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giovedì 2 maggio 2019

La malavita milanese tra ‘800 e ‘900


Kodra su un velocipede in corso San Gottardo
NELLA CITTA’ ALLIGNAVANO


“LOCCH”, “SCOPOLA, “LIGERA”…


Sulle associazioni criminali vigilava

un poliziotto severo, il signor Mazza, 

“el Dondina” per il passo dondolante.

Era notissimo, temuto e inflessibile,

tanto che parecchi protagonisti di

testi teatrali sono ispirati a lui.


 
Franco Presicci
Tra la seconda metà dell’800 e l’inizio del ‘900, a Milano allignavano varie specie di malavita. Ogni quartiere era infestato dalla “ligera”, dai “locch”, dalla “scopola”… A queste consorterie dava la caccia un appuntato di polizia capo della squadra volante, “el sciur Dondina, basso, tarchiato, un po’ ignorante, claudicante (da qui l’etichetta), inflessibile, per il quale in questo sottobosco era stata persino composta una canzone. 

Cortile
E, pur temendolo, quando lo vedevano spuntare, i balordi la canticchiavano, divertiti, smettendo quando il cavalier Mazza – nome vero del segugio – si stagliava davanti a loro, sfidandoli: “E adesso? Sentiamola tutta, questa tiritera”. Il brano era intonato in ogni dove: “El Dondina quand l’è ciocch el va intorna a ciappà i ‘locch’…”. Il “pulè”, per intenderci, il poliziotto, era tanto popolare che Bertolazzi chiamò come lui una guardia scelta, sagace e intelligente, nel suo “El nost Milan”. Paolo Valera, lo scrittore scapigliato suo contemporaneo, che lo aveva incontrato e praticato, gli dedicò un profilo in “Milano sconosciuta”, definendolo “l’Attila dei pregiudicati, degli oziosi, dei vagabondi, dei pericolosi”. Che aveva un bel da fare, dalla mattina alla sera, a perlustrare soprattutto le zone di Porta Genova e del Ticinese, nei pressi della darsena, dove il Naviglio Grande, che viene dal Ticino, lecca il Pavese, che va a Pavia. La “ligera” non aveva un rilevante spessore criminale: costituita prevalentemente da ”dilittanti”, che ogni giorno rasentavano il codice penale; e quando ci finivano dentro era per un piccolo furto, un borseggio; e se qualcuno andava oltre, ovviamente soggiornava più a lungo nella “baita”, eufemismo gergale che sta per carcere, e rimaneva segnato.
Cascine lungo il naviglio
Mario Bonfadini, il 27 aprile del ’64, sul “Corriere della Sera”, delineava gli associati alla categoria in modo efficace e veritiero: “Un ladro casalingo, per così dire, come il gatto, pigro e bonario…; un ‘bravo ragazzo’ che a un certo punto ha voltato male, ha smesso di lavorare, perchè non riusciva ad adattarsi agli orari, e non lo persuadeva dover faticare tanto per guadagnar così poco; o perché era diventato troppo bravo alle boccette e al bigliardo e si era lasciato vincere dalla tentazione di mettere in mezzo qualche tipo dal portafoglio troppo gonfio un certo pomeriggio dopo il mercato; o perchè si era trovato disoccupato e si era messo a rivendere certa merce di dubbia provenienza…”. 

