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mercoledì 23 febbraio 2022

Nostalgia dei tratturi

 

UNA VOLTA ERANO UN’AGORA’ RICCHI DI VOCI E DI PERSONE

Tratturo

Oggi sono vie di passaggio. Su uno

si affacciano i fichidindia, ma non

li raccoglie nessuno. Molti cenano e

pranzano nei trulli o sul piazzale.

E nelle case incappucciate si

suona,si balla, si canta, mentre

qualcuno fa fuochi d’artificio in

onore di una sposa o di un

compleanno.


                                                                

fichidindia

 

Franco Presicci  

Qualche anno fa a Martina Franca un giornalista televisivo mi chiese: “Tu che vieni in Valle d’Itria da quando eri bambino mi puoi dire in che cosa la trovi cambiata, questa nostra città?”. Non ci pensai molto: “Una volta i tratturi erano animati; oggi sono soltanto una via di passaggio attraversata da auto che la scambiano per l’autodromo di Monza. Una volta erano un’agorà, come dice il professor Francesco Lenoci, legato a Martina come l’ostrica alla roccia marina”. Nel tratturo le donne e gli anziani si riunivano, conversavano, si confidavano, lambivano qualche segreto, che in verità sapevano tutti, mentre i ragazzi schiamazzavano e le farfalle, una più bella dell’altra, scuotevano le ali sul glicine che s’ingrandiva intrecciandosi coi rami degli alberi o infilandosi tra le pietre del muretto del tratturo. Ricordo le passeggiate su queste “lunghe vie erbose” (cito il titolo di un libro del giornalista Italo Palasciano), i passatempi, le rincorse dei più giovani, gli urli... 

Trulli lungo il tratturo

Quando avevo dodici o tredici anni, sul Chiangaro, con i nipoti di Marusaria, che abitava nel trullo di fianco a quello dello zio prete, giocavamo a “Mammà s’è persa la scarpa di seta” e a volte io e Enzo, mio cugino, giocando a nascondino, ci imbucavano in un minuscolo trullo disfatto e pieno di paglia che stava nel vignale di fronte; e se qualcuno dei partecipanti veniva ad ispezionarlo, avvertendo i passi, ci coprivamo, senza contare che potessimo disturbare il riposo di una vipera. Fin lì arrivava il russo di mio nonno Ciccio, che sonnecchiava al riparo di un’arcata di bouganville; e quando si svegliava veniva nel tratturo a fare da spettatore. Da grande, spesso con mia moglie Irene invitavamo a pranzo i parenti di Taranto, che arrivavano con una provvista di cozze, da fare con gli spaghetti, alla marinara e “arracanàte”; e durante il convivio bevute, battute di spirito, allegria. Poi, mica facevamo la pennichella, no, ma la ronda nel tratturo con un codazzo di figli e nipoti che un giorno improvvisarono una gara per assegnarsi il compito di pitturare il cancello del parcheggio delle auto, rosicchiato in più parti dalla ruggine. Spesso proprio su quello spazio, tra una cilindrata e l’altra, seduti attorno al tavolino fattomi da Ninì Ponte, un amico che aveva avuto un negozio di mobili sullo stradone, organizzavano partite a scopa, oppure, una decina di passi giù, alla fine del vialetto, a bocce. Non eravamo soltanto noi a tenere in vita il tratturo. Ma anche le mie vicine, Rosa e Maria, “cu ‘na mòrre de parìende c’avenène pùre da Sùse”. 

La vigna
Ci divertivamo tutti insieme, impegnati in una guerra armati di pompe d’acqua, e la sera, seduti a una tavolata, tutti scoppiettanti e in attesa di Graziella e Comasia con i panzerotti imbottiti di mozzarella, salsiccia, mortadella; e ammiravamo la luna, che forse si divertiva. Poi un altro panzerotto ciascuno; e, se si gradiva, un terzo. Un bicchiere o due di vino martinese e canzoni melodiche. Spezzando il brano, qualcuno domandava: “Stasera i cani di Giovanni non abbaiano, come mai?”. E i cani di Giovanni, sempre arrabbiati, inavvicinabili, aggressivi, si godevano in libertà il tratturo, senza fiatare. Qualche volta dal forno uscivano le pizze, profumate da inebriare. Non di rado, le confezionava mia moglie, bravissima e molto richiesta. Una sera dal buio del tratturo emerse Giovanni Montanaro, pantaloni corti che scoprivano le gambe sottili e un po’ incurvate; la testa potata, suonando a modo suo la fisarmonica, oggi cimelio del figlio Donato. La compagnia era legatissima, spiritosa, prodiga di barzellette. Un’altra sera rivolgemmo l’invito a Michele Annese e alla moglie Silvia Laddomada, di Crispiano.” Veniamo domani con una sorpresa; preparate le friselle”, disse il dinamico direttore di questo giornale, che è una fucina d’idee. 

