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mercoledì 6 luglio 2022

Dieci anni dalla morte di Nicola Caputo

UN GRANDE, APPASSIONATO CICERONE

FA RIPERCORRERE LA CITTA’ DI UNA VOLTA

 

Nicola Caputo (Foto Renato Ingenito)
 

Giornalista e scrittore colto,

autore di molti libri sulla Bimare,

che per lui non aveva segreti.

In “Vieni c’e una strada nel

borgo”, pubblicato dall’editore

Scorpione, accompagna il lettore

in una camminata lunga e

istruttiva, procurando

tanta  commozione.

 

 

                                                     Franco Presicci

Nasse indr'o strìttele

“Vieni, c’è una strada nel borgo. Taranto com’era”. E’ il titolo di uno dei tanti bellissimi e interessantissimi libri di Nicola Caputo, giornalista e scrittore sensibile, attento, appassionato cultore della storia, delle tradizioni popolari, degli usi, costumi tarantini. E un vero gentiluomo. Mi aveva mostrato questo testo prezioso, affollato di immagini d’epoca, Paolo Aquaro, di Martina Franca - giornalista in pensione dopo una lunga e prestigiosa carriera a “Il Corriere del Giorno” e allora direttore de “La Voce del Popolo”, periodico che aveva preso il titolo da un glorioso e battagliero settimanale dei fratelli Rizzo - una sera che mi aveva invitato a casa sua in pieno centro storico nella città dei trulli. Paolo non era facile agli elogi, anzi: se un fatto, una situazione, un evento avevano delle pecche, lui ne scriveva senza peli sulla penna. “Questo è un libro che tutti quelli che amano la Bimare dovrebbero leggere. E’ un’opera, la seconda di due, che fa vivere tempi che non ci sono più – disse – merita, dunque, che tu lo recensisca”. E telefonò a Nicola. “Franco Presicci? – fu la risposta – visto che si trova a Martina, venga domani in via Berardi, sotto la sede del tuo periodico. Intanto salutamelo caramente”. Il giorno dopo, alle 10 precise, lo vidi arrivare da corso Umberto e gli andai incontro. Eccoti il libro”. Mi fece domande sulla mia attività professionale a Milano; io gli dissi che una volta lo avevo seguito nel suo racconto della Settimana Santa mentre si svolgeva la processione e ci stringemmo la mano. Attraversò la strada di fronte al convento delle suore, svoltò verso via Di Palma e scomparve. Io tornai a Martina, dove stavo trascorrendo le vacanze, aprii subito quelle pagine e iniziai un viaggio ideale nella mia città di una volta, avendo come cicerone un collega che della Bimare sapeva tutto, il presente e il passato, angoli, negozi, case patrizie, personaggi, storie, negozi famosi, figure caratteristiche del tempo che fu… Nicola Caputo era una guida esperta, sicura, disponibile.

Artigiano a Taranto Vecchia
Narrando, dava un piacere immenso, persino gioia: di una piazza, che come si sa è il luogo degli incontri, delle conversazioni, delle polemiche, delle liti, delle rivolte, snocciolava ogni momento, creando emozioni. Piazza Fontana, con l’orologio che ha ispirato al poeta Diego Marturano una poesia toccante, poesia che Antonio De Florio - al timone del gruppo “Foto Taranto com’era” su Facebook - ha riproposto in uno stupendo video. Nelle parole di Nicola, il lettore la vede com’era, questa piazza che si apre di fronte alla “Dogana”, la percorre entrando in un’altra epoca. “Fu denominata prima Maggiore, perché rappresentava l’unico respiro, l’unico sorriso di una Taranto aggrovigliata fra vicoletti, case di popolo, palazzi padronali, chiese, conventi; capriccio e varietà di stretti budelli intrecciati gli uni agli altri. Divenne poi piazza Mercato, con tutto quel ben di Dio che arrivava ogni giorno dalle campagne; infine piazza Fontana, grazie all’acqua che zampillava in alcune conche piccole e grandi…”. E la piazza posta tra le vie D’Aquino e Di Palma? Carica di episodi belli e brutti. “Inizialmente – ricorda Caputo nel volume - si chiamò Giordano Bruno; poi, d’accordo federale e podestà, Italo Balbo; in seguito ancora Giustizia e Libertà…”; infine sulla targa comparve il nome di Maria Immacolata…”. Se non ricordo male, fu l’arcivescovo Bernardi a prendere quella decisione, anche per spegnere le turbolenze accese in città tra le truppe sparpagliate del regime e gli altri.
 
La Cattedrale
Dalle piazze ai palazzi con le loro facciate, i loro balconi con le cariatidi, i mascheroni, i fermaportoni, la data di nascita dello stabile in rilievo. Caputo apre le porte degli interni, mostra e descrive gli arredi: un letto matrimoniale smaltato con dipinti sulle testiere, un “separè” primo 900 a tre ante con pomelli in tela decorata… Si sofferma persino sulle maniglie, sui pavimenti, sulle stufe. Amante dei dettagli, li osserva e li delinea. Poi presenta i forni a legna, ricordando i tempi della guerra e “…’u pane cu ‘a tessere annonarie”: la spesa con la “libretta”; le ostriche, le “còzze gnòre” e le “còzze pelose”; le signorine del bancolotto che segnavano i numeri intingendo nei calamai una penna che era “una lunga asticciola con tanto di pennino Cavallotti, e rispondevano alla vecchietta: “Segnorì’, quante fàce ‘a desgràzzie?”. E ‘U sànghe?”. “E ‘u puèrche”. Il botteghino allora stava nella città vecchia; e i numeri vincenti li distribuivano crocchiando gruppi di ragazzi scatenati. Un viaggio affascinante, durante il quale il lettore divora notizie, particolari persino sulle case di tolleranza, chiuse il 20 febbraio del ’58, in virtù della lege Merlin. La memoria del cronista ricorda quelle di corso Umberto, la più lussuosa; e quelle d via Regina Elena, le due di via Leonida, di cui una era definita il “casermone”, frequentata soprattutto da marinai. “Ragazzi, allora?”: la voce della “maitrèsse”, che stimolava i perditempo a consumare. C’è un libro con il titolo che esorta i camerati a non fare flanella“. Un viaggio reso più appassionante da tutte quelle foto che rendono ariose le pagine, nelle quali non mancano i vecchi mestieri: “’u mèst de le caùre”, “’u ‘mbrellàre”, “’u seggiàre”, “’a levatrìce”, l’uomo del ghiaccio: “In tempo di guerra il ghiaccio era quasi impossibile trovarlo.
 
