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mercoledì 27 gennaio 2021

I mestieri scomparsi di Milano

Guido Bertuzzi
 

 

OMBRELLAI E CESTAI VENIVANO

DA LONTANI PAESI DI MONTAGNA


Si sono spente le loro voci e anche

il ricordo si è appannato. Calderai,

venditori di cuni, di castagnaccio,

calderai, arrotini, spazzacamini

rivivono nelle poesie e nei brani

dei parolieri.



 

 

 

Franco Presicci

Stazione Centrale
Alcuni dei venditori ambulanti dei primi del Novecento a Milano non erano autoctoni. “Quell di cuni”, per esempio, erano di Cuneo e di quella città anche le castagne cotte al forno, che infilate in uno spago molto sottile formavano una corolla che gli ambulanti si portavano appesa al collo. Giravano da una strada all’altra e nelle fiere, a volte occasionalmente in gruppi. Gli ombrellai, come i cestai, scendevano dal Mottarone, che si erge tra il Lago Maggiore e il lago d’Orta. Si presentavano gridando “ombrellee” e le massaie che avevano un parapioggia difettato o da acquistare accorrevano nel timore di non fare in tempo. In epoca più recente “quell di ombrell” tenevano la merce inguainata in un contenitore di tela a tracolla, come una faretra. La categoria vanta un museo molto ben fornito, da molti anni aperto a Gignese, il più alto centro del Verbante. Detto per inciso, questi ambulanti, compresi gli spazzacamini, per parlare fra di loro senza farsi capire dagli altri, usavano un gergo chiamato “tarusc”. Qualche esempio? In questo gergo l’ombrellaio era “lusciatt” e i soldi “bergna”, come riferisce nel suo “I mestee de Milan” Cesare Comoletti, laureato in ingegneria industriale e socio del Circolo Filologico milanese, di cui presiedeva la sezione dialettale.
 
Lavandaie di Bertuzzi

Interessante anche l’opuscolo di P.E.Manni da Massimo, che contiene un piccolo dizionario di quella parlata. I “fumaioli”, come di tanto in tanto venivano indicati gli spazzacamini, provenivano dalla Val d’Ossola, dalla Val d’Intragna e dalla Valtellina. E facevano una vita grama, pagati com’erano a volte – si diceva – con un bicchiere di acquarello, vino annacquato. Dormivano su letti di paglia in freddissimi locali della periferia e ricevevano premure soltanto dalle suore del Cenacolo del Monte di Pietà, oltre che da alcune persone pie che per loro allestivano il pranzo di Natale. Lo spazzacamino, di cui da tempo si sono perse le tracce (l’ultimo a vederne un paio tantissimi anni fa, già in pensione, in vicolo dei Lavandai fu il pittore Guido Bertuzzi) era molto amato, e non passava mai inosservato con l’attrezzo del mestiere e il suo giovanissimo garzone di fianco. Un mestiere antico come risulta dalle parole di Cicerone sul camino lindo e brillante citate alla fine del ‘500 da Tomaso Garzoni. I milanesi assegnarono al “fumaiolo” un soprannome: “on menafrecc”, per il fatto che si materializzava d’inverno, quando il freddo arrivava fin nelle ossa, come fossero loro a costringerli a infagottarsi.

Sediaio
E i soliti “locciador”, burloni, usavano un’ironia spesso sgraziata verso questo ambulante, che la fantasia popolare aveva eletto a seduttore irriducibile. Poeti e parolieri si sono sbizzarriti: “…Ch’el girava per i contrad/ el vosava – donne belle – chi gh’ha ‘l camin de fa spazzà – salta foeura, ti, ona sposina…”. Dalla Valtellina proveniva ”el moletta”, calmo, paziente, affabile, cortese, in ottimo rapporto con le casalinghe. Al suo grido”: Oh, donn, gh’è chi el moletta” veniva attorniato da tante massaie con lame da molare (forbici, coltelli); e lui premeva sul pedale che metteva in movimento la ruota della carriola e questa la consorella piccola ad essa collegata da una striscia di cuoio. Luigi Medici e altri hanno dedicato all’arrotino canzoni gustose: “Mi rappresenti in mezz ai operari/ l’indipendenza personificada/ mi dòve vui me fermi in la contrada/ e lavori o lizzoni, senza orari”.
 
Opera di un madonnaro

Sintetizzando, “el moletta” si vantava di non dover obbedire a nessuno, di andare dove voleva e lavorare senza osservare alcun orario”. In un altro brano dice: “Mè pader fa el moletta/ e mi foo el molettin/ quand sarà mort mè pader/ faroo el moletta mè”, nonostante i guadagni scarsi. I venditori ambulanti di castagnaccio erano originari della Toscana ed erano chiamati tutti Gigi, dal nome del primo rappresentante del settore, che aveva la sua postazione prevalente in piazza del Duomo. Figura molto amata dai milanesi, con quel dolce casareccio spalmato nella teglia. Comparve nel capoluogo lombardo ai primi del ‘900. Dopo il ’17, data funesta per l’esercito italiano umiliato a Caporetto, a questi corregionali dell’attore e “chansonnier” Odoardo Spadaro (che si esibì anche al Moulin Rouge con Mistinguett), dovettero vedersela con la concorrenza dei veneti.

