Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 11 agosto 2021

Il tratturo è ora deserto

Il nostro tratturo

RICORDO DELLE VOCI DEI BIMBI

DEI VECCHI E DELLE DONNE

Quasi tutte le persone care sono

morte, tranne Rosa che con il figlio

Francesco cura la sua vigna. Sembra

mutato anche il paesaggio. 

 

Franco Presicci

Una delle ultime volte che ho trascorso un’oretta con lui, Giovanni Montanaro, aveva quasi novant’anni. Era seduto su una sedia sgangherata all’ombra del suo trullo proprio sul gomito del tratturo che s’inoltra da via Mottola. La stessa sera gli fecero la festa di compleanno i suoi tre figli. Beatrice, il marito e la figlia erano arrivati qualche giorno prima da Vigevano per passare con lui qualche giorno di vacanza.

Giovanni Montanaro

Giovanni ormai sentiva poco, ma se si alzava la voce le parole le coglieva. E faceva domande, anche se con una certa difficoltà. Io parlavo e lui annuiva. Gli dicevo “du ’passatùre”, che era cambiato e lui faceva sì con la testa. Gli ricordavo le persone che non c’erano più, a cominciare dalla moglie Stellina, che lo chiamava “Uagliò’’”, quando lui trafficava nella vigna ed era già pronto in tavola o quando stava “indr’o palummìedde” a controllare la funzionalità degli attrezzi che con un suo vecchio amico avrebbe utilizzato per la vendemmia. “E Marie?”, mi domandò, interrompendomi mentre accennavo a mio suocero, Ciro, che con la sua 126 veniva più volte la settimana, quando noi eravamo a Milano, per appurare che tutto andasse bene, in questa nostra terra acquistata da una vedova con quattro figli negli anni 70. Maria e la sorella Rosa, una vedova e l’altra zitella, avevano il trullo attaccato al nostro e come Giovanni qui erano un’istituzione.

Rosa e Francesco nella vigna
Entrambe anziane, generose, disponibili, ignoranti ma sveglie. Per loro, e per molti altri, Giovanni era “Nannine”. Maria aveva quattro figli; e quando soprattutto il sabato sera piombavano tutti da lei, preparava la tavola, faceva i panzerotti e li infilava nel forno, aiutata da Graziella, una delle sue ragazze. Tra gli invitati noi non mancavamo mai. Giovanni apparteneva all’epoca della zappa, ma negli ultimi tempi del suo lavoro si era motorizzato anche lui. Una notte i ladri gli portarono via tutto e lui, che aveva il fucile con regolare autorizzazione, sfogando la rabbia mi disse che mentre quelli operavano lui dormiva, altrimenti lo avrebbe usato. Ma sapevo che non avrebbe mai imbracciato l’arma neppure contro quei serpenti che ogni tanto si attorcigliano sul un ramo di un albero o strisciano tra le “ceppùne”. Anche se innocui, incutono paura. “Vero, Giovanni?”. “E come no. Chìdde mòzzechene”. La memoria di Giovanni non era svaporata. Lui mi faceva l’elenco dei lavori che anni prima aveva fatto nella nostra proprietà, cominciando dal bagno e dalla cucina, che sono ancora in ottime condizioni: neppure un piccolo rigonfiamento nell’intonaco. Aveva anche costruito il ricovero per i polli, quando a mia moglie Irene venne il desiderio di essere svegliata dal canto del gallo. Poi la volpe una notte fece una strage e decidemmo di disfarci dei sopravvissuti, soffrendo. Per me il pollaio era anche uno svago: portavo il mangime, l’acqua e stavo molto tempo ad osservare stormi di uccelli che planavano per banchettare. A volte mi stendevo sulla sdraio all’ombra del glicine e assistevo allo spettacolo di sua maestà (un gallo prestante, dalla cresta imponente e il passo marziale, che dettava ordini a quella trentina di bipedi). Li rievocavo fissando l’antico ulivo, un ombrello vegetale che un amico pittore immortalò con ogni dettaglio. Quell’ulivo con i suoi orecchini neri o verdi, della famiglia considerata dagli antichi greci dono di Minerva, è sempre stato il mio albero preferito. A volte dovevo vincere la tentazione di confidargli i miei crucci. Il più forte, dovuto al tratturo, che aveva perso quasi tutte le sue voci: quelle dei ragazzi che correvano sulle bici o mandavano in aria gli aquiloni o facevano altri tipi di giochi; delle donne che conversavano addossate al muro a secco o sul piazzale di questa o di quella; dei vecchietti che giocavano a scopa urlando quando uno degli avversari azzeccava il “pisellino”, cioè il sette di denari. Fino a una decina di anni fa veniva Peppino a curare la sua terra, dando un’occhiata alla nostra, che la fronteggia. Quando non lo vedevo, urlavo il suo nome e lui mi rispondeva divertito, spuntando dai pampini. Sentivo il rumore della sua motozappa e più che un rumore per me era un suono.
 
