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mercoledì 8 febbraio 2023

Il “Mal di Galleria” di Giuseppe Marotta

Galleria
  

VIA COPERTA DOVE LA GENTE AMA  FARE SPENSIERATI “QUATER PASS”

 

Lo scrittore napoletano, che amava Milano,  le ha dedicato libri bellissimi, da 

“A Milano non fa freddo” a      “Le Milanesi”. 

Vinse il premio Bagutta, scrisse altri capolavori, come “L’oro di Napoli”, “Gli alunni del Sole”. 

Morì a Napoli, la città dei mandolini.

 

Franco Presicci

“Via Pallonetto a Santa Lucia, dà il nome a tutto il quartiere.  Pochissimi gli estranei, contrariamente agli altri vicoli di Napoli, affollati ormai di extracomunitari. Il Pallonetto è un’isola che riesce ancora a difendere la sua identità.

Galleria Vittorio Emanuele
La gente parla per proverbi, aforismi, sentenze, il concentrato di secoli di esperienze, di antiche lotte per l’esistenza, di strenua difesa contro gli stranieri, che i napoletani hanno sempre a loro volta conquistato, domato”. Così scrive Marotta in uno dei suoi libri più belli, “L’oro di Napoli”, e Luigi Argiulo riporta nelle sue pagine de “I vicoli di Napoli”  (2003), un libro, edito dalla Newton & Compton, godibile da cima a fondo: un racconto scorrevole tra mille dettagli, notizie anche sul  teatrino di quello e di altri rioni napoletani, dove rimangono le tracce di Giuseppe Marotta, “che voleva bene alla povera gente, conosceva profondamente la realtà dei vicoli, si sentiva uno di loro che aveva fatto fortuna”. Il Pallonetto in questi ultimi tempi non è rimasto tale e quale. Ma è sempre abitato da personaggi simpatici, caratteristici, creativi, con i quali vale la pena scambiare due parole. 

Feltrinelli
Lette tutte le pagine, prendo a caso altre frasi di Argiulo, giornalista e saggista: “In fondo nei libri di Marotta viene riconfermata, ancora una volta, la profonda grecità dei napoletani: la voglia innata di discutere, di filosofare, spesso di sofisticare. Come gli allievi di Socrate…”, che prendevano lezioni passeggiando nei viali. Giuseppe Marotta, osservava e coglieva i suoi personaggi tra quelli che incontrava, e, come   ne “L’oro di Napoli”, del ’47, delinea brani di vita di ogni giorno nella città partenopea. Per esempio, nel dopoguerra ogni famiglia aveva, come ospite privilegiato, l’anglo-americano, che In cambio di un po’ di attenzione ogni sera portava sigarette, carne in scatola… Il “conquistatore conquistato”. Giuseppe Marotta, a Napoli, sua città natale, abitò in via Capodimonte; nel ’25 si trasferì a Milano, dove, dopo una lunga gavetta, scrisse su periodici e poi su “Il Corriere della Sera”, pubblicò per Bompiani, s’impegnò nel cinema, inventò testi per canzoni, partecipò al Festival di Napoli, vinse il premio Bagutta, faceva per il settimanale l’Europeo di Rizzoli critiche cinematografiche.

L'ingresso della Galleria
Amava profondamente la città che lo ospitava, tanto che le dedico pagine come “Le Milanesi, nel ’62,” e “A Milano non fa freddo”, “Mal di Galleria”. Si definiva un terrone prestato a Milano. Nel ’61 tornò a Napoli, e due anni dopo morì. Nel capoluogo lombardo aveva un amore segreto: la Galleria Vittorio Emanuele, completata nel 1878, quasi contemporaneamente al ristorante Savini, nato con il nome di Birreria Stocker, come ricorda nel suo volume “Milano, amore mio” Gaetano Afeltra, nato ad Amalfi e giunto a Milano nel ‘38.  L’impiccione della Galleria, personaggio importante del racconto di Marotta, si scaldava al suono delle campane di San Fedele, vicinissima alla Galleria, il salotto di Milano, il luogo dei famosi “quater pass”, degli incontri, delle lunghe soste davanti alle vetrine, delle sedute ai tavoli dei locali, degli appuntamenti d’affari e d’amore. In “Mal di Galleria” l’impiccione dell’Ottagono dice che quella è casa, ufficio, strada e ombrello, “è tutto per me”. La Galleria era per lui un “magico fluido”. Della Galleria sapeva ogni cosa. Come Paolo Biffi, il primo ad aprire in quella via coperta un caffè-ristorante-birreria. Da lì vedeva scorrere la Milano che faticava, quella che ciondolava, la Milano che risparmiava e quella che scialacquava.
 