Tratturo

E, puntuali come sempre, eccoli accompagnati dall’orchestrina Crispianapolis, da Donato Plantone e la moglie Ida, in mano una buona dose di delizie della città delle cento masserie. Altro che friselle. Irene accese il forno e prese in mano le pale, mentre sul barbecue profumavano salsicce e fegatini. Al termine, l’orchestra dette il via alla pizzica, scatenando i presenti: spettatori solo Lino Colucci, la moglie Isa, Elio Greco. In un ristorante sottratto alla nostra vista dagli alberi spararono i fuochi d’artificio in onore di una sposa. Ogni tanto veniva Francesco Mastrovito, che era di Martina ma viveva a Taranto da pensionato dell’Italsider. Aveva la testa dura come la pietra di Martina, ma buon intenditore delle cose di campagna. La terra rossa, dipinta dal grande Filippo Alto, gli dava serenità. In gioventù vi aveva lavorato. Una mattina lo sentii parlare all’alloro, un ombrellone che allungava la sua ombra sul tratturo, e gli chiesi il motivo di quel strano monologo singolare. Aveva fatto un innesto sul tronco del fico fasanese, ed era irritato per un errore scoperto da lui stesso poco prima. Imperdonabile, per uno come lui, che attribuiva la colpa all’albero. Lo confortai e se ne andò in fondo al tratturo, ferito nell’orgoglio, indifferente ai ragazzi che inseguivano le lucertole come avevano fatto io e Enzo settant’anni prima. Le prendevamo al cappio, utilizzando ciascuno una festuca. Catturavamo anche le cicale, operazione davvero difficile. Volevo bene a Francesco. Duellò con Gino, uno degli ospiti: per lui la pianta messa a dimora sul bordo del piazzale era origano; per l’altro, maggiorana, come risultava sulla busta dei semi acquistata al supermercato. La polemica non accennava a spegnersi, quando comparve Maria, consumata diplomatica: “Francesco che dice?”. “Origano”. “E origano è”. Ricordavo sempre i giorni del Chiangaro, e tutti stavano attenti, ritenendo quello che dicevo roba dell’altro mondo. 

Muro a secco
Ero d’accordo con loro, ma ripetevo quello che all’epoca della mia adolescenza mi aveva raccontato un vecchio contadino: ‘Lì, quasi sulla bocca del pozzo che sta sotto il noce, lo vedi?, a mezzanotte usciva un fantasma, e chi abitava da queste parti aveva paura solo a pensarlo. Poi un prete venne a benedire il luogo e il fantasma prese altre vie. Era di un morto ammazzato proprio in quel punto”. E l’uomo della pioggia? Mantello sulle spalle, cappello con la tesa larga, saliva sul trullo e la invocava. Il giorno dopo l’acqua veniva giù a barilate”. Quando ero piccolo, spesso la sera, verso le sei, gli amici del nonno venivano a trovarlo. E lui portava le sedie sul tratturo e chiacchierava con loro fumando la pipa, di quelle con il fornello di terracotta e la canna ricurva. Poi mi chiedeva di cantare quei brani della Messa imparanti facendo il chierichetto. Io mi schermivo e lui insisteva, promettendomi in cambio un piccolo grappolo dell’uva da tavola cara allo zio prete. Allora io intonavo il “Tantum ergo”, gli amici mi acclamavano e il nonno era contento. A volte, quando era ancora chiaro, io mi assentavo e andavo a scalare il ciliegio, che troneggiava a una decina di metri, raggiungevo la cima e da lì salutavo tutti, mentre il mio vecchietto sibilava: “Scendi, puoi farti male”. La comitiva sul Chiangaro continuò fino a quando non diventammo grandi. Io, ormai cinquantenne, ogni tanto tornavo, ma mi fermavo al crocevia che a sinistra porta in paese e a destra su via Mottola. In quel punto c’è ancora la vedovella, alla quale attingevamo l’acqua da bere, risparmiando quella del pozzo. Fotografo la fontanella e proseguo a destra, fermandomi davanti alla chiesetta in cui lo zio prete diceva messa il sabato sera. Il tempietto sfiora il trattuto. Mi amareggia vedere i tratturi desolati: la gente vi passa per entrare nei trulli, dove si svolge la sua vita quotidiana. Qualche volta deborda sul piazzale, dove molti fanno ancora festa. Da noi, su via Mottola, quasi tutti hanno oltrepassato per sempre il muro. Il primo è stato Peppino. 

