Pagine

Print Friendly and PDF

sabato 6 febbraio 2021

In un colloquio con Antonio Sirtori

Antonio Sirtori
IL FASCINO, IL SILENZIO, LA PACE DI UNA CASCINA LOMBARDA

 

Il ricordo delle fatiche; degli

uomini addetti ai vari compiti: il

cavallante il mungitore, il caporale.

Il ruolo delle donne; i giochi; le

feste.


 

Franco Presicci

Appena superato l’ingresso della cascina Sirtori, a Rovagnasco, a due passi da Segrate, in compagnia del mio amico Pietro Carrideo, che con il suo taxi ha passato la vita ad attraversare in lungo e in largo Milano, ci venne incontro Antonio, il proprietario, appoggiandosi ad un bastone. 

Cascina sul Naviglio Grande
Copricapo di lana in testa, giaccone marrone, guanti di lavoro turchesi, alto, sull’ottantina, un’espressione seria, rispose sottovoce al nostro saluto e ci scortò subito in un giro per i vari ambienti, parlandoci della storia della cascina. Poi si appoggiò ad un trattore, che ancora, qualche volta, guidava e non per sfizio e lanciò uno sguardo al cielo che prometteva pioggia. Poi scucì un sorriso, ci mostrò vari attrezzi, che tradivano gli anni, si fermò davanti alla legnaia, ripetè il sorriso, contenuto ma non forzato, e snidò un certo orgoglio per quella collezione che testimoniava giorni di fatica. La vita in cascina non era, e non è, facile: sveglia prima dell’alba e ritorno a casa al tramonto. E’ la storia del rapporto dell’uomo con la terra. Osservando un congegno arrugginito e un avanzo di spandifieno, pensai a Renzo Travaglino, vittima come Lucia di Don Rodrigo nei “Promessi Sposi”, che scarpinando per la seconda volta per raggiungere Milano, sostò nei pressi del quartiere Greco, dove trovò accoglienza proprio in una cascina. Era il 23 aprile del 2010, quando con Pietro, di Torremaggiore, nel Foggiano, figlio di un carrettaio, di cui ama descrivere il lavoro dal bosco ceduo al carretto rifinito. Una giornata grigia e fredda. Antonio si era equipaggiato a dovere e sembrava non averne. I suoi occhi suggerivano il suo piacere di conversare, ma al caldo. In cucina.

Cascine lungo il Naviglio
Oltrepassata la soglia, seduti attorno a un tavolo tra l’odore della minestra nella pentola, chiese alla moglie, Bambina, di preparare il caffè; e lei, pronta, appoggiò la cuccuma sul fornello. Troneggiando di fronte a me, Antonio cominciò a rispondere a tutte le domande: non solo le mie, ma anche quelle di Pietro, uomo curioso e informato, che avendo smaltito l’adolescenza e la giovinezza nel suo paese natale, la cui storia ha a che fare con il Monastero Torrae Majoris, aveva messo il naso in tutte le botteghe artigiane e nei campi in cui lavoravano alcuni parenti. Bambini ascoltava i discorsi del marito e garbatamente integrava, arricchiva, completava, rendendo più ricco il racconto. Antonio si appassionava, rivelando una memoria lucida, incoraggiata da quella di Pietro; e io mietevo dall’uno e dall’altro. Intanto fumava il caffè nelle tazze, accompagnato dai biscottini che Bambina incoraggiava ad assaporare, senza perdere il filo della discussione e colmando i vuoti che il marito lasciava.

Cascina Linterno
Gentile, premurosa, perfetta padrona di casa, rimarcava che Antonio aveva compiuto con amore il suo lavoro, nonostante fosse duro e quasi senza sosta. Mi venivano in mente le mansioni svolte dai lavoranti nelle cascine, a corte chiusa o a corte aperta, dove i dipendenti fissi ottenevano in cambio poche lire e un piatto di minestra; gli obbligati, che accorrevano quando si aveva bisogno, cioè almeno sei mesi all’anno, guadagnavano un po’ meno degli avventizi, che però venivano scaricati appena la loro prestazione non serviva più. Ed erano alcuni di questi che, dovendo assicurare un piatto di polenta alla famiglia, s’intruppavano in bande di briganti, alle quali erano molto utili conoscendo bene i luoghi. Pietro, sempre attento e interessato, ricordava i vari settori delle cascine: la stalla, il cotile, il fienile, l’abitazione del proprietario, la “giazzera”, dove si teneva il ghiaccio… Antonio taceva per pochi minuti, e poi riprendeva la parola, rispolverando l’avvicendarsi dei fatti e dei personaggi della sua struttura agricola, cominciando dal nonno, il primo della dinastia a mettervi piede, da affittuario. I nipoti, cresciuti in un mondo fatto di giochi semplici, che finivano presto perché i bambini dovevano dare una mano agli adulti e imparare a fare tutte le cose che servono per mandare avanti un complesso così fatto, l’acquistarono. Dunque, anche i ragazzi lavoravano tanto e giocavano poco: qualche partita a bocce; le feste, ma soltanto da una quindicina d’anni, ospitate nel cortile, “perché un po’ di vivacità non guasta”.