Piazza della Scala

La Galleria che mette in comunicazione le piazze più famose della città: Duomo e Scala, ed è forse la più bella del mondo. I milanesi vi si trovano a loro agio e i forestieri restano ammirati soprattutto dalla cupola, scattano foto con il telefonino e le mandano a casa, per dite ai familiari: “Guardate dove mi troco. Che spettacolo!”. Un gruppo di studenti del liceo Parini, durante la prima guerra del Golfo, attraversando l’architettura con il loro complesso musicale, “La banda degli ottoni a scoppio”, il volto cosparso di cenere, inscenò un funerale ispirato al conflitto, sbucando in piazza del Duomo. Due poliziotti si fecero avanti per fermarli, ma si fecero convincere da alcuni cittadini a desistere. Del resto la musica coinvolgeva. Spesso la Galleria è stata luogo di manifestazioni di ogni tipo. Inondata dalle grida degli scioperanti, dai comizi dei politici, dagli urrà per le vittorie sul campo sportivo, gli evviva ai re delle pedate. 

Savini

“Le grandi firme, i nomi della ricchezza o del lignaggio, dell’arte (Chaplin, Hemingway, Sinatra, la Callas, Marco Praga, D’Annunzio, Marinetti…n.d.a.) si ritrovavano ai tavoli del Savini, in un’atmosfera ovattata ma sempre vitale. Se anche l’Italia – parole di Gaetano Afeltra – ha avuto la sua Belle Epoque, a Milano è nata qui, a due passi dalla Scala, che dopo le grandi prime continuava lo spettacolo mondano trasportandolo dalla sala del Piermarini alle sale del Savini”. Nelle prime pagine di “Mal di Galleria” il protagonista invita la signora Tullia a casa sua , e dice: “Venga a prendere un tè nel mio studiolo, quel portino invisibile accanto alla libreria… Non avete un’idea, macchè, della mia tana in Galleria. Una elemosina di anticamera, circolare, una sottocoppa, immette nella stanza nella quale dormo, ricevo e dipingo, il vano più spazioso, in definitiva, è il bagno, seppure ingombro di tele, di barattoli, di cianfrusaglie. Ma c’è un odore, per me squisito, di Galleria, di città, di agiatezza, di vicende gradevoli, ingarbugliate, imprevedibili, c’è insomma un odore tutto milanese, del centro, del cuore di Milano, che mi giova, che spesso mi eccita come una droga”. 

Savini 2

Allora in Galleria c’era la Stipel e lì l’impiccione dell’Ottagono aveva intravisto Tullia la prima volta. Lui apparteneva alla Galleria e la Galleria a lui. Per lui la Galleria era il luogo dei mille respiri, delle innumerevoli voci. Se qualcuno faceva ritorno a Milano dopo una lunga assenza, è nella Galleria che lo si incontrava. In quell’atmosfera, in quei quattro bracci che s’incrociano al centro l’impiccione si sentiva un re: la Galleria era domicilio e riparo, ombrello, tana. Mai e poi mai avrebbe rinunciato al fascino della Galleria, che gli apparteneva come lui apparteneva alla Galleria. La Galleria lo nutriva: “cambiava dollari e sterline per i turisti, faceva un po’ di bagarinaggio per le opere in musica, il “claquer” per l’”Odeon…”.  E in Galleria ascoltava le campane di San Fedele, che avevano il solo difetto di non suonare in diletto. In Galleria un giorno del ’62 vidi uscire dalla Stipel un avvocato di Taranto, don Mario Rossano, che mi aveva tenuto nel suo studio perché prendessi dimestichezza con le aule della pretura e con gli elementari meccanismi attraverso i quali si tentava di far onorare le cambiali (erano gli anni 60). Lavoro che lui non poteva seguire personalmente anche perché era un legale di livello, famoso e rispettato, preso da impegni molto più importanti e complessi.

