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martedì 4 agosto 2020

Fu l’ultimo impiccato di Milano



Antonio Boggia dal libro della Meravigli
COLPEVOLE DI QUATTRO OMICIDII

CONSIDERATO TUTTO CASA E 

CHIESA


Antonio Boggia, nativo di Urio, centro

del Comasco, uccise con l’accetta per

sete di denaro. Salì sulla forca il 17

aprile del 1862, alla presenza di molti

spettatori, che poi andarono a giocare

i numeri al lotto.






Franco Presicci
Già la sua faccia incuteva paura: dura, inespressiva, occhi truci, il naso appuntito, abbigliato con tabarro nero: figura tipica dell’assassino, secondo la classificazione di Cesare Lombroso. Sto parlando di Antonio Boggia, nato nel 1824 a Urio, agglomerato di case sul lago di Como, a un tiro di schioppo dal confine con la Svizzera. Le prime volte in cui debordò nel codice penale fu una truffa e un fascio di cambiali non pagate. Per scampare alla galera fuggì, ma fu nuovamente acciuffato per reati di rissa e tentato omicidio. Evase per rientrare nel Lombardo Veneto, quindi venne a Milano, dove fu assunto come fuochista a Palazzo Cusani, che ospitava il Comando austriaco. 

Il naviglio in una vecchia stampa
E prese casa in via Gesù, già antico borgo del Gesù, la terza a sinistra dal salotto da via Monte Napoleone, oggi il salotto di Milano. Ma la cella non gli mise la testa a posto, anche se reggeva il baldacchino nelle processioni. Compì quattro omicidi, che lo portarono alla forca. Avvenne il 17 aprile del 1862 in una piazzuola tra le porte Vigentina e Lodovica. Non lo pianse nessuno. Era noto come il mostro di Milano. E quando qualcuno aveva comportamenti inaccettabili si diceva: “Re set un Boggia”. Giovanni Luzzi, nato nel 1901, ai tempi il più giovane laureato d’Italia, in giurisprudenza, milanese di origine emiliana, studioso di psicologia giudiziaria e di filologia, nel ’43 raccontò nei particolari la storia del personaggio e delle sue nefandezze del “Giallo della Stretta Bagnera”, pubblicato dalla Libreria Meravigli, e ripresa da Daniele Carozzi in uno dei capitoli di “Non si ammazza solo il sabato” (parafrasi di un romanzo di Giorgio Scerbanenco: “I milanesi ammazzano al sabato”), uscito per i tipi di Sartorio. Ed eccola, nei particolari, questa storia, iniziata nel 1849, quando Angelo Serafino Ribbone, nativo di Casciago, un centro nel Varesotto, orfano di entrambi i genitori e sempliciotto, giunse a Milano all’età di 16 anni. Erano i tempi – spiega Luzzi – della prima immigrazione di “foresti” provenienti dalle zone a nord della città e dalla Brianza e dai laghi della Bergamasca, che il popolino chiamava “bosini”, per il fatto che “Bosino” era la fascia che si estendeva tra Milano e Saronno. Questi braccianti si ristoravano all’Osteria dei muratori, con un cartoccio di “repubblica”, avanzi di salumi. Qui Angelo Ribbone incontrò il Boggia, che allora aveva una trentina d’anni, tutto casa e chiesa per chi riteneva di conoscerlo bene, che lo prese a lavorare con sé in un’impresa prossima al fallimento. Il capomastro cambiò città in attesa dell’amnistia e l’allievo fu preso come aiutante di uno spaccalegna che forniva di ceppi da ardere al comando militare di via Cusani. Il principale morì e Angelo Serafino prese il suo posto con un compenso di tre “svanziche” al giorno. Quindi, tutto contento, pensò di essere ormai in grado di chiedere la mano di Rosetta, la figlia del droghiere Bosisio. Aveva accumulato 1400 svanziche, che aveva affidato a una cugina che stava a Casciago.

Via Nerino
Rosetta non ne volle sapere perché il ragazzo non rispondeva ai suoi gusti e lui, afflitto, andò a consolarsi dal Boggia, che, rientrato a Milano, era alloggiato in via Nerino, nome derivante da un canale più piccolo del Nirone, che fluendo sul lato della via si portava via i rifiuti. E lì, confidenza dopo confidenza, ingoiando qualche calice di troppo, fece accenno ai suoi risparmi. Il Boggia gli consigliò di andare subito a riprendersi il capitale, forse facendogli balenare la possibilità di un affare. Ma Angelo non se la sentì di fare offesa alla parente. Il giorno dopo il Boggia andò con un carretto al comando militare e disse che, essendosi l’uomo dei ceppi trasferito a Lodi, doveva ritirare la sua roba. E per essere credibile esibì una procura che lo autorizzava a rappresentarlo, occupandosi dei suoi interessi. E si diresse a Casciago. Ma la cugina, Maria Mentasti, non si lasciò ingannare e si rivolse al pretore di Varese, che, visto l’atto, volle un documento specifico. 

