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mercoledì 9 ottobre 2019

Un contadino vivace narratore


Don Oronzo

D’AVANTI A UN PUBBLICO COLTO

FLUIRONO I RICORDI DI DON ORONZO
Peppino e Francesco vendemmiano















                                                                
La serata si svolse nel cortile della casa
di Figazzano del pittore Filippo Alto. Era
il 1980. La gente arrivò da Bari, da Taranto,
da Brindisi. C’erano Giuseppe Giacovazzo,
direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”,
lo scrittore Giuseppe Francobandiera, il poeta
Egidio Pane…

 
Franco Presicci
Un pomeriggio dell’80 Filippo Alto, cantore della Puglia, mi fece una promessa: “Ti presenterò don Oronzo, un vecchio contadino acuto e spiritoso, bassino, dagli occhi vispi, che ha i trulli di fianco alla mia casa”. 
La casa di Alto a Figazzano
A Figazzano, frazione di Cisternino, una decina di chilometri da Martina Franca. “E’ un uomo bravissimo, serio, che affascina con i suoi racconti sulla vita n campagna di una volta. Per la verità era da tempo che volevo conoscerlo, visto che Filippo me ne parlava spesso e con amicizia. Ma ogni volta, se riuscivo a vederlo, era sempre impegnato in un lavoro o in un altro: un giorno a spingere una carriola colma di fascine, un’altra seduto su un cubo di legno a sagomare una pietra, forse destinata alla cuspide del trullo, con la sveltezza di uno scalpellino. Quindi un saluto con il braccio sventolato, una voce seguita dalla sua e via. Se non ricordo male, aveva 77 anni o poco più e ancora tanta energia anche se camminava un po’ incurvato. ”il lavoro è duro e la terra è bassa”, sentenzia un proverbio contadino. Fui contento quando Filippo si decise: “Andiamo a far visita a don Oronzo”. In quello stesso momento lui spuntò da un cancelletto in legno che chiudeva un passaggio che portava al suo campo ed esclamò: “Ah, ‘u prufessòre d’i quadri”. Gli squadernai un sorriso cordiale, lui mi strinse la mano senza profferire parola. Osservai i solchi del suo volto, testimoni di una lunga e dura fatica. Un cappello di paglia nascondeva i suoi capelli bianchi. 
Si torchia l'uva
Andava in campagna da quando era ragazzo e di colpi di zappa ne aveva dati; di vendemmie ne aveva fatte, pigiando poi l’uva con i piedi nudi nel palmento, dopo avervela trasportata con una bigoncia sulle spalle. Quanto pesa il lavoro nei campi, vero, don Oronzo? “Sì, non è come stare seduti dietro a un tavolo, ma ci si fa l’abitudine... Noi contadini abbiamo un padrone severo: il tempo. La pioggia disseta la terra, ma c’impone di rimanere a casa; la grandine bombarda i grappoli e annulla la sfacchinata. Si alzava all’alba e smetteva di lavorare al tramonto. Quando gli comunicai l’intenzione di scrivere un articolo sui suoi ricordi della vita nei campi in tempi lontani si stupì. Lo capii dall’espressione. Forse meditava sul detto: “Prima di parlare mastica le parole”, pensando che avrebbe dovuto prima raccogliere le idee e metterle in ordine. Era un uomo saggio, orgoglioso e non gli piaceva mettersi in mostra facendo racconti smozzicati di fatti, persone, situazioni frammentate nella memoria. Era scrupoloso, prudente. Gli dissi per incoraggiarlo che avevo partecipato a un paio di vendemmie: una quando ero ragazzo nella campagna di uno zio a Martina Franca e un’altra nel fondo di un altro zio a San Severo. “Ecco, guarda, porto ancora un segno della ferita che mi procurai con il cutter, mentre più che tagliare l’uva canticchiavo “Che bel volto che ha la campagnola, la campagnola che bel volto che ha….”. “’U prufessore lo sa che io sono di poche parole. E poi, “sind’a mmè’, io tengo più pratica che grammatica”. E’ la pratica che conta, don Oronzo. Sorrise.
Alto e il pittore Kodra
Rientrammo da Filippo, mentre riandavo a Giuseppe Cassieri, che considerava magica la Puglia e vedeva i trulli come birilli. E a Pietro Massimo Fumarola, che “In Valle d’Itria cicerone di me stesso” riferisce la frase del Tasso “Terra simile a sé l’abitator produce”. “Vedrai che prima o poi don Oronzo una conversazione con te la farà”. Quel giorno venne. Era un sabato. Dalla destra di don Oronzo dondolava un polzonetto, il paiolo, che di solito pende dalla gola del camino. Lo depose e mi venne incontro: “Ve l’ha detto ‘u prufessore ca possiamo fare quattro chiacchiere?”. Me lo aveva detto e ne ero felice. Amo li mondo contadino e conosco i sacrifici che i “cafoni”, come li chiama Tommaso Fiore in un suo famoso libro (“Il cafone all’inferno”), compiono per rendere fertile la zolla.
Vendemmia





