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mercoledì 28 settembre 2016

“Qui New York, vi parla Ruggero Orlando”


 

 

 

FU IL PRIMO CORRISPONDENTE RAI

DALLA GRANDE CITTA’ AMERICANA



Tra le sue telecronache più famose quelle dello sbarco di Armstrong sulla Luna e del "black out” del ’65 negli Usa e in Canada.

Lo intervistammo alla fine del settembre ‘73 poco dopo la sua nomina a direttore del battagliero settimanale “ABC”, fondato da Gaetano Baldacci, già padre de “Il Giorno”.





 


Franco Presicci



La Grande Mela dall'alto.
“Qui New York, vi parla Ruggero Orlando”. Molti forse lo hanno dimenticato, quel giornalista che apriva e concludeva i suoi servizi sul teleschermo sventolando la mano destra a mo’ di saluto. Comunicava come se si trovasse in un salotto con vecchi amici, ed era molto famoso e stimatissimo. Raccontò lo sbarco sulla Luna, e la notte di quell’evento, 20 luglio 1969, acquartierato nel centro spaziale americano, a Houston, in Texas, ebbe un battibecco con Tito Stagno, che era nello studio di Roma, sull’ora precisa in cui Neil Armstrong aveva messo piede sul satellite.
Ruggero Orlando era nato il 5 luglio del 1907 a Verona, con origini siciliane (Caronia, nel Messinese). Laureato in matematica, alle espressioni algebriche preferì la carriera giornalistica, iniziandola a Londra come corrispondente dell’Eiar (poi Rai). Scoppiato il secondo conflitto mondiale, fu la voce di Radio Italia, più conosciuta come Radio Londra. Passò poi a New York, dove lavorò dal ’54 al ’70. Tra le sue telecronache più note, anche quella sul “black out” del ’65 negli Stati Uniti e in Canada. Quando andò in pensione, assunse la direzione di “ABC”, settimanale molto battagliero fondato a Milano nel giugno del ‘60 da Gaetano Baldacci (già padre de “Il Giorno”, quotidiano rivoluzionario nella grafica, nella lunghezza degli articoli, nel numero delle colonne, nella prima pagina-vetrina…).
Strada di New York.
Alla fine del settembre ’73, andai a intervistare Orlando nel suo ufficio, dal quale si poteva vedere il Duomo, in quel periodo tutto incamiciato. Me lo trovai sulla porta e lo seguii nella sua stanza, spoglia, un divano, una specie di cassettone, un quadro appeso alla parete, la scrivania con pile di carte e di libri. Mi indicò una sedia e mi presentò la moglie, una signora gentilissima e discreta. Il giornalista indossava un abito scuro e una cravatta bordò, che mi dettero l’impressione di essere stati presi dall’armadio distrattamente. Sapevo che non era tipo da dare importanza all’abito e alla carica. Convenevoli? Macchè. Solo qualche sorriso veloce. Ascoltò senza interrompere i miei commenti non sempre positivi sul settimanale che si era battuto tra l’altro contro il canone Rai; sullo stile delle pagine curato dal pittore Sino Musso, ispirato dai quotidiani inglesi; sui vecchi collaboratori, tra cui Luciano Bianciardi e Giancarlo Fusco, giornalista esimio e scrittore, autore di “Le rose del ventennio”, “Quando l’Italia tollerava”…; e gli umoristi, tra i migliori in campo internazionale, come Jiulien Feiffer e Jan Jacques Sempè.
Altra veduta di New York.
Ero curioso di sapere com’era Ruggero Orlando al di qua dello schermo. Glielo dissi, e lui, serio: “Adesso non sono più sullo schermo: sono pensionato. Nella mia esperienza televisiva passata spero di essere stato sullo schermo più o meno com’ero al di là dello schermo”. Si accarezzò i capelli che gli scendevano sulla nuca, poi la fronte, e afferrò la prima domanda. Su Nixon. Rispose che era un uomo impopolare. Accennò alla guerra in Vietnam, “fondamentalmente sbagliata; esplosa per la fede illusoria e balorda che gli Stati Uniti avessero il compito di fare da sentinella del contenimento del comunismo nel mondo. Idea contro la quale i maggiori esperti di Asia avevano protestato, sia nel campo diplomatico sia fra gli stessi militari”. Era succoso, fluido, schietto, tagliente.
Un aereo sorvola due grattacieli.
Come nei primi tempi in cui cominciava a far la spola tra un giornale e l’altro e gli succedeva di dover dirottare verso la questura di piazza del Collegio Romano a Verona per essere ammonito su ordine del Fascio, “con grande preoccupazione di mia madre”. Non era un conformista; non aveva paura di manifestare le proprie opinioni. Ancora su Nixon: “Ha seguito un po’ la scia dell’ostpolitik di Willy Brandt, è capitato bene, la politica estera sua e di Kissinger ha dato un contributo alla pace. Ma Nixon, come persona, è un tipo chiuso in sé, incapace di contatti caldi, risente le critiche come un fatto personale”.