Risaie alla Cascina Malnido di Lamdriano(PV)
Ma per il resto la cascina è un posto – ribadì Antonio – in cui ci si sfianca dalla mattina alla sera; e quando si è finito ci si siede a tavola tutti insieme, genitori, figli, fratelli e cognati, a onorare la cazzoeula e il minestrone alla milanese confezionati dalla “mater familias”, cuoca provetta. Antonio parlava piano, con voce bassa, come avesse timore di annoiare. Poi si alzò e ci invitò a seguirlo sotto il portico, dove un falegname stava sistemando una tavola nelle branche di una morsa. Si rivolse a Pietro, tutto preso dal lavoro del Geppetto, e disse, dandogli del tu – “vedo che conosci bene il mondo delle cascine”. E Pietro rispose che gli era sempre piaciuto il paesaggio rurale, le sue architetture, l’attività sia pure pesante che la terra richiede”. “Antonio, lei è contento di abitare in una cascina? gli domandai. “Certo che sono contento. C’è tranquillità e si ha l’impressione di essere in un altro mondo. E poi ci sono i miei ricordi”. Guardò nuovamente in alto e tese la mano per raccogliere poche gocce di pioggia, che “è benedizione”. Lo incalzai, visto che non si sottraeva. E declinò la data di nascita della cascina. “Fu edificata dai Cavalieri di Malta, appartenne al conte Berra, titolare di un terreno vastissimo, che andava fino a via Palmanova, a Milano. Sono notizie che vengono da un documento antico. Come ho già detto il primo a venire in cascina fu mio nonno, Carlo, con i suoi tre figli, tra cui mio padre. Il nonno era affittuario; in seguito io e i miei cugini, Carlo, Pietro e Giovanni, la comprammo.

Pietro Carrideo
La casa padronale è adesso monumento nazionale”. Lui dovrebbe essere a risposo, ma non è capace di starsene con le mani in mano. Qualche volta gli viene la voglia di salire sul trattore e lo fa. “Da ragazzo passavo le giornate tra i libri di scuola e il lavoro. A 9 o 10 anni curavo le bestie insieme ai miei fratelli. Ci toccava anche raccogliere il fieno rimasto a terra mentre gli adulti lo caricavano sul carretto. Poi questa incombenza passò a noi”. E i giochi? “Abbandonati verso i 7 anni. Quali erano? La lippa, saltacavallo, nascondino... I lavoratori della cascina erano il ‘casèe, che depositava il formaggio nella ‘giazzera’, che conteneva il ghiaccio; il lattaio; il ‘campèe, che irrigava la terra, “il caporale, il cavallante, che governava gli animali, i mungitori. Questi ultimi, che cominciavano alle 5 del mattino, curavano le mucche, lavando loro anche le tette, se no addio latte. Vicino alla cascina stavano il maniscalco e il falegname che costruiva i carri. Coltivavamo il grano, il riso, il mais. Per la trebbiatura gli operai venivano da fuori e noi davamo loro una mano. Quando non avevamo i trattori io guidavo l’aratro tirato dai cavalli”. Come passavate le serate? “Rientrato a casa, mi mettevo in ordine, cenavo con mia moglie e poi andavo a fare una partita a bocce con gli amici. 

Cascina
E, non per vantarmi, ho vinto belle coppe: e se le ho vinte vuol dire che forse ero bravo”. E poi c’erano le feste. “Quali feste? Solo da alcuni anni offriamo il cortile per la ricorrenza di San Vittore e per quella del quartiere. E devo dirle che lo facciamo molto volentieri”. E le donne? Facevano anche loro lavori per la cascina? “Le donne provvedevano ai figli e agli animali da cortile”. E naturalmente cucinavano. Nel ’52, dopo il matrimonio, “Bambina e io rimanemmo con i miei genitori, i miei fratelli, i miei cognati. Cucinava mia madre, che tra i fornelli era un’artista. I piatti che apprezzavamo di più erano la cazzoeula, la polenta con i salamini, il risotto, il minestrone alla milanese, la minestra di ceci con tempia di maiale. Adesso in cascina siamo rimasti io e Bambina e stiamo bene insieme”. Nostalgia dei vecchi tempi? “Non tanta. 

Mucche in cascina
Quando spopolammo la stalla (i giovani non erano interessati) io e un mio cugino versammo lacrime. Eravamo molto affezionati alle mucche, e non soltanto noi. Una aveva poppe abbondanti e dava più latte delle altre. Aveva anche corna superbe, bellissime. E per questo la chiamavo Belarma”. Insomma per Antonio la cascina è tutto: nido, guscio, rifugio, conforto. Il rumore delle auto arriva molto attenuato, la pace è salva, e salvo il silenzio. Il silenzio adorato da Francesco Petrarca, che visse per nove anni alla Cascina Linterno, a Baggio, Milano. Qualcuno ha scritto che la casa è il prodotto di una storia. La cascina non fa eccezione. La cascina, con i suoi fermenti di vita e di lavoro, è la testimonianza di sudore e sacrifici, di ricerca di nuove risorse per ricavare il meglio dalle zolle. Salutando Antonio Sirtori mi venne in mente il dipinto di Giovanni Segantini raffigurante la donna con il bambino tra le braccia in una stalla vicino al bue.
















Nessun commento:

Posta un commento