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mercoledì 8 maggio 2019

La vita nelle case di tolleranza


Libro di Guido Vergani

LE “SIGNORINE” ERANO MERCE
DA COMPRARE E DA VENDERE

Quando la bellezza sfioriva erano
declassate sino ad arrivare alla
terza categoria. Dopo c’era la
strada, così piena di pericoli. Si
ricorda ancora la tragica fine di
Mary Pirimpo, la giovane venuta
a Milano dalla sua Calabria per
cercare fortuna.




Franco Presicci


Il 20 febbraio del ’58 si avverò il sogno della senatrice Lina Merlin: la chiusura celle case di piacere, per la quale si era battuta. Sono passati oltre sessant’anni; e si torna ad auspicarne l’apertura, per togliere il mercato dalla strada.
Libro di Luigi Inzaghi

Libro di Tullio Barbato
Quando a Milano, molto prima dell’entrata in vigore della legge, le ruspe azzannarono la “maison” di Via san Pietro all’Orto, per Mario Soldati “evocazione perfetta della ‘Belle Epoque’, lunghi sedili in felpa rossa, ricche sontuosità delle decorazioni, le cornici dorate, gli specchi dovunque e comunque…”, preferita dagli stranieri e con la “sciura” Gina che faceva gli onori di casa con maggiori attenzioni verso le persone di rango, un noto autore meneghino espresse il suo “magon” in una raccolta di versi del ’57, distribuita dattiloscritta in un giro ristretto, dagli amici: “Aria de stabiell”: “Vecc San Pedron/ fusinna de l’amor/ porta coi ciod, piastrèj sul corridor/ mi te ricordi come el talisman/ d’on temp tant divers e tant lontan”. L’iniziativa della Merlin suscitò molte polemiche, basate sulla convinzione che se il suo intento era quello di abolire le schiave bianche del ventesimo secolo, avrebbe fatto un buco nell’acqua.
Paripatetica
Comunque, i 717 postriboli del Paese, entro i sei mesi previsti della norma, dovettero rinunciare all’attività. I frequentatori sfogarono il loro disappunto trascorrendo l’ultima sera nelle varie case dalle persiane chiuse, che Tullio Barbato, giornalista e fondatore di Radio Meneghina, ha descritto parecchi anni fa in “Case e casini di Milano”: quella di via Filelfo, per esempio, elegante, arredata dalla sciura Maria con i mobili del San Pedròn, che era dalle parti del Sempione, dove, parola di Giancarlo Fusco, il più mordente “panplettista” italiano, autore del voluminoso “Quando l’Italia tollerava” (36 tavole a colori inedite di Mino Maccari e 55 foto autentiche), c’era chi si portava il registratore a manovella per immortalare i discorsi delle ragazze che cantavano “Solo me ne vo per la città” o “Serenata celeste”.
Prostituta
I postriboli del capoluogo lombardo erano tanti: quasi ogni quartiere ne aveva uno o più. I più eleganti erano quello di via Tadino 10, all’angolo con viale Tunisia, uno dei più esclusivi, che ogni 15 giorni organizzava feste sontuose per salutare arrivi e partenze (commovente il commiato della favorita Aspasia); via Disciplini 2, che secondo Mario Soldati “evocava irresistibilmente i piaceri più raffinati e la realtà una volta tanto non tradiva l’aspettativa letteraria” (“era la casa più chiusa tra tutte le case chiuse; la più discreta, la più signorile, la più specializzata. Dove si poteva, all’occorrenza, offrire una bottiglia di ‘champagne’, cenare, riposare e anche passare la notte…”. E via Rutilia, il casino più giovane, nato nel ‘40; via Fiori Chiari 17; via San Carpoforo (pavimento in terra battura, tariffa una lira), dove erano tre, detti “de San Carpin” o della “territoriale”, perché popolate da dame al tramonto (all’epoca qualcuno dell’alta società giurava di avervi visto un’alta personalità del regime); via Porlezza 2, nota come “San Gioann sul mur”; via San Sisto; via Stampa, zona Carrobbio; via Alberto Mario (verso San Siro); via Soncino Merati 5…”, dove erano assidui i giornalisti della questura (allora in piazza San Fedele), che dopo il giro telefonico delle 22, se non era accaduto alcunchè di interessante, lasciavano il collega più attempato al giornale e vi facevano un salto, ovviamente scattando se una telefonata segnalava un’emergenza.
Libro di Giancarlo Fusco
Le “signorine” meno… appariscenti stazionavano nelle due case di vicolo Bottonuto, un budello, in seguito demolito, di 100 metri nei pressi di via Larga. In una di queste, “el Peocet”, si svagò l’anarchico Gaetano Bresci la sera prima della partenza per Monza per uccidere Umberto I. Il professor G. M., simpatico, spiritoso, basso, corpulento, barbuto, che ha dedicato una poesia alla casa che accolse le sue esperienze fuggevoli, mi confidò. “Con i miei amici bazzicavo ‘el Ciaravall’, che stava appunto in via Chiaravalle: un postribolo di seconda categoria noto e celebrato, con un salone a specchi, una statua in bronzo raffigurante un fauno e una vergine, il maggior numero di ‘odalische’. La prestazione semplice nel ’57 costava 250 lire; la doppia 500. Era l’unico casotto ad avere l’ascensore. Ricordo la porta in noce con la parola ‘Entrata’ scritta in grande. Ricordo anche una ’vamp” che veniva giù per le scale vestita da sposa. La direttrice, I. B., girava tra i clienti raccontando le barzellette spinte. Era generosa. E si diceva che avesse aiutato un ragazzo romagnolo a laurearsi, facendolo studiare lì dentro”. Nelle case da battaglia, i casermoni, la “maitresse” spronava i perditempo: “Andemm in camera, andemm!”. Oppure: “Ste chi a fa flanella? Andè a spass in Galleria”. Le incitazioni esplodevano nelle case di terza categoria. Nelle altre c’era più classe. Durante il fascismo, allo “Scudino” di via San Cristoforo imperava il grido: “Camerati, in camera!”; e i sansepolcristi marciavano verso la “doppia”. Lo slogan era stato inventato dal tenutario che aveva anche il Disciplini, al quale poi aggiunse il “San Pedron”, dove le ragazze, quale che fosse la loro provenienza erano indicate con i nomi “la bolognese”, la “modenese”, la meneghina… Altrove “la ciuffetta”, “Tilde tirabusciòn”, Gilda, Lolita … Era l’epoca della canzone “Se potessi avere 1000 lire al mese” e lui ne incassava 5mila al giorno. Seduto dietro la scrivania con la cornetta del telefono in mano in attesa di essere interpellato, il docente distribuiva i suoi ricordi: “Ai miei tempi verdi le ragazze di famiglia erano blindate ed era quindi difficile l’approccio. Un giorno un amico riuscì a farsi prestare l’auto dalla sorella e andammo a cuccare nella campagna pavese. Al ritorno uno della comitiva aveva il muso lungo: la ragazza aveva rifiutato di baciarlo per paura di rimanere incinta. Era stato il parroco a metterla sull’avviso. I casini ci hanno insegnato tante cose: per esempio, la differenza tra il sesso e l’amore. Ci andavamo in compagnia. 