Il Campari

Era soprattutto un gentiluomo martinese, di una preparazione professionale fuori del normale. Ci abbracciamo, il maestro e il discepolo, quindi mi portò a bere un caffè al Campari, che con il Camparino ha la stessa età della Galleria. Per me, don Mario, era un padre, un mito; per tutti un signore. Altrettanto Ruggero Ruggieri, suo collega, cognato, compagno di studio. “Che bella, questa Galleria! Mi dicono che durante la sua costruzione l’architetto Giuseppe Mengoni cadde dall’impalcatura e morì”. Già. Un turista giapponese, sbrigliandosi in un italiano ammaccato, mi chiese del “ratin”. Carlo Castellaneta avrebbe risposto: “El ratin”? Un topo, ma non il roditore che va alla ricerca del formaggio”, bensì un meccanismo a molla che in tempi molto lontani accendeva tutta l’illuminazione, a gas. Gli amanti dell’opera lirica, spentesi le luci della Scala, facevano le ore piccole nei locali d’alto rango aperti sotto quella cupola che ha le stesse dimensioni di quelle di San Pietro.

Piazza Duomo

Alcuni ne uscivano quando in piazza del Duomo comparivano i netturbini con la scopa in mano e circolavamo le falene  a quell’ora ancora in circolazione o in un locale sotto i Portici a sorseggiare una bibita. Anche a quei tempi davano prova di scaltrezza le cosiddette “mani di velluto”: i borseggiatori, in servizio ancora ai giorni nostri sui tram, nel metrò: una categoria sempre più attiva e numerosa. Quando vado in Galleria per ammirarla, come il Presidente Sandro Pertini, che sbirciava soprattutto le vetrate della cupola, rimango trasecolato dalla sua  a magia. Lo stesso Margherita Agelus in “Passeggiate Milanesi” della Celip: “E dire che il progetto di Giuseppe Mengoni era quello che entusiasmava di meno”. Poi i cittadini si ricredettero. La Galleria Vittorio Emanuele è splendida.

Biffi

 

Estasiata, un’amica e collega, innamoratissima della  città del Porta, di Emilio De Marchi, di Giuseppe Arcimboldi, di Cletto Arrighi, pseudonimo dell’avvocato Carlo Righetti, autore tra l’altro del testo teatrale “El barchett de Boffalora” e dell’“On milanes in man” (1870), di Giovanni Berchet patriota e poeta; della Milano di Silvio Berlusconi, di Giovanni Borghi, il re dei frigoriferi, nati in un quartiere che almeno un secolo prima di loro era poco raccomandabile, mi diceva: “In questa strada coperta, elegante, pianta a croce, il braccio principale lungo 196 metri, la cupola un diametro di 39 metri e alta 47, luminosa e ricca di librerie, ristoranti, un negozio di stampe antiche, uffici, vetrine con capi di abbigliamento di lusso, la Milano del Piccolo Teatro e del Gerolamo, dove ancora echeggia la voce di Piero Mazzarella, “lega” due gioielli, il Duomo e la Scala, i milanesi vi trascorrono ore, la sera, il sabato, la domenica. Giuseppe Marotta, ben sapeva – affermava un amico zigzagando per evitare i colombi padroni della piazza, gioco per i bambini ma spesso fastidio per i grandi, che quella Milano – la Milano di “Mal di Galleria”, non c’è più, spazzata via dall’abitudine dei meneghini di cambiare, a volte bene a volte male. Nelle sue parole echeggiavano quelle di Oreste del Buono, profondo conoscitore di Milano e delle opere letterarie. Eppure chi le ha voltato le spalle per tonare a casa o per trasferirsi a Zurigo o a Parigi o chissà dove, prima o poi è qui che ricompare, preso dal “mal di Galleria”, come la Blixen dall’Africa.
Adorata Galleria, salotto di Milano, fiore all’occhiello di Milano, perla di Milano, dove sbocciano altri gioiellini. Tanti.  
                                                                                


     

  

 
















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