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mercoledì 20 ottobre 2021

Cantò la sua Puglia con passione

IL PITTORE BARESE FILIPPO ALTO

MERITA DI ESSERE RICORDATO

 

Filippo Alto

 

Qualcuno propone di dedicagli un

Premio ed elogia Locorotondo che

gli ha intestato una via. In un suo

testo Giuseppe Giacovazzo scopre

il suo paese nelle opere dell’artista. 

 

Franco Presicci 

“Ti racconto - dopo quasi una vita – perché una domenica ti trascinai dalla città a vedere com’era fatto il mio paese. Tu ora lo dipingi. Io lo riscopro nella tua pittura. E mi chiedo qual è il senso dell’immediato sortilegio, e per quali ragioni interiori alla ‘bugia’ dell’arte rinasce sempre viva l’emozione di trovare nell’aria le case pulite, le ‘commerse’ nel cielo issate, come stendardi, le strade tagliate dal vento, insomma quella forma ‘oggettiva’ che va sotto il nome di Locorotondo e che anch’io cerco di disegnare: come posso, con le parole”. E’ l’inizio di tre pagine che Giuseppe Giacovazzo, giornalista e scrittore, direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, scomparso da tempo, scrisse per una cartella di litografie di Filippo Alto, il pittore barese con studio a Milano, che scendeva spesso in Puglia per ritrarre la bellezza dei suoi paesi: Cisternino, Ostuni, Alberobello…, le case con il tetto a cappuccio, le viti, gli ulivi dai tronchi monumentali, la terra rossa della città del Festival della Valle d’Itria... 

Da sin. Rossicone, Kodra, Alto

E quando la musica inondava il magico paesaggio di Martina Franca, Filippo era sempre presente: passeggiava nei tratturi, nell’intrico di vie del centro storico, alcune solitarie, altre affollate, con le vecchiette a sferruzzare sulla soglia del basso, e s’inebriava, accumulando particolari da affidare al pennello. Particolari di bellezza. “La Valle d’Itria? Ci sono scesa per invito di Giovanna Bemporad – rispose Gina Lagorio a chi l’intervistava – una poetessa e traduttrice di molta raffinatezza. D’estate quella valle è una meraviglia, tra mare e collina. Sono scesa per il festival di lirica. E l’impressione che avevo era di solarità. Una solarità che scendeva dentro l’anima”. Quando da Milano partivo per Martina, in treno perché da Bari in giù volevo godere dal finestrino i prodigi che scorrevano con la velocità del vento, incontravo spesso un amico di vecchia data appassionato della sua culla.

Il direttore del Giorno Zucconi e Chechele
Un giorno da una borsa tirò fuori una copia con la copertina verde di “Paese vivrai” di Giacovazzo. Rilessi le prime righe, che ho riportato all’inizio, e gli dissi che sapevo tutto il testo a memoria. “Bene, ma vogliamo dimenticare questo pugliese che a Milano nella sua casa di via Calamatta, proprietà di un altro eminente pugliese, Guglielmo Miani; poi in quella di via Porro Lambertenghi, all’Isola, quindi nel suo rifugio estivo di Figazzano, ha realizzato ristoratrici, splendide tele sulla Puglia, esponendole nelle gallerie d’arte più famose in Italia e all’estero? Gli si dovrebbe dedicare una grande serata nel luogo più prestigioso, per esempio a Milano a Palazzo Reale. A Locorotondo gli hanno dedicato una via; ma perché non anche un Premio? Lui di Premi ne ha creati più d’uno, con te”. Credi che io non ti dia ragione, amico mio? Erano altri anni. C’era più gente disposta a sostenere certe iniziative.
Apricena Chechele dietro il Sindaco (al centro)