In fondo l'odierna via Bagnera
Boggia ottenne anche quello e il malloppo passò di mano. Il 13 gennaio del 1850 a un’asta pubblica avvicinò il mediatore Giuseppe Marchesotti, che amava la bottiglia e le donne avvenenti, e gli propose un affare in una vendita privata. Marchesotti accettò e il 15 si avviarono verso via Morigi - già contrada della torre dei Morigi, dalla dimora di una famiglia patrizia – luogo dell’incanto. Durante il percorso Boggia volle passare prima dal magazzino, che era a due passi, alla stretta Bagnera, per mostrare degli scaffali in legno. Otto giorni dopo all’Osteria del Ponte Vetro, si ritrovarono Angelo Marchesotti, fratello di Giuseppe, e due suoi amici. Seduto a un tavolo c’era Boggia, che accusò il mediatore di essere sparito per non restituirgli cospicue somme. Nel marzo del 1851, all’osteria dei “Tre Scagni” il comasco incontrò il fabbro Pietro Mezza, detto il “bauscia” (in milanese bava), che aveva bottega al Carrobbio, in fondo a via Torino (da “Carruvium” degli antichi romani che vollero la zona bella e spaziosa). L’uomo, che era vedovo e vacillava tra l’assillo dei creditori e la latitanza degli esigui debitori, chiedeva un sostegno per scansare il naufragio; e il Boggia fornì la scialuppa (si fa per dire): il magnano, il fabbro, doveva salirvi e andare, per schivare l’assillo di ogni pretesa, ad impalmare una sua cugina, di nome Liberata, a Urio, dopo avergli rilasciato una procura e riparato una serratura nel magazzino della stretta Bgnaera. Scomparso il Meazza, Boggia alienò l’officina, intascando il ricavato. 

Via Santa Marta
Ma non finì qui: Ester Maria Perrocchio, una vecchia arzilla, settuagenaria e un po’ maniaca, titolare dello stabile di via Santa Marta 10, bigotta e superstiziosa, ingobbita, non amante del prossimo, ma di gatti galline e piccioni, viveva da sola in quattro stanze al secondo piano, dal giorno in cui il figlio, Giovanni Maurier, aveva sposato una ragazza che le stava sullo stomaco e se n’era andato a vivere con lei nel sobborgo di San Cristoforo sul Naviglio, dove lavorava nella fabbrica di terraglie del cavalier Giulio Richard, come pittore di porcellane. In quei giorni i milanesi erano preoccupati, temendo sconvolgimenti e danneggiamenti per la guerra, e la vedova Perrocchio aveva sofferto molto. Una mattina Giovanni, non vedendola da un po’, andò per farle visita e la portinaia gli riferì che aveva fatto fagotto e si era trasferita a Como, nominando capomastro e amministratore dei propri beni il Boggia. Sorpreso, incredulo, lo cercò, e questi gli assicurò di non sapere dove si trovasse la donna, di cui aveva eseguito le disposizioni. Aveva anche fatto strage dei pennuti e dei polli. Il 16 gennaio del 1860, Maurier denunciò la scomparsa, ma il Boggia aveva mostrato alla polizia documenti ritenuti inoppugnabili; e rinunciò all’idea di mettere in vendita gli appartamenti. Ma per lui la trappola era dietro l’angolo. Aveva architettato una serie di inganni e cominciava a capire che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: scoperto, arrestato, interrogato, confessò di aver ammazzato con l’accetta Ribbone, Marchesotti, Meazza, la Perrocchi, occultando i corpi nello scantinato della sua abitazione, nella stretta Bagnera.

Banco lotto
Alla sua esecuzione assistette una gran folla. La corda che lo aveva strozzato, fatta a pezzi, andò a ruba. Poi tutti alla ricevitoria del lotto a giocare i numeri penso 44, l’omicida; 18, il sangue; 4 i morti ammazzati; 11, l’impiccato; 80, la folla). Pochi mesi dopo – informa Luzzi – venne istituita la Corte d0 Assise. La stretta Bagnera è ancora su una targa stradale nei pressi di via Torino. E c’è ancora la chiesa, da dove usciva la processione con il Boggia che reggeva, con altri tre, il baldacchino. Raccontata la storia, che fa venire davvero i brividi, mi pare doveroso accennare a Giovanni Luzzi, che non ha smodato soltanto le vicende di colui che per anni e anni dopo i fatti fece parlare Milano e non solo. A Luzzi, tra l’altro appassionato cultore del dialetto milanese, si devono raccolte di poesie (“I cinquanta sonett del Padrin Pepiatt”, “Milan e poeu pu” …), commedie, in lingua e in dialetto, come “L’avvocat di lader”; e anche “Parla el tassista” e “Parla el Luisin tassista”. Data la sua attività di avvocato penalista, incontrando molti malavitosi, conosceva il loro linguaggio e compose un dizionario del gergo della malavita milanese: “Inscì parla mala”, edito nel 1982 dalla Libreria Milanese. “Il giallo delle stretta Bagnera” è il frutto di anni di ricerche ed è ricco di dettagli, descrizioni di ambienti e personaggi. Si legge con piacere. Molte le espressioni dialettali disseminate nelle pagine: “Hop, hop, va à Pinella”, “Offelèe fà el tò mestèe”, “Ciappa su che te l’hemme fada!”.


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