'A vrascère
A volte però veniva dato gratuitamente, e allora si vedevano uomini, donne, ragazzi correre verso il distributore con i recipienti più capienti: “’u uacìle”, “’nu sìcchie”, “’na cadàre”. Che gioia attraversare queste strade scoprendo elementi insospettati o ascoltati vagamente dai nonni, seduti attorno “’a vrascère”, magari la notte di Natale aspettando la nascita del Bambino. E “incontriamo” i portoni non ancora con i campanelli, ma con i battenti di ferro, qua e là lavorati. I portoni del borgo antico e di quello che si offre al bacio del mare al di là del ponte girevole: portoni spesso con i numeri civici scritti a mano libera.
 
Copertina del libro

’U strecatùre
 

 

 

Quante informazioni, in questo libro da guardare e riguardare. Le immagini ti aiutano ad immergerti negli ambienti della Taranto che fu. E di quella che sopravvive, bellissima ieri e bellissima oggi, dal Mar Piccolo al Faro di San Vito, a viale Venezia, un tempo campagna e ai giorni nostri arteria chiassosa e affollata, con tante architetture. Nicola Caputo, che tra l’altro veniva chiamato per accompagnare con la sua voce al microfono la processione dei Misteri e altre, riproponendo la storia e perfino le botteghe che hanno creato le statue; parla a lungo anche di questi cortei aperti da “’u trucculànde”. Non sfuggono alle sue rievocazioni nemmeno i vespasiani, poi smantellati per ragioni di decenza, addirittura i chiusini, quelle lastre quadrate di acciaio o di ghisa messe a copertura dei pozzetti di fogna stradali: a Taranto se non antichi, molto vecchi.

Il canale e il ponte
 
Chi, come me, ama Taranto ha sicuramente avuto tra le mani quest’opera edita in veste elegante da Scorpione, e l’ha goduta, anche commuovendosi, grazie anche allo stile arioso, limpido, fresco, scorrevole come un ruscello, di Nicola Caputo; alle foto, alle cartoline d’epoca che costellano il volume: la Villa Peripato; il laboratorio della rinomata pasticceria di Raffaele Fornaro, anni 20; un manifesto pubblicitario della “Regia azienda demaniale del Mar Piccolo”, riconosciutissima in Italia per la produzione di squisiti fritti di mare; cappelli, ventagli, le prime auto, le carrozzelle, “’ u sciarabballe”, i giornali diffusi a Taranto: “La Tribuna Illustrata”, “Super Marc’Aureio”, “Il Vittorioso”, la “Domenica del Corriere”, “l’Intrepido” ; i biglietti augurali, il pianino, con il pappagallo che estraeva i foglietti con l’oroscopo da una cassetta; gli stabilimenti balneari: “Elena”, “Sirena”, “Nettuno”, “Lido Taranto”; le feste della matricola (che in qualche città si svolgono ancora); i balilla. E poi l’indimenticabile “La Sem” del cavalier Messinese, in via D’Aquino, con i tavolini per i signori sul marciapiedi di fianco al cinema Fusco. (“Quando l’appuntamento era La Sem via D’Aquino era già da un pezzo il salotto del Borgo”). Che più? Ah, il grammofono a tromba e il suo tempo (i solchi magici mandavano le voci di Luciano Tajoli, Achille Togliani, Nilla Pizzi, Beniamino Gigli…). E la ronda? Gli oggetti (“’u strecatùre”, “’u lìmme”, “l’assucapànne”, “’a zeròle smaltàte”. “’a cadàre”, “’u mòneche”, “’u scarfalìette”…). No, non stanca questo pellegrinaggio per la città dei due mari, d’a Duàne a San Catàvete, da “’u pònte de pètre” “’o sciardìne de le còzze”; “d’a chiazze Marie ‘Mmaculàte” a” l’arsenàle”… Grande merito di Nicola Caputo, per questa lunga, attraente, istruttiva, edificante camminata a ritroso in questa Taranto amata da poeti e scrittori, indigeni e stranieri. Una città luminosa, straordinaria, dignitosa, orgogliosa. Una terra che, nonostante l’età, non ha bisogno di cosmetici o di chirurghi estetici per essere ammirata e adorata, celebrata. Una signora d’antan che conserva intatto il suo splendore. Nicola Caputo non c’è più. La sua voce si è spenta 10 anni fa, eppure è ancora vivo nel ricordo di tanti concittadini. Compreso il mio. Un mio conoscente, fans da sempre di Nicola, ,i ha detto: “Ere grànne. Mo’ stè’ ‘u figghie”.








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