Per esempio, parecchi colleghi, andati in pensione, hanno lasciato Milano; altri questo mondo; altri non so, non li sento da tempo. E io viaggio verso i novanta. “Ma sono convinto che per una ‘formica di Puglia’, per un grande artista qual era Filippo riusciresti a tirar fuori le energie necessarie. Tu, che tra l’altro eri suo amico e compagno di serate casalinghe indimenticabili, con Vito Plantone, Costantino Muscau, Enzo Caracciolo, Achille Serra, Francesco Colucci, Martino Colafemmina, Romeo Quatraro e altri”. Sono diventato una lumaca che ogni tanto mette la testa fuori dal guscio, per motivi che toccano ai vecchi. Mi limito a vagheggiare tante cose e per quanto riguarda Filippo spesso sfoglio i suoi numerosi cataloghi e rivedo un trullo la cui cuspide sfuma ai piedi di un fico, i balconi spanciati di Martina intersecati con un pezzo di masseria di Noci o affiancato a un campanile di Trani, elementi “legati” da un ramo d’ulivo o da un tralcio di vite o da un frammento di tratturo, di una strada. “La strada è incontro”, ha scritto Giacovazzo. E’ spesso sulla strada ritrovi un amico che non vedi da tanti anni, ripercorri la sua storia trascorsa insieme e vuoi conoscere quella che da lì è andata avanti”. 

La cartella di Filippo Alto

Sono state tante le strade attraversate da Filippo, uomo generoso, colto, intelligente, attento, artista autentico, dai discorsi essenziali, consapevole del significato delle parole. Un uomo che amava ascoltare e meditare. E non parlava mai di sé. Mai chiedergli un commento sui suoi quadri. “Sei tu che devi dire a me. Io dipingo e lascio giudicare a chi osserva”. Rispose così al questore Enzo Caracciolo, che a casa mia fissava un suo quadro appeso nel soggiorno. E non amava quelli che si autocelebravano. Quelli con il tempo si spengono e lasciano solo tracce della loro pochezza, se non sono passati inosservati. Anche con questi era gentile, pur sapendo che dai loro discorsi non avrebbe ricavato nulla. Considerava il dialogo un’occasione di arricchimento. Filippo non c’è più dal ’92. A Figazzano ci vanno la moglie Ada, i figli Giorgio e Diego con le mogli e i rampolli, forse anche per ritrovarlo, per ascoltare i suoi passi, le sue conversazioni con la gente. Figazzano, quando c’era lui, era un pellegrinaggio di amici che arrivavano da ogni parte. Una sera v’incontrai Mario Mazzarino, già sottosegretario alle Finanze, con il quale avevo frequentato l’oratorio del Sacro Cuore, in via Giovan Giovine,a Taranto; un’altra sera il ministro Vernola; e poi il famoso critico d’arte Raffaele De Grada, il poeta Egidio Pane, il giornalista Rai Antonio Rossano (chi ha buona memora ricorda le sue esaurienti cronache su Rai 3 durante la sagra canora martinese), il compianto scrittore, da tempo scomparso, Giuseppe Francobandiera, direttore del Circolo dell’Italsider alla Masseria Vaccarella della Bimare, dove tra gli altri ricevette Gianni Brera, Morando Morandini, critico cinematografico del quotidiano “Il Giorno”, per una serie di conferenze su vari argomenti, e allestì una importante mostra dello stesso Alto.

Apricena in festa

E sempre a Figazzano conobbi don Oronzo, un contadino di 80 anni, che gli domandava come mai nei suoi quadri, tra viti, ulivi, querce, fichi Filippo non inserisse una figura umana, magari con il cappello di paglia in testa. Filippo sorrideva. E una volta, in una serata piena di gente, gli consegnò il microfono per fargli raccontare la vita della campagna di una volta. Nei panni di Silvio Noto, l’attore, presentatore, doppiatore, cantante barese, famoso tra gli anni 50 e 70 (nel ’57 presentò Mina in una trasmissione televisiva), don Oronzo si trovò a suo agio e parlò di vendemmie, raccolte di olive, canzoni, e d’innamoramenti tra le “ceppune”. Un successo, Il pubblico, applaudendo, si alzò in piedi. Per don Oronzo, un po’ brusco ma buono, simpatico, un po’ incurvato dalle fatiche, basso, magro, occhi vispi, battagliero, Filippo era “’u prufessòre de le quàdre”, un mito. Ballò con Raffaele De Grada, ospite di Filippo, e poi mi condusse nel suo trullo, attaccato alla casa del pittore, mi offrì un bicchiere di vino e una bottiglia ancora piena di nettare. Gli scrissi un lungo articolo e mormorò un grazie. Filippo sapeva trattare bene le persone. Aveva una lunga schiera di estimatori, a Milano, Bari, Bologna… Leonardo Mancino, che era di Macerata, direttore didattico e scrittore, su Filippo compose un lungo saggio, che conservo come una reliquia. Conoscevo la scrittura felice di Mancino. Avevo letto le sue poesie, le avevo recensite sul “Giorno” e avevo letto la sua storia dei fischietti in terracotta in un catalogo di una mostra del luglio-agosto del ’90 nell’atrio del palazzo comunale di Ostuni. 

