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mercoledì 8 giugno 2016

Nel capoluogo lombardo arrivò nel ’46 da giovane commissario


IL MITICO MARIO NARDONE UNA VITA PER LA POLIZIA





Raiuno lo ha raccontato a milioni di persone in uno sceneggiato di diverse puntate; ma a Milano, e non solo, lo avevano conosciuto e amato tutti. Trascorreva più notti in questura che a casa.
La moglie Eliana, milanese, aveva imparato a cucinargli i polipi affogati, ma si raffreddavano nell’attesa che lui bussasse alla porta.
E’ morto nel luglio del 1986







Franco Presicci





Uno sceneggiato in onda su Raiuno tempo fa lo ha raccontato a milioni di persone. Ma Mario Nardone era già ampiamente conosciuto, soprattutto in Lombardia. Sempre in pista, impegnato in indagini spesso complicate; nella cattura di malviventi, senza mai guardare l’orologio.
Mario Nardone (5° da sinistra) con la sua squadra
Fu lui ad occuparsi, nel novembre del ’46, arrestandola poche ore dopo l’esplosione della follia, di Rina Fort, che aveva ucciso, in un appartamento di via San Gregorio, la moglie e i tre figli del proprio amante; e fu ancora lui che, nel marzo del ’58, partendo da un paio di pantaloni trovati nel canale Olona, individuò la “batteria” responsabile del famoso assalto al furgone della Banca Popolare in via Osoppo; e quella che a due passi da via Montenapoleone aveva fatto razzia nell’oreficeria Colombo. Lui e la sua squadra. I giornalisti, tra i quali Enzo Biagi e Nantas Salvalaggio, lo cercavano per intervistarlo e quando ci riuscivano era come aver vinto un terno al lotto.
Mario Nardone con il questore Enzo Caracciolo
Mario Nardone era instancabile; sembrava avere il dono dell’ubiquità. Tutti convinti che quel genio delle investigazioni arrivato a Milano da Avellino nel ’46, all’età di 31 anni, non aveva “parenti” in letteratura: non era Maigret, come la gente lo definiva, e neppure l’ispettore Javert, che ne “I Miserabili” manda al bagno penale Jean Valiant. Per il suo fiuto era paragonato al gatto, ma lui fingeva di non saperlo: rifiutava le etichette. Era simpatico, Nardone, estroverso, spontaneo, semplice e soprattutto umano. Aiutò a guarire da una malattia misteriosa la moglie di un detenuto; e non fu quello il solo caso. “Io rispetto la mala anche se la combatto con tutte le mie forze; e la mala rispetta me”. Amava il silenzio, “Quando ho parlato con una persona ho parlato con centomila. Non è mai venuto fuori il nome di chi ha collaborato con me. Il segreto è sacro.
Ferdinando Oscuri e Mario Nardone
Non ho mai tradito nessuno”. Era già in pensione quando il 18 maggio 1985, ricevendomi con grande cortesia nella sua abitazione in via Tortona 76, dopo avermi preparato il caffè personalmente, perché la moglie, Eliana, era fuori, mi parlò anche dei propri difetti. “Uno dei tanti: mi arrabbio a freddo. Alla Mobile facevo di quelle sfuriate! Ma dopo cinque minuti mi dimenticavo e invitavo al bar chi avevo trattato male”. Il padre era questore; e quando dopo la laurea Mario gli comunicò l’intenzione di seguire le sue orme, si sentì rispondere: “Se ti aspetti che io ti raccomandi, stai fresco…”. Anche il papà era molto umano, “ma più duro, spartano”. Dottor Nardone, rievochiamo qualche sua indagine. Per esempio, quella che la portò in un appartamento sul lago Maggiore, dove, travestito da idraulico, sorprese mentre russava il “Paesanino”, un mungitore dall’astuzia rustica, che con il suo socio, il “Santangiolino”, aveva fatto i primi dei numerosi colpi indossando il mantello nero dei briganti della Bassa. “Da una cicala della ‘mala’ avevo avuto un’indicazione troppo vaga, ma io localizzai il rifugio e con la scusa di dover controllare una tubatura riuscìi ad entrare nell’appartamento vicino di un ricettatore e questi mi informò senza neppure immaginare che stava dando una mano alla polizia. Con me c’erano i marescialli Valente e Navarra”.
Prefetto M.Jovine e il Proc.Gen. A. Beria di Argentine
E la banda del semaforo rosso? “Erano elementi duri e specializzati della malavita romana. Molti rappresentanti di gioielli venivano rapinati con il sistema della gomma a terra; e ogni volta trovavamo una moto Guzzi di grossa cilindrata targata Roma, che risultava appartenere ad un tale rinchiuso a Regina Coeli. Lui giurò di non saperne nulla; non gli credetti, ma capii che in quell’orto non avremmo raccolto alcunchè. Fremevo. Ogni due o tre mesi i rappresentati, dopo aver visitato i clienti, giunti al semaforo, si ritrovavano con la vettura azzoppata; scendevano, azionavano il ‘cric’; e mentre eseguivano l’operazione la valigetta con il tesoro spariva. Incalzai i miei uomini, e non tardarono a portarmi in ufficio due ‘giovanotti’, che, messi alle strette, confessarono: erano in quattro, venivano a Milano in aereo, con la moto facevano il colpo, la lasciavano e se ne tornavano volando nella capitale. Smantellai così la loro attività durata un paio d’anni, dal ’58 al ‘60”. E di “Cip” che cosa mi dice, dottor Nardone? “Cip” passava le notti su una branda all’Albergo Popolare di viale Ortles; una sera rientrando rubò una “24 Ore” da un’auto parcheggiata lungo il marciapiedi, l’aprì e la trovò piena di oggetti che a suo giudizio erano cianfrusaglie.