Il trattore
Adesso sento il rombo del trattore che pulisce il fondo vicino. Un paio di volte al giorno passa con il suo furgone Teodosio, che ha la campagna al termine della salita e carica e scarica il materiale che gli serve per la sua attività di costruttore. E io conto i morti: Carluccio, lo zio di Giovanni, che aveva il trullo proprio all’inizio della via erbosa, come il compianto Italo Palasciano, giornalista dell’”Unità” e scrittore, chiama i tratturi in un suo libro; Maria e Rosa, che stavano più a casa nostra che alla loro; Stellina, Renzo… Il tratturo li ha persi tutti. Quelli del trullo “Gigio” non vengono più da anni e la loro casa incappucciata, in vendita, non trova acquirenti. Qualche mese fa se n’è andato anche Giovanni; e Donato, il figlio più giovane, è rimasto solo. La moglie di Peppino, Rosa anche lei, sta nella bella casa di via Papa Domenico, (la vecchia strada per Noci), 500 metri da noi, e del vigneto si occupa anche Francesco, giovane intelligente, bravissimo, competente. Prima utilizzava il motocarrello lasciato dal padre; adesso si serve di un furgoncino. Giorni fa l’ho visto spruzzare “’u vetriùle”’ sulle viti. La nostra terra l’abbiamo affidata a Donato, che la tiene pulita e ordinata. Il silenzio dunque domina “’u passatùre”. Ogni tanto, il tardo pomeriggio, dal bosco proviene la voce di una giovane donna che incita le pecore. Qualche volta la sera, fin dopo mezzanotte, irrompe da un trullo non tanto vicino una musica assordante con intervalli di brani di Giacomo Rondinella, Claudio Villa, Gigi D’Alessio... Adesso che non c’è più Giovanni, a volte mi capita di riferire con voce impercettibile e con rammarico al vecchio ulivo dei furti che abbiamo subito. I ladri mi hanno addirittura smantellato le chianghe delle scale esterne, una pila regalatami da Carluccio, un sedile di pietra proveniente dalla nostra casa, che abbiamo venduto, nel centro storico. Che può saperne, l’ulivo? “Le piante ascoltano e tacciono”, mi diceva un anziano “paretaro” un po’ ingobbito e i capelli abbrustoliti dal sole. 
 