Prostituta
Quando uno compiva i 18 anni si faceva la colletta per pagargli il noviziato. Ma non eravamo sempre spinti dal bisogno. In quelle sale ci attardavamo ad osservare il via vai, le facce, le espressioni, i comportamenti; ad ascoltare le chiacchiere; ad ammirare le signorine discinte, che cambiavano ogni 15 giorni. Ci divertivamo”. Anche beffeggiando quella che salmodiava le proprie qualità. Le professioniste, loro no, non si divertivano. Nel febbraio del’’88, ricorrendo i trent’anni dall’eliminazione delle “maison”, andai ad intervistare un’ex “madame”, che quando seppe il motivo della mia visita, diventò pallida, confessandomi che era nonna di un ragazzino che alla vista delle peripatetiche le diceva: “Sai, quelle lì vanno con gli uomini”; e ogni volta era per lei un colpo d’ascia. Le garantii la massima discrezione e m’invitò ad entrare nel salottino arredato con mobili stile Liberty. “Cominciai al Disciplini. Una vita da schiave; sfiancata da 30-40 incontri al giorno. Anche se, quando l’uomo ci stava addosso, pensavamo ai fatti nostri, fingendo di partecipare. I clienti erano di tutti i tipi: i ‘teneroni’, che sgranavano le loro delusioni d’amore, le loro frustrazioni, i rifiuti delle mogli al cosiddetto debito coniugale, i tradimenti, le delusioni…. C’erano poi i ‘monsignori’, gente altolocata che arrivava alla chetichella per non essere notata. Rari per fortuna i deviati. Avevamo l’ordine di essere gentili con tutti per non fare assottigliare il ‘business’; e di non truccarci in modo pacchiano. 
Prostituta
Nel ’57, nelle case di lusso, la tariffa era di 1000 lire per la ‘semplice’. Ce la passavamo così e così grazie ai regalini, ma eravamo sfruttate…”. Quella vita ha ispirato tanti scrittori e pittori, oltre agli affreschi erotici pompeiani. La freschezza non è un bene di lunga durata, in quegli ambienti. E quando sfiorisce, ”vieni declassata alla seconda e poi alla terza categoria, fino ad arrivare all’ultima: la strada”. Che presenta mille pericoli. C’è chi ricorda ancora Mary Pirimpo, al secolo Maria Boccuzzi, trovata morta a mezzogiorno del 29 gennaio del ’53 su una sponda del canale Olona, sotto il ponte di via Renato Serra, a San siro, da un gruppo di ragazzi che giocavano al pallone. La donna era stata uccisa il giorno prima. Bastarono poche ore alla polizia per identificare la vittima e ricostruire la sua storia: nata a Radicena, Reggio Calabria, l’8 ottobre del 1920; giunta a Milano nel ’36 con i genitori, primo lavoro come operaia, lasciato perché attirata dall’avanspettacolo, ricavandone una grande amarezza. Fidanzata con uno studente universitario, osteggiato dal padre, un onesto dipendente dei Monopoli di Stato, aveva abbandonato la famiglia, andando a vivere con il giovane che amava. Altro naufragio, altri incontri e una serie di vicissitudini che si conclusero sul marciapiedi, con la nascita di una nuova falena. Viveva in un alberghetto quando fu assassinata con sei colpi di pistola. Mary fu la quarta vittima della strada. Quindi non la prima e neppure l’ultima. Sembra che la “la canzone di Marinella” di Fabrizio De Andrè contenga proprio la tragedia di questa ragazza calabrese venuta a Milano in cerca di fortuna.







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