Domanda: “Alcuni sostengono che gli italiani siano alla ricerca della propria identità. Lei ritiene che noi abbiamo tutto da imparare dagli altri e niente da insegnare?”. “Diceva Oscar Wilde che poche cose vale la pena imparare, e sono quelle che non si possono insegnare. Gli inglesi hanno avuto lungamente una struttura unitaria nazionale, hanno imparato forse come nessun altro grande popolo l’arte della convivenza civile attraverso un’esperienza di libertà reale nell’ultimo secolo e di libertà relativa anche nei secoli precedenti. Benchè avessero avuto anche loro forme feudali abbastanza strette anche se un po’ più labili di quanto non fossero nell’Europa continentale. Gli inglesi sono perciò consapevoli della loro identità britannica. Hanno l’enorme tragedia di non essersi mai identificati con gli irlandesi e lì ha prevalso il contrasto di religione tra l’Inghilterra protestante e l’Irlanda cattolica”. E gli americani? “Per loro è diverso. Gli Stati Uniti sono stati creati da ondate successive di emigrazione, appunto per questa fluidità hanno la legge sui diritti per cui si sentono cittadini americani pur nelle loro infinite differenze.
Lella Cito * di Martina in un angolo di New York.
In Italia quello che dovremmo imparare dagli inglesi e dagli americani, che pure sono strutturalmente dissimili, è quello che si chiama civismo. Un esempio, diciamo, spicciolo? L’aggressività al volante. E’ una sorta d’inferiorità che si sfoga. Siamo stati una nazione per molto tempo divisa tra Nord e Sud, troppo sbilancio di storia, economia, etnico. Abbiamo avuto il ventennio fascista, che ha ritardato l’industrializzazione a causa dell’autarchia e ha interrotto la faticosa educazione civica e unitaria che l’Italia unita aveva iniziato…Un altro difetto? Gli italiani non sopportano le file: tentano sempre d’infilarsi nel posto dell’altro”. Uscì subito da quel terreno per dire che in quel momento, oltre a una crisi economica, ci affliggeva una crisi psicologica “che io, parlando all’estero, ho attribuito al grande ritardo che c’è stato nel formare l’Europa”.
Grattacieli
“Ne hai avute di soddisfazioni nella tua carriera”. “Davvero tante”. “E tante sono state le personalità da te intervistate”. “Ricordo Cassius Clay, che quando non ti insulta e non minaccia di prenderti a pugni, tira fuori una cordialità così vera, così spontanea, così travolgente che è un piacere parlargli. Quando lo incontrai chiamò il suo ‘manager’, che era italiano, e lo invitò a salutare i suoi compatrioti, chiedendomi poi di fare domande a suo padre e a suo fratello”. Bob Kennedy? “Nella frase citava Shakespeare e il diritto amministrativo. Dag Hammarskield, allora già ex segretario dell’Onu, usava un linguaggio diplomatico, riservato che non rivelava l’enorme complessità del suo carattere”. Nel suo soggiorno elettronico ricevette anche Lyndon Johnson, Frank Sinatra, il primo ministro canadese Trudeau, “che adesso mi dicono essere diventato meno ‘play boy’… Era l’ideale per le interviste…”.
Alle spalle di Lella * una cascata.
Alcuni si aprivano, altri non si facevano spremere. Rispolverai il giudizio che dava di lui Nicola Adelfi: “Ha una curiosità morbosa per i fatti della vita, non sa resistere a un’immagine che ferisce, ama la città e la notte, ha un gran senso dell’humour e una predilezione per il paradosso”. E’ vero, Orlando? “I paradossi mi piacciono, le storielle umoristiche anche, le raccolgo”. Sentiva molto il problema dei diritti civili, dei giovani, delle carceri; e si proponeva di dibatterli su “ABC”, temi da lui discussi da deputato socialista, eletto nel ’72, anche in convegni e altri eventi internazionali. Parlava pacatamente, guardando fisso negli occhi, andando subito al sodo. Senza enfasi e senza retorica. Cercai di attirarlo sul Premio Borselli assegnatogli nel ’71 come migliore giornalista dell’anno, ma schivò l’argomento. Fece lo stesso quando gli chiesi della sua partecipazione ai film “Il tigre”, “Il pap’occhio” e “Caldo soffocante”. Non amava raccontarsi, Ruggero Orlando, primo corrispondente della Rai a New York, deceduto nell’aprile del 1994, a Roma.


* La sig.ra Lella Cito è titolare di un negozio di ottica a Martina Franca  
   ed è stata in vari paesi del mondo.







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