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mercoledì 9 settembre 2020

Frammenti di vita milanese

                          Il Duomo e la Galleria

A MEZZANOTTE ANCHE QUI ANDAVA

LA RONDA DEL PIACERE,

NELL’ OSCURITA’



 

Il caffè Carini e la sua clientela variegata;

le peripatetiche con i loro manutengoli;

le signore dell’alta società in abiti eleganti e i loro accompagnatori in frac; 

i “locch”;

le carrozze sui bastioni di Porta Venezia.

 

 

 

Franco Presicci

Nel 1877 fu aperto ai margini di piazza Duomo un grande caffè, intestato al nome del proprietario, Augusto Carini. Il locale rimaneva aperto tutta la notte e aveva una clientela variegata: di giorno forestieri, sensali, uomini d’affari (impegnati in compravendite anche di oggetti preziosi), data la vicinanza di piazza dei Mercanti; e di notte innamorati che vi trascorrevano il dopo teatro, ordinando un panino con due fette di salame, e donne “emancipate” o poco più. Paolo Valera, giornalista e scrittore socialista, nato a o nel 1850, conoscitore di tutti gli ambienti di Milano, fondatore fra l’altro del periodico “La folla” e del libro “Milano sconosciuta", proprio in questo volume (ne ha scritti altri) parlava del Carini con il suo solito modo icastico: “Alle due del mattino era un emporio di ‘crappe’, (prostitute: n.d.a.) di ‘locch’ (esponenti della malavita: n.d.a.) e di camerieri e di guatteri che avevano finito di lavorare o di individui senza occupazione o di operai che avevano sbevacchiato e di facce che non vedevi che di notte…. Spiccavano le sottanelle colorate e le ‘blouse’ chiuse fino al collo di giovani procaci ed anche belle ragazze seguite generalmente dal loro ganzo o mantenuto…”. 

Facciata della Galleria

Poi il caffè fu rinnovato, la clientela pure, e cambiò titolare. Ma in quel punto di piazza Duomo, di fronte alla Galleria Vittorio Emanuele, dove già c’erano il Biffi, il Campari, dopo mezzanotte si sviluppavano gli incontri occasionali (risuonano al ricordo le parole della canzone del “Tango delle capinere”, composta da Cesare Andrea Bixio su versi di Bixio Cherubini, da cui nacque il film “A mezzanotte va la ronda del piacere”, diretto da Marcello Fondato con Monica Vitti, Claudia Cardinale, Giancarlo Giannini, Renato Pozzetto, Vittorio Gassman: la prima, del ’28, portata al successo da Gabrè; il secondo, del ’75. Quando decideva di chiudere, il titolare invitava i presenti ad andare a nanna e cominciava a spegnere le luci. Ma doveva ripetersi più volte, perché c’era sempre chi recalcitrava o faceva finta di non aver sentito.

Galleria Vittorio Emanuele

I nottambuli non avrebbero saputo dove andare, abituati com’erano ad aspettare il giorno, magari sorseggiando “el caffè del genoeucc” (ottenuto con i fondi di altri caffè): acqua calda tinta di nero, potabile soltanto, secondo il poeta meneghino degli anni 20 Giorgio Bolza, se accompagnato da una spruzzatina di grappa: “I cafè di strascioni… di “pitocch”… i cafè de la nott, locch e brumisti ghe van a bev…” erano di bocca buona ,come il vecchietto che si acquartierava all’ingresso della cattedrale per chiedere l’elemosina. “El caffettee” arrivava verso le 2 alle spalle del Duomo con un carretto. Gli avventori erano netturbini, facchini, brumisti, operai che andavano al lavoro quando era ancora buio. Le notti milanesi non erano dunque mai deserte: I signori in frac e gibus, che avevano assistito all’esecuzione di un’opera alla Scala o a una prima teatrale, accompagnati da signore eleganti in abiti con ricami e guarnizioni di pizzi andavano a sedersi ai tavoli del Savini, quasi gemello della Galleria (data di nascita 1867 con il nome di Birreria Stocker) o del Biffi.

Foto del Museo di Milano

Poi riprendevano la via di casa, mentre i “viveur” più incalliti preferivano continuare a fare ancora un giro per la città, sfiorando gli spazzini, come si chiamavano allora, intenti a ripulirla, e le passeggiatrici che pendolavano tra via Santa Redegonda, ricca di storia, misteri e leggende (detta così per una chiesa accostata a un monastero di vergini elevata dal re longobardo Desiderio), e piazza Diaz (da una nobile famiglia spagnola trasferitasi a Napoli al seguito di re Carlo VII, poi di Spagna con il nome di Carlo III). Poteva capitare che una di queste signore, intravedendo le ombre di quattro o cinque agenti della squadra dei buoni costumi, per evitare la cella (“pollèe”: pollaio) del carcere di Santa Margherita, si afferrasse al braccio del nottivago, contrabbandandolo per fidanzato. La mappa del vizio era ben nutrita, tra diverse contrade, la Vetraschi, ora scomparsa, dove le mestieranti se ne stavano accovacciate sugli scalini di uno stabile e al centro del vicolaccio, comode su una sedia sbilenca. Molti i barboni. Dormivano addirittura su una panchina di piazza della Scala, sotto il monumento di Leonardo, eretto nel 1872, quando erano stati definitivamente chiusi i caffè e gli altri locali attorno al tempio della lirica o più in là e in altre zone di Milano. 

