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mercoledì 25 gennaio 2017

Cercò invano l’autore dell’inganno


 

Una scoperta dolorosa la prima notte di nozze





Edmondo Capecelatro

 

Una storia da film di

Pietro Germi.

 

 

 

Trovò il colpevole in un cimitero

milanese e si vendicò affiggendo

sulla sua tomba biglietti

con insulti.

 









Franco Presicci


Capecelatro intervistato
La storia dell’uomo che mi accingo a riferire non è tratta da un’idea teatrale di Edmondo Capecelatro, autore di vari libri anche su Totò e Eduardo De Filippo; e di un romanzo, molto bello e interessante, “Le ragioni di Lucia”, che si sviluppa fra ingiustizie, prepotenze, un amore sfortunato e imprese di briganti. E’ una delle tante storie che Capecelatro ha risolto al tempo in cui era commissario e poi vicequestore, umano e coraggioso, attento e preparato. Lo conobbi una notte del maggio dell’80, nel corso di un’operazione di polizia organizzata per sbancare una bisca clandestina (ce n’erano molte, al chiuso e all’aperto). Prestava servizio in via Benaco, in zona Corvetto, al commissariato Scalo Romana, allora guidato da Enzo Sciscio, che era di Stornara, un piccolo paese pugliese. Pur avendo parecchi amici tra i cronisti soprattutto di nera, da Michele Focarete, del “Corriere della Sera”, a Piero Colaprico, di “Repuublica”, sempre alla ricerca di “tartufi”, Capecelatro era cauto e scrupoloso, e non si sbilanciava, per salvaguardare le indagini in corso. Alto, barba ben curata, napoletano dall’accento inequivocabile, gentile, conversazione contenuta, discreto, rispettoso, intransigente. Quasi sessantenne, è andato in pensione qualche anno fa e ha intensificato l’attività di scrittore. E di attore di notevole qualità. Proprio tra una prova e l’altra sul palcoscenico del teatro San Babila, in corso Venezia, calcato a suo tempo anche da quel grande gentiluomo e interprete di classe che fu Ernesto Calindri (dopo un’intervista nella sua abitazione di via Statuto, nel novembre ’71, assistetti alla commedia “Uno sporco egoista”, da lui recitata con estrema misura), Edmondo mi ha ricevuto in vestaglia sul palcoscenico per esaudire le mie curiosità. “Una storia, soltanto una storia, fruga nella memoria, ne avrai archiviate tante nella tua brillante carriera”. “Ce l’ho, ce l’ho la storia. Ecco, te la racconto”. E, seduto su una poltrona stile Bergèr, prese a versare il succo con lentezza, dovendo recuperare qualche dettaglio che faticava ad emergere. I ricordi, si sa, non sempre resistono al tempo che sfreccia come un bolide sull’autodromo di Monza: possono sfumare, perdere pezzi.
“Al cimitero di Chiaravalle accadeva un fatto strano, quasi incredibile: su una lapide, appiccicato di fianco alla foto, appariva un biglietto carico d’insulti contro il defunto… Il fatto venne segnalato e io mobilitai due miei collaboratori”. I foglietti si susseguivano, ma lo scrivano riusciva sempre a dileguarsi. Un fantasma certo non era. Ma uno che, probabilmente, subito dopo l’affissione, si fingeva dolente di fronte a un sepolcro vicino. Gli operai notavano il pezzo di carta, lo staccavano, lo leggevano, lo consegnavano a chi di dovere, la polizia veniva avvertita, ma ogni volta era una delusione.