Rosa

Ora la vigna la curano Rosa, la moglie, e Francesco, il figlio. Quando è tempo di vendemmia il tratturo un po’ si rianima: la vigna si sgrava, i grappoli prendono la via del palmento nelle bigonce e a dare una mano viene anche Franco, il fratello di Peppino, che sta a Varese, ma passa l’estate in campagna, nella città dei trulli. Tra una pausa e l’altra facciamo quattro chiacchiere, soprattutto con Franco, che è simpatico e cordiale, assaggiamo qualche chicco e mi viene voglia di gridare “Peppinooo!”, come facevo una volta, quando lui era vivo e a mezzogiorno mangiava il panino, seduto sul muretto del tratturo, con il fiasco di vino accanto. Se oggi non ci fosse Teodosio, che ha la terra al termine del tratturo, dopo la salita, non avrei nessuno con cui parlare, a parte i miei familiari. Teodosio passa con il camioncino, mi vede, scende, mi regala una cassetta di prodotti del suo orto, mi domanda come va la vita a Milano, mi dà qualche notizia del suo lavoro di costruttore… Sulla sua terra ha anche un deposito di materiale che gli serve per la sua attività. E’ una persona piacevole, cordiale. Ma il tratturo è deserto per il resto della giornata.

Martino Lenoci
Tra l’altro, qualche pezzo di muretto è crollato e i rovi si sono impossessati delle pietre: le pietre di Martina, che avrebbero tanto da dire sulla storia del tratturo. Che, come si sa, è stretto; e se due macchine si fronteggiano, una deve entrare in un varco aperto per il passaggio del trattore. Successe che la donna che guidava una cilindrata arrivata all’altezza di quel varco si rifiuto d’imboccarlo; uscì dall’abitacolo, gridando verso di me: “Tu’ si’ masculo e tu’ a fa’ màrce rète”: una marcia indietro di 300 metri con il rischio che al momento d’immettermi sulla provinciale fossi travolto da un bolide. Un passante grillò: “Di chi è la precedenza?”; e la disputa si trasformò in farsa. A risolvere il caso fu Beatrice, la figlia di Giovanni. Mi sono confidato con il professor Francesco Lenoci e lui ha ripetuto: “Il tratturo era un’”agorà”, piena di voci, di allegria, invaso dal profumo della campagna imperlata di viti, con le farfalle, che andavano di fiore in fiore; ricordi il macaone?”. Lo ricordo, sì, con i suoi colori bellissimi. Oggi la gente nelle campagne si riunisce ancora, ma pranza, cena, suona, balla nei trulli o sul piazzale. Una volta le feste si facevano anche sull’aia: grandi tavolate, con piatti eccellenti come li sanno fare le nostre donne e tanto nettare. Il tratturo viveva. Ora così lo si vede nei dipinti di un pittore nostalgico. Lenoci approfitta dell’occasione e mi fornisce una notizia: “Il direttore artistico del Teatro Arcimboldi è Sabino Lenoci… con lui e il regista Davide Garattini vogliamo portare l’opera nelle più belle masserie della Puglia Un amico mi sussurra: “Il papà di Lenoci, 99 anni, Martino, faceva il sarto: preciso, puntuale, bravissimo, un maestro. Se il giorno della consegna di un abito non aveva i bottoni, li prelevava da una sua giacca e li trasferiva sul manufatto. Quando la moglie, la compianta Maria, se ne accorgeva, amorevolmente lo rimproverava”. Martino è un uomo dolce, chissà quanto avrebbe da dire sulla sua Martina di una volta, e sul tratturo, lunga via erbosa, oggi solitaria, malinconica.








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