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mercoledì 2 febbraio 2022

Non una storia, ma l’elogio della due ruote

I CONTADINI PEDALAVANO

PER ANDARE A CURARE LA TERRA

Kodra sul velocipede

Mio zio Luigi e la moglie Donatina

In bici facevano 20 chilometri al

giorno. A tirare il trabiccolo erano

il cane “Ruscitto”(per il pelo rosso)

poi sostituito da Nerone.


 

 

 

Franco Presicci

Il giornalista Gianni Spartà
La sua bicicletta appesa nell’ingresso sulla parete bianca per lui è un cimelio. “Molti venerano una testa di cervo con il palco imponente; altri il ritratto del nonno bersagliere. Il mio orgoglio è la due rote che mi ha portato al lavoro per trent’anni, senza mai crearmi problemi. Adesso è acciaccata, ma non m’importa”. 

Il suo mezzo di locomozione ha le ruote con parecchie ossa mancanti, il manubrio bloccato, il telaio un po’ arrugginito, il fanale cieco, la sella logora. Funziona, forse, soltanto il campanello; eppure non la abbandonerebbe alla discarica neanche se lo costringessero con una pistola in pugno. I nipotini non la toccano, sapendo che per il nonno è sacra e la moglie non la spolvera. “Ci affezioniamo alle persone, ad alcuni rimaniamo fedeli tutta la vita, perché non a un oggetto come la bicicletta, vecchia compagna fedele?”. Antonio C. (niente nome, per carità: ho vissuto da ‘travet’ sempre nell’ombra e va bene così) parla di quella reliquia pacatamente, senza infervorarsi. Siamo amici d’infanzia, nella nostra storia abbiamo pagine di giornate trascorse in parrocchia, in via Giovan Giovine, a Taranto, a giocare a ping-pong, e non ci vedevamo da un bel po’. In una rimpatriata sono andato a cercarlo. E’ rimasto tale e quale, con gli stessi pregi e le stesse debolezze, i baffetti alla David Niven, una mosca sul mento, le orecchie piccole’, i capelli neri come il carbone. 

Il pittore Remo Brindisi

Un altro amico che fa l’avvocato: “Ricordi quante volte ti ho portato sul telaio in corso Venezia, oggi Viale Magna Grecia? Piaceva a entrambi quell’ampia distesa di verde che ha lasciato il posto a palazzi superbi, officine, botteghe, negozi, bar, la Concattedrale, il chiasso, la circolazione automobilistica spesso anarchica. Un’altra atmosfera: allora dominavano l’erba, il silenzio, la tranquillità, la pace: oggi le trombe rabbiose delle cilindrate, gli intasamenti, che lasciano indifferente il venditore di angurie parcheggiato con la sua bancarella ai bordi della strada. Arrivavamo alle 14, rientravamo alle 16, e ci mettevamo a studiare fino a mezzanotte”. Dopo qualche anno io me ne andai a San Severo, presso la famiglia, armoniosa, lavoratrice, generosa, degli zii Luigi e Donatina. Anche lì c’era una bicicletta: al ritorno dalla fatica quotidiana, alla Zamarra, terra concessa dall’Ente Riforma, lo zio la lasciava sulle scale, con la porta sempre aperta, perché a quei tempi la categoria dei “correntisti” (ladri di appartamenti) era di là da venire (e poi in casa non c’era niente che allettasse un eventuale malfattore. 

Il professor Francesco Lenoci in bici a Martina
Il pane c’era sempre: una cupola sostanziosa e fragrante che mio cugino Nicolino Buoncristiano, titolare di un forno a legna, dava tutte le sere alla suocera, che la teneva fra le braccia nel tragitto verso in via Venere come fosse oro strappato a una roccia metamorfica. La bicicletta dello zio la tirava un cane, Nerone, che solo per caso portava il nome del romano che si fece consacrare dio ed ebbe come precettore Seneca. Altra bici storica, finita in seguito in uno sgabuzzino, senza altri oggetti intorno. Zio Luigi non provava l’ebbrezza della corsa. Come a Martina Franca il maestro della fotografia, attore e poeta Benvenuto Messia, basso, sottile, scattante, ironico, fine dicitore, in testa un palmo di neve. Mio zio andava piano, perché i dieci chilometri tra casa e campagna alla sua età non erano una passeggiata, sia pure con l’aiuto del Fido. Era importante, la bici, nella vita del contadino. Per zio Luigi era il cavallo che doveva traportarlo assieme alla moglie e agli attrezzi a curare la vigna: appena 5 mila metri, che erano più rogne che altro. La bici era protagonista e comprimaria. In bicicletta si recava al lavoro anche mio cugino Antonio. 

