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mercoledì 9 marzo 2016

Franco Presicci, spericolato cronista in terra e in cielo


Presicci, Bergner e la moglie dell'amm.re del. Henkel

Dalle notti trascorse nei viali di Milano al volo in mongolfiera, interrotto dal temporale, per il quale si è meritato il titolo nobiliare di “Principe di Lenno” 

 

Incontri con la malandra in locali malfamati. La medaglia con l'immagine della Madonna regalata dalla donna
che aveva abbandonato il clan per farsi suora laica. 

 

Franco Presicci 


Peripatetica sulla circonvallazione
“Non dimenticherò facilmente quel cronista…”, scrisse Gigi Gervasutti sul quotidiano di Varese “La Prealpina”, che dirigeva. Un cronista spericolato, e a volte anche un po’ incosciente. Accettò d’incontrarsi per un’intervista, verso mezzanotte, con una “dura” in una cantina tetra e molto mal frequentata nell’estrema periferia di Milano, pur non escludendo che potesse essere una trappola per qualche articolo non gradito (e invece ricevette in regalo una medaglietta con l’immagine della Madonna dalla donna vestita da suora laica, “perché convertita dopo aver sentito la voce di Gesù mentre, pistola in pugno, andavo a vendicare un compagno chiuso in cella”). Bussò alla porta di un brigatista appena arrestato e fu respinto minacciosamente da una giovane impetuosa. Macinò chilometri alla ricerca di un ex rapinatore per convincerlo a parlare a volto coperto della sua carriera in televisione nella trasmissione “Fuori Orario” condotta da Davide Riondino, e concluse il percorso in un locale affollato di giocatori d’azzardo che gli puntarono contro occhi torvi e intimidatori. Un giorno di Pasqua andò a casa di una famiglia malavitosa per rivolgere domande su uno dei figli finito in carcere con l’accusa di aver partecipato a una sparatoria, e gli si parò di fronte un mastino, la madre, che digrignava mostrando pugni di ferro. Rischiando di essere riconosciuto, trascorse notti nelle bische all’aperto per osservare il movimento. Nel febbraio dell’81 fu un riverito e temutissimo capoclan a chiedergli un incontro al termine di un’udienza in tribunale.
Lui la cronaca amava farla così. Se un informatore lo svegliava alle 2 di notte per avvertirlo di un delitto, si alzava, telefonava al fotografo di un’agenzia, che passava a prenderlo, e via verso il luogo del fattaccio.
E stava attento a ogni particolare, persino alla marca del pacchetto delle sigarette lasciato sul cruscotto, se le armi avevano colpito il bersaglio al volante; o al numero dei tavoli e al cibo rimasto nel piatto, se la vittima era stata sorpresa al ristorante; o addirittura allo stato del marciapiede, al numero dei negozi e all’illuminazione della strada teatro del regolamento dei conti. E faceva domande ai “detectives”, oltre che ai presenti, che potevano aver visto una persona sospetta, l’ora esatta degli spari o conoscere notizie utili sulla vita della vittima. Il fotografo, Dante Federici, non era di quelli che, scattate un po’ di foto, diventava impaziente. Sapeva che la notte era ormai finita anche per lui, dovendo subito andare in camera oscura e stampare.
Decollo aerostati
Il telefono squillò di notte anche quando i sequestratori liberarono un ostaggio; quando la polizia arrestò un “boss” inafferrabile; e quando, nel febbraio’85, stavano per mettere in manette l’ex fidanzata del Vidocq milanese che aveva tentato di evadere dal carcere di Maiano di Spoleto; appurando qualche giorno dopo che non era lei la ragazza vista aggirarsi sotto le mura del penitenziario in attesa dell’evento, Quella volta il cronista svegliò all’alba il vicedirettore del giornale, Enzo Catania, uomo dalle decisioni immediate ed efficaci, sentendosi dire di farsi prendere subito dall’autista e partire. Catania aveva un lungo e brillante “curriculum”: a vent’anni si era catapultato attraverso una finestra nella stanza di un posto di polizia in cui erano trattenuti dei mafiosi appena acciuffati e a 31 da inviato speciale del settimanale “Tempo Illustrato” diretto dal barese Nicola Cattedra in sella a un mulo aveva girato l’Aspromonte con il mago dell’obiettivo Uliano Lucas.
Enzo Catania in sella al mulo sull'Aspromonte 45 anni fa
