Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 13 ottobre 2021

La mia scuola elementare

UN SERBATOIO DI RICORDI

LA “ACANFORA”, IN VIA DANTE

 

Scuola "Acanfora"
Ebbi come maestra la signora

Carrozzo, dolce, paziente, brava,

che non accettava i miei capelli

lunghi con i buccoli. Che fatica

convincere mia madre a farmi

potare. Gli scherzi degli scolari e

qualche bacchettata sulle mani.

La pernacchia dello scolaro che

risuonò in tutta la scuola.


 

Franco Presicci



Non ho mai più messo piede nella scuola “Acanfora”, dove frequentai le elementari avendo come maestra la signora Carrozzo. Una maestra che adoravo: paziente, comprensiva, sempre calma, dolce.

Uno scolaro
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E soprattutto non impugnò mai la bacchetta per punirci, come faceva un altro maestro. Erano i tempi della guerra e spesso le lezioni erano interrotte dal sibilo della sirena e dalle corse al ricovero, che era nella piazza di fianco alla scuola, adesso stretta fra due palazzi che si affacciano uno su via Dante e l’altro su via Oberdan. Erano i tempi della tessera annonaria e se non ero sempre tormentato dalla fame, era merito di mia madre, che mi dava anche la sua porzione di pane e a volte si forniva come tanti dalla borsa nera. Erano i tempi in cui a scuola si facevano le aste, alle quali ero allergico. La signora Carrozzo in prima le utilizzava anche come castigo: se non si riempiva la pagina che ci assegnava a casa, ce ne imponeva dieci e anche venti, se si era recidivi. Ricordo l’insistenza appassionata di mia madre nel convincermi ad andare sino in fondo, perché io dopo le prime righe avrei chiuso il quaderno.

Pennini di una volta

Ma neppure quelle piccole sbarre, che dovevano essere precise, nette, senza sbavature, compromisero il mio affetto per la signora Carrozzo. Quando raggiunsi i sedici anni, la incontrai per strada; e dopo una breve conversazione anche sul mio comportamento scolastico, mi invitò a casa sua, credo in corso Umberto; e, avendole detto che sapevo fare il presepe, mi sollecitò ad architettarne uno anche da lei. Il giorno dopo ero già all’opera; e mentre costruivo grotte e sentieri, il marito, che mi stava vicino per curiosità, mi corresse: “Non si dice ‘Gl’italiani’: l’apostrofo è inopportuno, quindi si deve dire Gli italiani”.

Anche lui era una gran brava persona. Terminata la scenografia, non li vidi più. Davanti alla scuola “Acanfora” dovevo passare, sorgendo nel punto in cui via Dante incontra a destra via Nettuno, che era quella in cui abitavo. Vedevo entrare gli scolari, e i genitori o i fratelli più grandi che li aspettavano all’uscita; il custode Antonio, che sembrava dirigere il traffico e chiudeva il portone quando le scolaresche si erano sciolte; ma non mi sono mai soffermato per rivedermi ragazzino con il grembiule, davanti alla maestra che pregava mia madre di tagliarmi i capelli con i buccoli, che mi avevano procurato il soprannome “Rezzetìedde”.

La chiesa di via Dante
La signora Carrozzo non sapeva di questo nomignolo, altrimenti avrebbe provveduto. Eh, quante cose ho imparato da quella donna bassina e carina, che insegnava con vivo attaccamento, senza perdere mai il controllo, neppure quando noi ragazzi avremmo fatto perdere le staffe persino a Giobbe. Una volta mi disse di farmi il segno della Croce e invertii l’ordine dello Spirito Santo. Non mi redarguì e non mi fece uscire dalla classe (del resto non lo aveva mai fatto). Mi chiese solo di ripetere il gesto e mi licenziò con un bravo, essendomi corretto. Da lei ho appreso il valore della pazienza, anche se allora non ero capace di impiegarla e scattavo come un fiammifero acceso. Sorrido al pensiero delle volte che la signora Carrozzo pregò mia madre di portarmi dal barbiere, che, guarda caso, stava proprio di fronte alla scuola.
Disegno di Lotito