Nicola Sardone

Si fermavano in una strada molto frequentata o in una piazza o nei pressi di una scuola o di una caserma e invitavano i passanti a gustare una fetta di quella “toer de farina de sciscger o castegn de color gialdon o de color de legn”, il castagnaccio, che una volta i contadini affidavano al forno di campagna e chi non ce l’aveva alle piastre delle stufe. In un gustoso volumetto di Mario Supino (editrice Meravigli) si legge una divertente filastrocca dedicata a uno di questi girovaghi che, grembiule e cappello calato sulla testa, dalla panetteria di via Carmagnola raggiungeva via Borsieri (l’Isola Garibaldi), posteggiava sempre nello stesso luogo il suo banco con le padelle in rame e le sue delizie e rimaneva pazientemente in attesa degli avventori. Che non mancavano mai. Gigi, il cui nome di battesimo al secolo era Giacomo, a volte si commuoveva e qualche pezzetto lo dava “gratis” a chi aveva le tasche prosciugate, raccomandando di non farci l’abitudine e di accontentarsi di quel “ciccinin de roba”, quel “virgolin de gnaccia”. Anche il venditore di castagnaccio è da tempo sparito dalle vie di Milano, ma c’è chi lo ricorda. Come ricordano “quell di cuni”, anche se non hanno mai ascoltato la sua cantilena: “Bej cuni, bel maron, vardèe che firòn!”. Si piazzavano nel quartiere Ticinese se non in centro e alla fiera degli “Oh bej oh bej”. Il “cadregatt”, chi vende o impaglia sedie, non è del tutto scomparso.

La forma del calzolaio
C’è chi lo ha visto qualche anno fa seduto su uno sgabello a intrecciare paglia in piazza Belloveso, a Niguarda; e in un altro angolo poco distante. Sarà sempre lo stesso che non rinuncia ad abbandonare il mestiere, a dispetto del consumismo (rotta una sedia se ne acquista un’altra). Provenivano soprattutto dai paesi attorno a Belluno e dal Friuli e anch’essi adottavano un gergo legato all’attività che svolgevano: lo “scavelamènt de conza”. In uno dei loro paesi di origine hanno innalzato un monumento in onore dell’attività svolta. E “el caffè de genoeucc”, che era acquartierato in piazza Duomo o in altre vie poco lontane? Tra gli avventori netturbini, amici delle ore piccole... Tutti si servivano da soli e non avevano niente da obiettare sulla qualità della bevanda, forse perché a quell’ora era ciò che passava il convento.

Il barcaiolo

“El magnan”, il calderaio, veniva dalla Val d’Ossola e aveva anche lui la fama di dongiovanni, tanto che ancora oggi c’è chi ha memoria dei versi ”El marito apos a l’uscio/ el gh’aveva sentito tutto/ el salta foeura cont on farell in man/ e pim e pum e pum su la crapa del magnan”: una batosta memorabile, da far passare la voglia, che invece si rinnovava. Qualche anno fa a Milano si vollero ricordare tutti i mestieri del tempo perduto. In prima fila, proprio “el magnan”, seguito da “el s’ceppin, un lavoratore che, raggiunta Milano dai paesi vicini, girava per le strade alla ricerca di persone che avevano bisogno di farsi spaccare la legna. Nel corteo faceva la sua figura anche l’”alpador”, che viveva in paesini di montagna in luoghi attraversati da pastori e dal loro gregge, e venivano giù d’inverno a vendere formaggi e burro. Non mancavano l’uomo dei barconi che solcavano il Naviglio, le lavandaie, il ciabattino, che rifaceva le scarpe piegato sul deschetto.

Stazione Centrale
Anche se lavorava al chiuso, mi fa piacere ricordare, in particolare, quello che incontrai il 16 settembre dell’87, in via Gian Giacomo Mora, a Milano. Si chiamava Luigi Luca e aveva 67 anni. Avendo ricevuto lo sfratto, stava per andarsene in pensione. Mi disse di essere nato sotto l’Etna, a Bronte, terra di produttori di pistacchi destinati a tutta l’Europa. Aveva più di un cliente importante, tra cui Walter Molino, famoso illustratore italiano, che lavorò con il “Candido” di Giovannino Guareschi, si alternò con Achille Beltrame nel disegnare le copertine de “La Domenica del Corriere”, firmava quelle del “Corriere dei Piccoli”… “Mi ha promesso che mi farà una caricatura”. Mi raccontò tanti fatti, compreso quello del malavitoso che voleva un paio di scarpe confezionate in modo tale da potervi nascondere un coltello da introdurre a San Vittore. Naturalmente rifiutò. Aveva cominciato a 5 anni: garzone presso un calzolaio sotto casa, quando imparò bene il mestiere si mise a fare scarpe nuove. “Ma loro si facevano le ville e io… decisi di mettermi in proprio”. Quel mio articolo si trova, oltre che sul “Giorno”, in un’antologia per la scuola media, edita da La Nuova Italia. Con il tempo ne intercettai un altro, Nicola Sardone. Andai a trovarlo nel suo laboratorio di via Lorenteggio e mi raccontò la sua storia. Poi anche lui, ultimo esemplare della categoria con il deschetto, ha smesso. Anch’io ho amato questi lavoratori, compresi i madonnari, che con grande bravura tracciano sull’asfalto profili di santi; e gli sputafuoco. Questi, grazie a Dio, sopravvivono al tempo che vola.







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