Era avvincente lavorare di notte. Percorrere la circonvallazione esterna per un’inchiesta sulla prostituzione, raccogliendo storie di minorenni che avevano scelto liberamente il mestiere antico; di maggiorenni costrette da avidi magnaccia, che lottizzavano i marciapiedi… Scoprì un individuo “protettore” della propria moglie e di una batteria di “professioniste”; la ragazza tossicomane che in attesa dei clienti leggeva “Topolino”, e il travestito “Filippa”, che si vantava di essersi collaudato a Parigi.. Quando il 4 aprile dell’81 la polizia arrestò i brigatisti Moretti e Fenzi nei pressi della stazione Centrale, il cane da tartufi passò tutta la notte sulla strada per rintracciare il covo al quale i due erano diretti. Una soffiata gli indicò una casa di ringhiera, dove, al quarto piano, erano appostati cinque o sei investigatori speranzosi di poter catturare altri terroristi. Poi andò a casa di Moretti, ma il citofono
Lago di Como dall'alto
rimase muto. Lo incontrò anni dopo nel carcere di Opera al termine di una rappresentazione teatrale e si fece dare da lui una fotocopia del discorso che aveva tenuto sull’iniziativa. E fece uno “scoop” quando lo stesso personaggio ottenne un permesso di pochi giorni da trascorrere nell’abitazione di un amico. Sono indimenticabili quegli anni. E anche dolorosi. L’8 gennaio del 1980 sotto il ponte di via Schievano i mitra crepitarono contro tre poliziotti del commissariato Ticinese: Santoro, Tatulli e Cestari; rientrato in servizio dopo un infarto proprio quella mattina. Una settimana prima i tre erano stati a cena con i colleghi e il cronista in una trattoria di piazza Sant’Eustorgio. Santoro non era giocoso come al solito: forse per un presentimento.
Febo Conti legge i nomi degli equipaggi
Ma la memoria libera anche le festose domeniche della Stramilano dei 50 mila, tra i colori dei pettorali firmati dallo stilista Ottavio Missoni, persona cordiale e scherzosa, e dai cartelloni, dalle bandiere, dagli ombrelli fioriti sulla marea scatenata ed esaltata da migliaia di spettatori contenuti in piazza Duomo dalle transenne e ansiosi di vedere le prime file della maratona rompere l’argine umano e schizzare verso piazza San Babila, prendendo di sorpresa anche la tromba dei bersaglieri. Al posto di ristoro di viale Tibaldi la fiumana si frangeva, e allora il cronista scendeva dalla macchina e coglieva l’entusiasmo soprattutto degli ultraottantenni, come Samuele Jannuzzi, di Barletta, che sembrava avere il motore nelle gambe.
L’episodio più emozionante fu quello del 22 settembre del ’73, giorno in cui la Henkel organizzò una gara internazionale di aerostati. Il via era fissato per le 15 allo stadio Senigaglia di Como, dopo che i vigili del fuoco avevano finito di pompare elio nei palloni, tenendo, durante l’operazione, tutti a distanza di sicurezza. Il numerosissimo pubblico applaudiva freneticamente i pancioni che si sollevavano a uno a uno, mentre Febo Conti,
Titolo nobiliare
allora famosissimo presentatore e Ridolini della tivù, al microfono faceva i nomi degli equipaggi. L’ultimo ad alzarsi fu il narratore, ospite nell’aerostato della Germania occidentale, pilota Wulf Bergner. Emozionante salutare la terra che si rimpiccioliva e poi osservarla da 1400 metri in un silenzio surreale. Da quell’altezza le auto erano quanto quelle delle piste per bambini, e gli scafi che scivolavano sul lago baffi d’acqua. I guai arrivarono con il temporale, che sbatacchiò la cesta contro una montagna, scodellando gli occupanti su una cengia. La pioggia era rabbiosa e l’unico riparo una catapecchia cosparsa, a dirla con garbo, di olive caprigne. Le ore incalzavano, si faceva buio, Bergner sparò un paio di bengala per farsi individuare dalla Range Rover che doveva recuperarci; e terminammo la discesa, preoccupati della sorte di un pallone, che volando a 4 metri, aveva toccato un filo dell’alta tensione incendiandosi. L’ultimo atto fu un rito: l’ospite, avendo navigato per la prima volta, doveva essere investito di un titolo nobiliare. In una taverna il pilota gli cosparse il capo di sabbia e birra pronunciando una formula in tedesco. L’interessato seppe dell’onore ricevuto quando dalla Germania gli giunse una “brochure” che lo proclamava principe di Lenno. Ma attenti a non chiamarmi sua altezza, anche perché sono alto uno e sessanta, e questo titolo vale solo sul canestro dei palloni.


 

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