Il Duomo di Milano
Foto del Museo di Milano

Le notti meneghine, rese meno buie dai “pizzalamped” (lampionai, addetti all’accensione e allo spegnimento dei lampioni a gas o a olio, detti anche “lampedee”; mentre i “lampedee di fabbrich accendevano i lumi a petrolio collocati per segnalare ostacoli stradali). Dietro l’angolo allignavano brutti ceffi, cravattari, lenoni, truffatori, ladri, sempre ad architettare mascalzonate, rendendo insicuri la gente e i luoghi. Li si trovava alla stazione Centrale, in corso Garibaldi, al Ticinese, a Porta Genova, dove ai primi del 900 teneva a bada la “ligera” e i “locc” “el sciur Dondina”, capo della squadra volante per il quale i malandrini avevano anche composto una canzone, pur temendolo assai. Detta fauna non perdeva l’occasione per molestare le giovani donne: “biciclette” o ”scaglie”: falene in gergo di mala, e non. Già le donne. Belle, avvenenti, provocanti. Non lasciavano trasparire il desiderio di essere corteggiate, ammirate; e aspiravano a contare di più nella società. L’emancipazione femminile aveva già fatto passi lunghi; ma la libertà completa era di là da venire. Per gli innamorati la vita non era tanto facile. 


 
Se per esempio papà e mamma, per impegni improvvisi, erano costretti a lasciare momentaneamente la dimora, affidavano la vigilanza dei colombi al fratellino. E il fidanzato fremeva, anche perché alle passeggiate domenicali doveva sorbirsi la presenza dei futuri suoceri, che, tra l’altro, imponevano come itinerario preferibilmente i Giardini pubblici e o le gite fuori porta. Le abitudini cambiarono negli anni Trenta, quando i “vecchi” cominciarono a capire che era meglio stare a distanza. Ma non rinunciarono – racconta Alberto Lorenzi ne “I milanesi, le donne, l’amore – a imporsi nel caso in cui non condividessero il rapporto o lui sembrava voler allungare le mani. Allora ai ragazzi non rimaneva altro che la fuga in carrozza. La Galleria del piano terra della Centrale ha preso il nome di quel mezzo di locomozione perché, per andare a prendere un treno i viaggiatori arrivavano su un tiro a due o a quattro, che sostava nel punto oggi riservato ai taxi. Non so più quante carrozze circolassero all’epoca: sicuramente erano migliaia.

Corso Vittorio Emanuele  
Verso le 4 del pomeriggio i signori uscivano su questo veicolo, facendo lo stesso percorso: corso Vittorio Emanuele, corso Venezia, via Manin, via Manzoni. Sosta obbligata sui bastioni di Porta Venezia, per consentire ai passeggeri di sgranchirsi le gambe e di conversare. Un dipinto dell’epoca di Alessandro Durini ne ritrae lì un centinaio. Il passaggio delle carrozze aveva i suoi spettatori, allineai sui marciapiedi. Per loro era uno spettacolo. Di solito, diversamente dal 700, l’uomo in cassetta spronava i quadrupedi ad accelerare il passo, contravvenendo all’ordine del 18 febbraio del 1760 di procedere con cautela. Cesare Cantù – annota ancor a
Corso Venezia
 
Lorenzi-  nell’opera “L’Abbate Parini”, rifacendosi alla grida citata aggiunse che “fu ordinato ai birri di gettar delle stanghe fra i raggi delle ruote che corressero troppo…”. L’Ottocento fu il secolo d’oro delle carrozze, tirate da sauri, morelli, bai…, con paraocchi molto decorati. Le signore, esibivano pregiati ombrelli detti da carrozza. C’erano anche quelli che non potevano permettersi il lusso di più equini e quindi facevano galoppare l’unico in loro possesso su tragitti meno esposti. Insomma la carrozza, come le ville patrizie in Brianza, erano un segno di distinzione sociale. Artisti celebrati o dilettanti le riproducevano sulle le loro tele. Nell’abitacolo di una carrozza, mentre il brumista faceva schioccare la sua lunga frusta, si poteva alimentare il corteggiamento al riparo da occhi indiscreti. I più disinvolti preferivano i portici o a stessa Galleria Vittorio Emanuele. Lui seguiva lei, le si avvicinava e le chiedeva. “Scusi, posso accompagnarla”. E magari in seguito le scriveva un biglietto d’amore. Ma i versi non garantivano la lealtà dei sentimenti. I genitori vigilavano costantemente e, informa sempre Lorenzi, se in casa arrivava una lettera della figlia, volevano conoscere il nome del mittente, per evitare possibilmente che la fanciulla cadesse in cattive mani. Frammenti di vita milanese. Ad ogni passo, in questa città ricca di storia e di storie, chi ne abbia voglia trova cose da raccontare.



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