La resistenza della signora Lina, mia madre, la costrinse a minacciare, sempre con voce pacata e serena, di non accettarmi più in classe con quella foresta sul capo. La signora Lina, sia pure con sofferenza, cedette, ma dal barbitonsore mi mandò da solo. Non voleva assistere alla tosatura. E al mio ritorno a casa, vedendomi pelato come un’anguria, perché io, seduto sulla poltrona girevole, avevo deciso che, dato che c’ero, potevo fare piazza pulita sulla mia zucca, pianse. E anche la maestra, quando entrai nell’aula, diretto al mio posto, in seconda fila, di fronte a quello scempio, rimase di stucco. Del resto non poteva prevedere che io mi sarei fatto pelare come le pecore fra le mani dei pastori.

Pennini e penna

La signora Carrozzo fu la mia insegnante fino alla terza e mi vennero gli occhi lucidi quando seppi che non si sarebbe più seduta su quella cattedra. Ricordo l’ultima domanda che mi fece: “Che cos’è un fungo?”. “Un genere di piante di varie dimensioni, tipi, colore, forma. Alcuni hanno una sagoma ad ombrello, altri a tamburo, altri a mazza da “baseball”. E avrei continuato, se lei non mi avesse fermato, perché soddisfatta. Ci aveva inculcato anche l’amore per la natura e il rispetto che le si deve. Nutrivo molto affetto anche per il direttore, di nome Suglia. Era delicato, paterno, mai uno sbuffo di autoritarismo, che emergeva invece in una delle bidelle, che non sopportava i ragazzi indisciplinati; tanto che per imporsi spesso bloccava i pugni sui fianchi come le anse di una giara, in dialetto tarantino capasone. Un giorno uno di quegli atteggiamenti seguiti da un “Basta!” urlato come i comandi del caporale a un addestramento di reclute provocò una pernacchia, che, autore uno di quinta, non sarebbe riuscita meglio neppure al marchese del Grillo. L’interessata digrignò i denti e girò gli occhi di fuoco verso destra e sinistra, e anche la testa, senza centrare l’obiettivo. Per la verità, quel rumore sonoro che nei teatri o nei comizi sottolinea una battuta riuscita male o un discorso non condiviso lo avrei fatto volentieri anch’io, che se non ero un Giamburrasca poco ci mancava.

Trascorso il tempo e riandando con gli amici a quegli anni, sentivo dire di punizioni severe: scolari isolati dietro la lavagna o inginocchiati sui ceci. E qualcuno evocava il detto “Mazze e panelle fanno i figli belli”, che io contestavo. La bacchetta era per qualcuno un mezzo per ottenere la disciplina, il silenzio, l‘ordine, quando, per esempio, momentaneamente assente il maestro (magari per una fuga in bagno), gli alunni si scatenavano e a subirne le conseguenze era il capoclasse, che faceva più chiasso di tutti. C’era anche il maestro che la bacchetta l’agitava soltanto, quello che la batteva sulla cattedra; e quello che l’adoperava con leggerezza. 

Presicci sfida il caldo per un "gràtta-gràtte”
Presicci sfida il caldo per un Quando toccava a me e andavo a lamentarmi da mia madre, mi sentivo dire: ‘Ben ti sta, vuol dire che hai fatto ciò che non dovevi fare”. E pensavo: “Ho avuto il resto” (Ma quando facevo il bravo, mi dava i soldini per comperare “’u gràtta-gràtte”). Lei aveva molta stima di quel maestro austero, che a volte metteva da parte la pagina di aritmetica e ci parlava del suo desiderio di creare un orto, in cui piantare insalate e carote da regalare; e della cattiva fama che accompagna alcuni animali, come la civetta, ritenuta a torto annunciatrice di sventure. E accennava alle figure del mago della pioggia, del lupo mannaro, dei fantasmi, dei folletti…, precisando che erano soltanto credenze popolari tramandate da secoli. Anch’io stimavo il maestro, per la sua cultura e quindi per la ricchezza che ci somministrava.