Sala,Colaprico,Presicci

La faccenda andava chiarita. Capecelatro, che oggi fa anche l’avvocato, sollecitava gli agenti, ma l’ectoplasma era un fulmine. Lo si poteva sorprendere soltanto appostandosi ben nascosti. Non ce ne fu bisogno: un inserviente che si trovava a passare di lì sbirciò una figura in atteggiamento sospetto; lanciò il segnale, la polizia arrivò in un baleno. Lo sconosciuto fu accompagnato in via Benaco e introdotto nell’ufficio del capo. “Comprende che deve dare delle spiegazioni. Che cosa le passa per la mente?”. L’uomo, ben vestito, le braccia conserte, gli occhi bassi, non rispose. Capecelatro attese con pazienza, tornò a proporgli la domanda, stette in silenzio, intuì che il pasquino era combattuto, gli offrì un caffè, se preferiva una bibita. Un agente entrò con un vassoio, lo appoggiò sulla scrivania, ignorato dall’ospite, che alla fine, sguardo perso, voce sottile, confessò che la sua rabbia veniva da lontano.
Capecelatro in scena
Il motivo? Quarant’anni prima aveva scoperto che la donna appena sposata era un fiore già colto. E subito chiese il nome del responsabile. “Ma lei, temendo che potessi fare una pazzia, si schermì. E così per tutto il tempo che è rimasta in vita. Ogni volta che la incalzavo si trincerava, si chiudeva a riccio. E io mi riaccendevo, mi tormentavo. Quel nome dovevo saperlo, non poteva rimanere nell’ombra. L’inganno compiuto era gravissimo, imperdonabile. L’individuo si era proclamato fortemente innamorato, aveva realizzato l’obiettivo infame ed era sparito. Dovevo rintracciarlo, dirgli quello che meritava, punirlo…Poi mia moglie poco prima di morire si è decisa a smascherare lo scellerato. E allora mi sono messo a cercarlo. Dal paese se n’era andato e ho perlustrato i centri vicini. Ho chiesto informazioni a tanta gente, giravo dalla mattina alla sera. Ricevevo anche notizie imprecise, fuorvianti, che moltiplicavano i miei passi…”.
Edmondo Capecelatro durante le prove

Il ritmo della narrazione si accelerava. L’uomo sembrava non doversi fermare più. Precisava, commentava, circostanziava. Aveva bisogno di sfogarsi, faceva, era evidente, un grande sforzo a contenere l’ira. Capecelatro non se la sentiva di dirgli che poteva bastare. E lui avanti, sempre più spedito, alterava i toni, li attenuava. Invocava il consenso dell’ascoltatore, che lo osservava stupito. “Poi qualcuno mi ha detto di aver saputo che quel tale era emigrato in alta Italia. Un altro mi ha indicato Torino, un altro ancora Pavia. Ma no: si trovava nell’Hinterland di Milano; no, no, proprio nel capoluogo. E questa era la città più probabile. Qui occorreva indagare. Ma avevo bisogno di una conferma, non potevo vagabondare. Mi è venuto incontro un amico che viveva sui navigli. Dentro di me sorgevano gli scrupoli. Non volevo creare fastidi, mi innervosivano i soliti consigli di lasciare le cose come stavano, di soprassedere, di mettere una pietra sulla tegola che mi era caduta addosso, perché dopo circa mezzo secolo non ne valeva la pena. Tentavano di placarmi, ma ottenevano l’effetto contrario. L’esperienza traumatica l’avevo fatta io, io sapevo quello che provavo”.
Edmondo Capecelatro
Alla fine un varco si è aperto, ma senza darmi sollievo. “Qualcuno mi ha detto che stavo inseguendo un morto”. “Un morto?”. “Sì, è così. Quello se n’è andato all’altro mondo”. “Forse era una bugia detta a fin di bene, tesa a mettere fine al mio travaglio, chiudere per sempre questa pagina affannosa. Ma non mi sono dato per vinto. Ho proseguito; ho interrogato, pregato, sollecitato, e ho scoperto che quel tale si era spento davvero. Ma dove era sepolto? Attraverso altre vie, bussando qua e là senza mai stancarmi, ho saputo che era disteso sotto quel marmo. Non potevo fare altro che mettere nero su bianco, esprimere in quel modo la mia vendetta: con quei foglietti che ogni volta mi davano una certa soddisfazione, anche se lui non ha potuto leggerli…”.
“E adesso? Che cosa pensa di fare? Può ritenere conclusa la partita? Mi ascolti. I morti, qualunque peccato abbiamo fatto in vita, vanno rispettati. Mi prometta di starsene tranquillo. Il camposanto è luogo sacro, inviolabile”. L’uomo ascoltò la lezione, si alzò, ebbe un momento d’indecisione, probabilmente trattenne l’ultima chiosa, e imboccò la porta, salutando sommessamente. A Chiaravalle – che, inaugurato nel 1936, si trova in via Sant’Arialdo, nella periferia sud della città, e ha i muri di cinta in mattoni rossi – non lo hanno più visto. Edmondo mi ha promesso altre storie. L’archivio della sua memoria, un pozzo senza fondo, ha la porta aperta. Ne approfitto. Sono o non sono un cronista?










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