Kodra su un barcone
Così era stato “bevuto”, arrestato, dal Dondina, “steccato”, condannato, una prima, una seconda volta, e da allora, tornato libero, sempre sospettato, trascorreva qualche notte in camera di sicurezza, fino a quando, istigato da una pellaccia, ha fatto il salto, impegnandosi in un “palchetto”, colpo più grosso. I “locch” erano i duri, dediti allo sfruttamento del meretricio, al furto con destrezza; abili nell’uso del coltello a serramanico, “martino” o “maresciall”, sempre nel linguaggio della malandra. Frequentavano una locanda di via del Guast, quella del Berrini, dove – parole del Valera – mangiavano per pochi centesimi ciò che passava il convento e potevano concludere anche qualche “abbusco”, altrimenti detto affare. Il protagonista di “El nost Milan”, Carloeu detto ”el Togasso”, è un “locch” facile alla violenza, pronto nel tirar fuori la lama. La “scopola” era formata da una truppa di malandrini, uomini e donne, tutti giovani, i primi specialisti, anche loro, del furto; le seconde impegnate nella “misurazione” dei marciapiedi.
Si aggregavano per realizzare un progetto, si dividevano gli utili e si scioglievano, ricomponendosi in un’occasione successiva. Avevano l’abitudine di sedersi a tavola in una trattoria e mangiare a sbafo, incuranti delle proteste del titolare al quale avevano dato appunto la scopola. Milano non si sentiva sicura. Un autore, Bazzetta, si prese la briga di elencare i “barabba” più in vista, tra cui “Nerone”, considerato campione del “caschè” (borseggio); “Magher sech”, che operava al dazio di Porta Ticinese; “Peppinet”, cieco da un occhio, notissimo magnaccia… Alcuni di questi personaggi ispirarono abbondantemente i cantastorie menenghini. Quando spuntava “el Dondina”, che avrebbe tenuto testa persino a Francoise Vidocq, il re delle evasioni francese che interruppe la carriera criminale per fare il comandante della brigata della Suretè, che lui stesso era stato incaricato di costituire secondo il principio che un malvivente è un esperto del suo settore e quindi può combatterlo più facilmente, scattavano dunque le “castagnole”, manette, nonostante le suppliche e i giuramenti di non ripetere il “fioco”, l’atto furfantesco.
Cassina de' Pomm
Ma il cavalier Mazza, neppure lui, aveva il dono dell’ubiquità. Ma gli bastava una descrizione sommaria del colpevole per andarlo a cercare ovunque si fosse nascosto, conoscendo tutti i covi e gli angoli malfamati della città. Dondina era dunque il terrore della malandra, anche se non aveva mai mollato un ceffone a qualcuno che lo meritasse. Insomma anche allora le strade pullulavano di ladri, truffatori, ricettatori, assassini, vagabondi che chiedevano l’elemosina e pescavano nelle fisarmoniche, i portafogli … e bazzicavano ricettacoli putridi, pieni di pidocchi, con letti fetidi… Il Berrini si era arricchito ospitando questi elementi e piangeva miseria, anche per non essere importunato da chi cercava un prestito o per non cadere nell’esca di qualche malintenzionato. 

L'uomo del barcone
Altra casa di ringhiera










Il cavalier Mazza agiva in maniera autonoma, nelle sue operazioni non riceveva ordini dai superiori, dei quali si era guadagnato la fiducia. Ma quando questi andarono in pensione o vennero trasferiti, il nuovo “staff” non accettò l’indipendenza di quel sottufficiale che andava e veniva senza rispettare gli orari e senza rendere conto a nessuno. Cominciarono così con imporgli di rivelare i nomi dei suoi “sordi”, informatori. Dondina si rifiutò categoricamente e capì che l’aria era cambiata: non aveva altra soluzione che lasciare il servizio. Gli furono fatti ponti d’oro e lui si mise a riposo. A poco a poco fu quasi dimenticato. Dondina non era ancora nato quando impazzava la Compagnia della Teppa (in dialetto milanese “muschio”): rampolli di famiglie altolocate sopraffatti dalla noia e usi a far bisboccia nei migliori locali. Si riunivano negli antri dalle parti del Castello, dove organizzavano i vari piani, quindi scavallavano per la città e ne combinavano di tutti i colori. Tra le loro imprese, le aggressioni agli innamorati, bastonando lui e sequestrando lei; progettare addirittura beffe al cardinale e alle autorità civili… All’inizio erano mattacchioni che si divertivano alle spalle degli altri, ma poi il loro gioco divenne pesante con crimini veri e propri. Il termine teppista assunse così il significato di delinquente, dappertutto. Non avevano limiti. Non li fermava nessuno. Buttarono impunemente nel naviglio una garitta con la sentinella all’interno e ne fecero una più grossa, in una villa storica, dove convocarono un gruppo di nani, promettendo loro un incontro con molto bene attrezzate “biciclette”, prostitute. Adescarono invece deliziose fanciulle della buona società, che si presentarono vestite elegantemente, ingannate dal biglietto d’invito, che parlava di una serata di gala. Mentre si svolgeva la festa, tra balli e suoni, i nani irruppero nel salone e assalirono le damigelle, che si difesero con soprammobili, sedie e ogni altro oggetto. Spuntarono i coltelli e il quarantotto fu tale da far intervenire la polizia austriaca, che fino a quel momento aveva fatto finta di non vedere e di non sentire. I “goliardi”, come qualcuno li aveva definiti quando infastidivano un passante, soprattutto se anziano, strappandogli il cappello e riducendolo a uno straccio, non vennero mandati alla Malastalla, un vecchio reclusorio milanese dalle parti di via Orefici, demolito successivamente, nell’800; o al “Pollèe”, “casanza”, carcere di via Santa Margherita, ma dovettero indossare la divisa militare e andare altrove, grazie al potere delle loro famiglie. Ma la Compagnia proseguì le sue scorribande, che duravano dal 1816.





















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