Le prime macchine della polizia lasciate dagli americani
In un’osteria vicina alla darsena, tracannando bicchieri di vino e versandone generosamente ai presenti, li dispensò, in cambio di un bacio, una carezza, un abbraccio, un giro di valzer, alle prostitute che entravano per un panino o un caffè. Per sé tenne soltanto un anello. Uscì barcollando all’alba, si accasciò su una panchina e qualcuno gli sfilò il cerchietto d’oro con brillanti dal dito. Lo svegliò Mario Nardone, già al corrente dell’impresa di “Cip”, rivelandogli che collane e bracciali non erano bagattelle. I nomi, dottor Nardone. “Quelli no, mai. Per me è una questione di correttezza. Non ne faccio. Non per proteggere chi delinque, ma le loro famiglie. Possono avere figli che studiano o faticano onestamente; perché esporli, metterli alla berlina?”. Ascoltare Mario Nardone era davvero un piacere e un arricchimento per un cronista curioso e inappagabile, che trovava tanta polpa, in quel piatto. Ne approfittai.
Le jeep per il pronto intervento del dopoguerra
Aveva condotto indagini anche a livello internazionale, arrestando non solo trafficanti di droga, rapinatori di notevole spessore fuggiti all’estero, omicidi, ma anche professionisti del bidone… Accennò a “Don Mimì”, che dello scartiloffio era un fuoriclasse: si fece passare per marajà di una zona inesistente dell’India, e ottenne sovvenzioni per una serie di conferenze sulla schiavitù di quel popolo; vendette a Starace uno “yacht” appartenente ad altri; e a un gruppo di industriali elvetici una nave con tutto il carico, presentandosi nei falsi panni dell’armatore. La malandra le ha tolto il sonno, vero, dottor Nardone? Ha passato più notti in via Fatebenefratelli che a casa. “Già”. La signora Eliana, milanese, aveva imparato a cucinargli i polipi affogati e le melanzane alla parmigiana, ma spesso si raffreddavano nell’attesa che lui bussasse alla porta; e quando finalmente ce la faceva a stare a tavola con i suoi cari, riceveva una telefonata e correva magari dimenticando la giacca sull’attaccapanni. Qualcuno gli domandava: “Dottor Nardone, lei non dorme mai?”. “Mi bastano poche ore”. Di quelli che collaboravano con lui aveva una stima illimitata.
Vito Plantone ad una festa della Polizia
Erano Mario Jovine e Vito Plantone, in seguito nominati prefetto l’uno e questore l’altro di Palermo; Enzo Caracciolo, dopo il ’70 promosso questore anche lui…; e i sottufficiali Oscuri, Petronella, Giannattasio, Valente… ”Con Dalla Chiesa litigavo, ma eravamo sempre amici”. Oscuri mi disse: “Non delegava, voleva essere presente sul luogo del delitto, vedere di persona, ascoltare la gente, pescare indizi, particolari”. Aveva in testa nomi, cognomi, soprannomi di caporioni e gregari, gli indirizzi, i posti e le persone da loro frequentati. Dalla tecnica usata risaliva all’autore. Negli interrogatori osservava, leggeva le pause e i silenzi, le risposte tardive; tendeva tranelli, scandagliava, e alla fine vinceva. Basso, sottile, capelli neri disciplinati dalla brillantina, baffi discreti alla David Niven. Lo riconoscevano per strada e lo ossequiavano. A un tassista che non voleva farsi pagare la corsa sorrise, tirando fuori il portafoglio: “Scherziamo? Mi dica quant’è”. “Ma lei è il dottor Nardone!”. “Al servizio dei cittadini.Tenga il resto”. Era un poliziotto integerrimo, oltre che astuto, abile, allergico alla resa. Lo chiamavano dalla Cina e dagli Stati Uniti. Ce lo invidiavano. J. Edgar Hoover, capo dell’Fbi per quasi 50 anni (dal ’24 al ’72), ce lo voleva soffiare. Avrebbe fatto carte false per averlo nel suo “staff”. Lionel Hampton gli consegnò l’emblema di cittadino onorario di New York. Fu Mario Nardone a inventare la Mobile e il centralino telefonico per le chiamate di emergenza. Commissario nel ’46, fu a Parma, a Monza, a Milano. Da vicequestore gli venne assegnato il comando della Criminalpol. Nel ’70, eccolo questore, prima sede Como. E’ li che lo incontrai la prima volta, svolgendo un’inchiesta sugli aspetti motivazionali della droga. “Dalla polizia ho avuto molte soddisfazioni. Mi hanno mandato in Vietnam, in Giappone, in Cambogia, negli Usa, dove mi volevano arruolare, ma non sapevo l’inglese…Rifarei tutto quello che ho fatto”. Parlava senza enfasi. Stando in pensione passava i pomeriggi a guardare le partite in televisione. Se veniva a sapere di un delitto, gli scattava la molla, ma doveva reprimerla. Mi confessò che quando un’indagine era disseminata di ostacoli, alzava gli occhi al cielo e sussurrava: “Aiutami, papà!”. Morì il primo luglio del 1986.

















1 commento:

  1. -- l’ispettore Javert, che ne “I Miserabili” manda al bagno penale Jean Valiant. --

    Jean VALJEAN.

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