riuniti in un “Breviario”, abitante a Lucugnano, nei pressi di Tricase, mi parlava di quel prete dalla tonaca lisa, vissuto nel XVII secolo, e delle sue imprese. Conosceva a memoria le sue storielle, come quella dell’asino instabile venduto a un ingenuo contadino e della trovata elaborata dal prete per non riprendersi il quadrupede che ad ogni passo inciampava. Qualche volta ero io a sollecitare il ritratto di questo personaggio della letteratura popolare salentina, che avevo sentito evocare da mia madre quando mi sorprendeva incoerente: “Sei come papa Galeazzo: fai come dico e no come fazze”. Caro Pierino Pavone, stavo molto volentieri in sua compagnia. Durante una delle nostre passeggiate, mi disse: “Un giorno ti porterò al cimitero per farti vedere come i miei stanno sistemati là”. Non abbiamo avuto il tempo.





Nessun commento:

Posta un commento