foto di Daniela Alma

Abbascià in bici
Un tipo simpatico, come i sette figli di zio Luigi, scherzoso, renitente alle nozze, facile alla risata scoppiettante. Una sera fu fermato da agenti della polizia stradale, che guardarono l’anticume, lo definirono scherzosamente un pezzo da collezione risalente al 1860, dei primi tempi della trasmissione a catena, fecero la somma delle infrazioni commesse e stabilirono l’ammontare della multa. “Prendetela – rispose - vi pago con quella, e se ne stava andando. Un agente lo raggiunse e gli consegnò la copia del verbale. Antonio, Nenucce, per noi, era fatto così, non dava peso alle cose. Tutti i contadini possedevano una bici; e tutti per lo stesso motivo. Tommaso no, la sua terra era a due passi e non ne aveva bisogno. Papà Necole, ottantenne, campava vendendo l’acqua che prelevava alla fontana poco vicino dimenticando spesso i carichi che aveva fatto. Non aveva la pensione, perché aveva lavorato duro senza contributi. “Di mestiere “carreamandègne” (si caricava sulle spalle le botti), una bici non se le era mai potuta permettere. Il mio amico Gennaro G. l’adorava, la sua bicicletta. Un giorno d’agosto, tornando dal mare, gli si bucò una gomma e dovemmo tornare a piedi dal porticciolo, dalle parti di San Vito, in città, la splendida Taranto. Durante il percorso elencò tutti i pregi del suo “cavallo” meccanico. Gian Paolo Ormezzano da qualche parte ricorda che la prima bicicletta l’ha disegnata Leonardo. Altri hanno ricostruito la storia e la leggenda di questo mezzo di traspoto, parlando anche del velocipede dei Michaux, padre e figlio, la cui ruota anteriore, la motrice, aveva un diametro fra i 90 e i 150 centimetri. Ma ve l’immaginate oggi uno strumento del genere zigzagare nella confusione di una città come Milano, dove vivo da sessant’anni? Una quarantina di anni fa un fabbro del “borg di formaggiatt” a Milano costruì un velocipede di ferro, sul qual salì anche il pittore albanese Ibrahim Kodra, che amava provare tutte le novità. Beato chi l’ha inventata, la bicicletta. Che non è soltanto strumento di lavoro. Su di essa sono nate migliaia di storie d’amore; ma anche di tradimenti, delusioni, sogni. Gli innamorati andavano anche in tandem soprattutto in campagna, cantando, allegri, inebriati dal sole e dalla passione. Sulla bicicletta sono state scritte canzoni famose (“Ma dove vai bellezza in biciletta”, in voga nel dopoguerra e anche dopo). Terminata la clausura anticovid molta gente a Milano ha ripreso la bicicletta. 

In bici sull'alzaia Naviglio Grande

La si vede soprattutto lungo le sponde del Naviglio Grande, e si è pensato che stesse per ritornare di moda. Ma qualche bici circolava già prima. Il fotografo del “Corriere della Sera” e poi prestigioso gallerista Mimmo Dabbrescia immortalò, per uno dei suoi libri (“Visti da vicino”), il pittore abruzzese, Remo Brindisi (con studio a Milano), quello delle dita dei soggetti come zampe d’aquila, mentre pedalava in vacanza. Un sogno: Tutti sulle due ruote allegramente, le auto in garage, fine del fracasso da cardiopalma dei clacson. Già il Comune di Milano aveva avuto l’idea di parcheggiare biciclette nei vari quartieri: biciclette gialle, che i cittadini, utilizzando un meccanismo di identificazione, prendono in prestito per farsi un giro per la città. Qualcuno, per sottrarsi al rischio di essere travolto da Fiat, Ford eccetera, dove non c’è il percorso riservato ai ciclisti, va sul marciapiedi, suscitando le proteste dei pedoni. Ad affiancare le bici, fra polemiche e incidenti, sono spuntati i monopattini, ma sono ancora un piccolo esercito sparso nel traffico cittadino.