Apricena

 

La pittura di Filippo apre un libro pubblicato dalle Edizioni del Rosone, di Franco Marasca, che da Milano si era trasferito nella sua Foggia. Discutevo spesso con Filippo, a casa sua, nella mia, al Circolo della Stampa, da Chechele e Nennella… “Urgono le visioni di Puglia – mi disse a un tavolo de “La Porta Rossa”, di Chechele, durante una delle manifestazioni che il dinamico ristoratore di Apricena realizzava - più vissute con il passare degli anni. Le radici anziché rinsecchire si ispessiscono. Non è il periodo del ritorno, ma quello della maturazione, di una maggiore consapevolezza di ciò che si è perduto, il desiderio di far diventare universale il paesaggio che mi porto dentro”.

Chechele Jacubino

E seguiva con gli interni spagnoleggianti della Sicilia”. Chechele s’incantava, nel sentirlo parlare. Ogni tanto interveniva per elogiare la sua Apricena, che con Foggia e Lucera fu preferita da Federico II, perché soddisfacevano la sua passione per la caccia. Morto Filippo, dopo diversi anni Ada, la moglie, gli allestì una esposizione in una sala di Cisternino. Siccome era agosto, non riuscì a trovare nessuno degli amici per la presentazione dell’artista e delle sue opere. Erano tutti in vacanza, chi emigrato al mare a Peschici; chi in montagna, chi non aveva lasciato recapiti. Chiamò me, rifugiato come sempre nella mia campagna di Martina, all’ombra di un “ombrello” dalle foglie lobate dotate di un grande picciolo: il fico, che nasconde i suoi anni e raccoglie qualche volta i miei pensieri. Le dissi subito di sì e mi ritrovai, una delle rare volte, seduto al tavolo dei relatori, a spiegare la personalità di Filippo Alto, amico, confessore, consigliere, sostenitore, sempre al mio fianco nelle giurie e nell’organizzazione dei Premi, uno dei quali proprio fra gli odori della cucina di Chechele e Nennella, personaggi davvero straordinari. E feci appena in tempo a concludere l’ultima frase contenendo la commozione. Confesso che, parlando, lo cercavo fra il pubblico, convinto che fosse lì ad ascoltarmi, con quel suo sorriso amabile e comunicativo. Una voce mi diceva che da qualche parte c’era, in quella sala, nascosto, magari dietro Silvia Laddomada e Michele Annese. Vorrei sapere dove si trovi adesso, in quale parte del cielo, accanto a quale stella. Ah, il fico. Ricordo l’elogio che fece Giacovazzo in un’altra cartella di litografie di Filippo dedicata agli alberi di Puglia: la quercia, l’ulivo, il fico, appunto. Quel fico cresce anche sulle pareti dei sentieri e non ha bisogno d’acqua per svilupparsi e dare frutti. Un albero di grande dignità, longevo. Un albero amato anche da Filippo. Il fico, che con le sue foglie coprì la nudità di Adamo ed Eva.

SU "MINERVANEWS" -NOTIZIARIO (BLOK NOTES CON PENNA NERA):

IL FICO - Incontro di botanica "culturale"

Interventi di Cosimo Clemente e Silvia Laddomada


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