E ancora oggi mi pento del biglietto con la scritta: “Maestro, lei mi è antipatico”, che, per spirito di patate, gli infilai nella tasca della giacca appesa all’attaccapanni e rimasto inevaso. E restarono impuniti, per la difficoltà di individuare i colpevoli, il piccolo strato di colla sparso sul posto del mio compagno di banco, che si ritrovò con i pantaloni sporchi; la mano ignota che infilò nella cartella del primo della classe un disegno raffigurante un asino; e quella che rovesciò il mio calamaio. Marachelle che per alcuni non potevano essere liquidate con uno scappellotto o un colpetto di verga: I monelli andavano rimodellati. E il cosiddetto monello dell’ultima impresa sbirciò il maestro, la mazza posata sulla cattedra gli sembrò ergersi verso l’alto, oscillare come un pendolo, lanciando un segnale sgradito. Il maestro aspettò che l’autore si rivelasse, ma l’attesa e il silenzio naufragarono nel suono dalla campanella, che quella volta sembrò più forte e più lungo.

Via Dante Alighieri

La scuola “Acanfora” è un serbatoio di ricordi. Qualcuno pallido, qualche altro vivo. ben delineato nei suoi contorni. Quando torno da Milano, d’inverno o d’estate, mi fermo all’angolo di via Nettuno con via Dante e la guardo, la fotografo per immortalarla nella mia ricca raccolta d’immagini. E mi viene un po’ di malinconia alla vista della facciata un po’ trascurata, con i manifesti elettorali incollati sulla facciata, qualcuno sventolante nello sforzo di staccarsi per fare pulizia. E non sono andato mai più a vederla dall’ingresso di via Oberdan, dove le scale sono fiancheggiate da due…scivoli, che da ragazzo praticavo con un po’ di timore a testa in giù, come fanno ancora oggi i bambini nei parchi-gioco. Ricordo tutto di quella scuola: la disposizione delle aule, quella adibita ad abitazione del custode, a sinistra rispetto all’entrata, l’ufficio del direttore; e ricordo il maestro supplente (credo si chiamasse Calderone) al quale raccontai una storia che mi ero inventata e lui mi promise che l’avrebbe riferita a un regista di sua conoscenza per ricavarne un film. 

La Concattedrale in viale Magna Grecia
Non ci credetti, perché ero consapevole dell’inadeguatezza del racconto. Non so più che fine abbia fatto il libretto di poesie che mi donò un giovane maestro, che faceva anche il pittore con un certo talento. In alcuni versi diceva: “Chi sono io? Il frutto di una notte turbolenta”. Era giovane, spiritoso, intelligente. Lo incontrai dopo tanto tempo e mi regalò un quadro, che interpretai come uno squarcio dell’anima. Avevo già 18 anni. Scuola “Acanfora”; via Dante, che da via Giovan Giovine è stata stravolta. Gli orti sono stati spazzati via per far posto alla costruzione di palazzoni e alla nascita di nuove strade, come viale Magna Grecia, un tempo corso Venezia, inondata di verde. Quando avevo forse 17 anni nella palestra si svolse una festa non ricordo per quale ricorrenza e quelli della mia comitiva vi aderirono senza avvertirmi, per il semplice fatto che uno di loro voleva corteggiare una mia parente senza avermi tra i piedi. Via Dante è una delle vie più note. Nel ’45 vi è nato il comico, imitatore, attore, conduttore televisivo Teo Teocoli. Anche lui tarantino di successo. Chissà se anche lui ha frequentato almeno un anno quella scuola edificata a quanto pare nel 1925, alle Tre Carrare, quartiere sistemato nello stesso anno.









Nessun commento:

Posta un commento