Biciclette

Meglio la bici, si dice, una valanga di bici, messa anche a difesa dallo smog. Si svegli la memoria: la bicicletta è stata anche patriottica: ha portato le staffette partigiane sui monti, ha affrontato il coprifuoco durante la guerra. Dosolina, già contrabbandiera, trasferiva in Svizzera i bambini ebrei in bicicletta. In bici andava Peppone. Nel Museo dedicato a don Camillo a Brescello è esposta la bici che cavalcava il prete battagliero che mandava in bestia il sindaco comunista. All’epoca di “Ladri di biciclette”, del ’40, il film di Vittorio De Sica del ’48, a seconda del tipo il prezzo di un esemplare oscillava tra le 25 e le 30 mila lire.

La Graziella
Negli anni 60 acquistai una “Graziella”, che potevo smontare e portare sino al quinto piano, dove abitavo. Lavoravo al quotidiano “L’Italia” e in bici raggiungevo i circhi equestri, i teatri per le anteprime, gli appuntamenti con personaggi dello spettacolo per un’intervista… Negli anni 60 In Graziella arrivai al Vigorelli per ascoltare i “Beatles” che mandavano in visibilio le ragazzine ansiose dell’autografo sul reggiseno. Alla Stramilano, pur essendo una marcia, c’è sempre chi pedala, come il pittore che correndo fa un quadro sulla folla dei cinquantamila. Insomma, la bicicletta è desiderata, amata, sognata, ammirata. Molti la considerano un mito. La rivoluzione i cinesi l’hanno fatta in bici, come ricordò Ugo Ronfani in un pezzo arrivato secondo ad un affollatissimo concorso indetto dall’Associazione nazionale fabbricanti di due ruote, una quarantina di anni or sono. La bicicletta trionfa sui francobolli, sui calendarietti dei barbieri, sulle figurine della Liebig. C’è persino un giuoco del Giro d’Italia, simile al giuoco dell’oca con il percorso in bici dalla partenza al traguardo, con immagini di pedalate a ruota libera, cadute, ruote bucate e in riparazione. Io amo la bicicletta, ma a parte il periodo della Graziella, non ci vado. Ne vinsi una, nello stesso concorso a cui prese parte il vicedirettore de “Il Giorno”, ma la regalai, condizionato da una lontana esperienza traumatica: quando ero un mozzicone di sigaretta un amico acconsentì a farmi fare un giro e finii sotto una carrozza. Mentre il mio amico Ruggero Ruggieri, all’età di vent’anni, fece in bici Taranto Bari e ritorno. Mio zio Luigi in paese non andò mai in bici. Benvenuto Messia ha portato all’altare la figlia il giorno delle nozze sul telaio della sua bici, sulla quale schizza tra le vie di Martina e spesso si è accodato al Giro d’Italia, tenendo il ritmo dei campioni. La due ruote ha un’esistenza gloriosa. Tanti sono stati gli inventori dei diversi esemplari. Nel 1894 il Touring Club Italiano fu battezzato da un manipolo di appassionati di questo geniale congegno, che è anche avventura, libertà. gioia, sport, spensieratezza. La bicicletta corre dovunque, su qualunque tipo di strada, in discesa e in salita. La bici dà emozioni anche a guardarla nelle opere degli artisti consacrati. “Il ciclista” di Maio Sironi; “I ciclisti” di Aligi Sassu, “Il Giro” di Nino Corazza… A Martina dal Chiancaro allo stradone mio cugino andava in sella. Un vicino attraversava i tratturi in groppa ad un asino. Tantissimo tempo fa, arrivato in treno da Taranto, per raggiungere la campagna dello zio prete, mi feci coraggio e la presi in affitto da “Giorno e notte” (non chiudeva mai), il medico delle bici con bottega “sott’a San Frangische”. Che fatica sulla salita! La feci a piedi, con le mani sul manubrio.








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