Vito Argese con la motozappa
Guardo la quercia, alta quanto la statua di Cristo Redentore, monumento sulla strada per Crispiano; poi l’ulivo e lascio scorrere i pensieri. “Ma nostro Signore non gli ha dato la parola”, ribadiva il paretaro, che di nome faceva Martino. E io: “Tu le ricordi le nostre riunioni, alle quali partecipavano i miei suoceri, Pina e Ciro, appassionato di spettacoli e di sport, i nipoti, le loro mogli e i loro figli... Il barbecue sempre acceso per arrostire carne o pesce? Eri spesso dei nostri”. “Le ricordo, sì. Di solito a governare il fuoco era Francesco, martinese e capatosta trasferitosi a Taranto dopo il matrimonio. Un giorno lo sorpresi a parlare con il fico “recotte” che sta vicino al pollaio, adesso disabitato, mischiando i suoi rami con quelli del noce. Ricordo che diceva: ’Tu mo’, hai fatto fesso a mmè. No m’hà’ mai capetàte. Sì’ cundènde, te sìende addecriàte?’”. “E’ vero, adesso mi viene in mente – gli risposi - Dal piazzale gli chiesi: ‘Francè’, dimm’a mmè’ ce hà succèsse?’. E lui, con un po’ di titubanza, mi confidò che aveva ’nzetàte’ su quella pianta un rametto preso da un albero di mia cognata Antonietta e poi si era accorto che aveva innestato un profico”. Era come aver subito un affronto, uno schiaffo, un calcio sui denti. Era come fosse stata profanata la sua vantata sapienza della campagna. Non gli dissi che la colpa non era del fico. Cercai solo di confortarlo e gli consegnai le chiavi del trullo, invitandolo a frequentarlo liberamente anche in nostra assenza. Ma continuava a lamentarsi, ad avercela con quella pianta, vittima della sua disattenzione. Francesco era fatto così, ma era persona perbene, schietta, gentile. Un giorno Irene diceva che l’erbacea che aveva appena messo a dimora intorno al piazzale del ciliegio era maggiorana; e lui sosteneva inflessibilmente che fosse origano. La discussione andava per le lunghe e chiamai Maria a dire la sua; e Maria, furba: “Francesco che dice?”. “Che è origano”. “E quello è”. La comitiva si è dispersa, dunque. Chi è rimasto in vita ha i suoi malanni e non se la sente di mettersi al volante per passare una giornata con noi. Per fortuna ci sono gli Argese, con i trulli in via Papa Domenico vicino alla chiesa della Madonna della Consolata. Stiamo spesso insieme, ci divertiamo, ci vogliamo bene, facciamo le pizze da Matteo.

Altra immagine del tratturo
Vito Plantone

Non li conoscevamo ancora quando una sera, grazie a Michele Annese, oggi direttore di “Minerva”, venne a suonare sul nostro piazzale il trio “Crispianapolis” della città delle cento masserie e gli amici arrivarono da ogni parte, dalla Bimare, da Locorotondo, da Lecce il questore Francesco Colucci, da Noci il cognato e la sorella del questore Vito Plantone, impegnato a Milano, da Martina Elio Greco e la moglie. “E’ accìse ‘nu jadduzze?”, mi chiese un giorno Vito, nocese purosangue, parcheggiando l’auto. La ghigliottina l’aveva manovrata Maria. Misi in moto il grammofono a manovella appena acquistato in un mercatino e dai solchi magici emerse la voce di Tito Schipa. Una volta nell’oscurità di una sera senza luna sbucò Giovanni in calzoncini corti e maglietta a righe. Con il suo organetto suonava una canzone di altri tempi. Spesso Giovanni ci portava zucche, pomodori, peperoni prelevati dal suo orto. Non capivo quanti mestieri sapesse fare: il contadino, l’ortolano, il muratore… Caro Giovanni. Ho pianto quando ho saputo che non c’era più. E adesso, quando torniamo da Milano, non lo troveremo più seduto sulla sua soglia, lo sguardo opaco, la coppola e gli occhiali scuri; e non ci saranno più Maria e Rosa ad aspettarci davanti al nostro cancello. Le rondini si posano sul filo della luce, compiono acrobazie verso l’antenna della televisione, volano verso il boschetto, e a seguirle ci siamo soltanto io e Irene. Anche il paesaggio mi appare mutato.








Nessun commento:

Posta un commento