Sono stato tra loro, a San Severo. E con loro ho condiviso la fame, ma sono stati giorni felici. Quindi alcune cose che don Oronzo mi riferì le conoscevo già, ma desideravo ascoltarle da lui, nel suo dialetto, che addirittura mi emozionava. Lo lasciai libero di spaziare, e ricordò i suoni e i balli sull’aia, con buone innaffiate di vino buono, per festeggiare matrimoni e altre ricorrenze o per concludere in allegria una giornata alla fine del parto della vigna. Lo strumento in voga era la fisarmonica, magari accompagnata dal mandolino e dal violino. Sull’aia, come anche tra le viti, fiorivano gli amori che potevano essere stagionali o duraturi. Data la mia propensione alla battuta di spirito e all’impertinenza, con cautela gli domandai se gli risultasse qualche toccatina estemporanea e furtiva tra i pampini. Non ammise e non negò. “Quella era un’altra vita.
Pierino Pavone Vendemmia
Si lavorava tanto, è vero, ma si era convinti di aver reso onore al Signore, che ci ha regalato la terra. La zappa pesava e gli altri attrezzi pure…. A casa si tornava stanchi e dopo la cena, a volte “fave e fogghie”, conversavamo davanti al camino o alla cucina monaca, dove si pregava anche… Allora i tratturi erano affollati. La gente abitava nelle ‘casedde’ e si riuniva in quelle vie erbose per confidarsi. Oggi è tutto diverso. I tratturi sono deserti e dove urlavano giocando i bambini passano le auto. Filippo intervenne: “Digli di quando doveva venire quel cantante per la ricorrenza della festa della Madonna”. “Ah, lui non poteva la domenica, il giorno in cui abbiamo sempre festeggiato la Santa, e disse di essere disponibile il lunedì. Alcuni erano d’accordo, ma io no. “E cume jè ‘stu fatte? ‘A Madonne mò add’aspettà ‘u candande?. Ma no jè cose. ‘A feste se fasce la domenica e basta; se no, io chiudo a chiave la porta della chiesa e la Madonna no jèsse. ‘Accùme dice ssegnerì, stu padre Cionfoli, cu respètte, conde cchiù d’a Madònne? Vulèsse sapè che avrebbero fatto a Cisternino, se si rimandava la festa dei Santi Quirico e Giulitta o a Triggiano quella della Madonna della Croce”. Non ricordo il seguito della diatriba.
Alto e il critico Sebastiano Grasso
Comunque in me crebbe la simpatia per don Oronzo. L’articolo uscì sul “Corriere del Giorno”, lui si offese perché gli avevo dato 80 anni, ma dopo qualche settimana mi regalò una bottiglia di vino, raccomandandomi di non rivelarlo a nessuno. Il critico d’arte Raffaele De Grada, che insegnava a Brera, era autore di una storia dell’arte in tre volumi e scriveva sulle pagine de “Il Corriere della Sera”, fu ospite di Filippo per una settimana. Raffaele era un uomo alla mano, amante della compagnia e una sera accettò volentieri di fare qualche ballo nel salone arredato con un vecchio telaio, un tavolo e un divano ad angolo, mentre don Oronzo, che il critico aveva preso a cuore, batteva le mani.
A Locorotondo






Fu un’occasione molto divertente, come lo erano di solito quelle organizzate dall’artista barese con studio a Milano e decine e decine di mostre personali e collettive in galleria importanti anche all’estero. Qualche mese dopo Filippo Alto ebbe l’idea di allestire una serata dedicata a questo vecchio contadino brioso e affabile, che si faceva subito voler bene. Tra gli invitati, giornalisti, professionisti, galleristi, un medico musicista, che si era esibito al pianoforte nello stesso cortile: amici (il padrone di casa ve aveva tantissimi) venuti da Bari, da Taranto, da Brindisi, da Locorotondo, da Alberobello. C’erano Giuseppe Giacovazzo, direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”; Giuseppe Francobandiera, scrittore e direttore del circolo Italsider, che aveva sede nella masseria Vaccarella nella bimare; la titolare di una galleria d’arte nel capoluogo pugliese; il poeta Egidio Pane… Don Oronzo prese il microfono e lo usò con disinvoltura, rispolverando tanti episodi, anche se un po’ sbiaditi dal trascorrere del tempo, e i presenti applaudirono, divertiti dal miscuglio di dialetto e italiano maccheronico di questo attore improvvisato che sapeva intrattenere un pubblico colto e interessato. Ho sempre avuto vivo il ricordo di quella serata. Quando Ada, moglie di Filippo, nell’agosto del ’91 mi chiese di presentare una mostra del marito in un elegante locale di Cisternino, tra gli ospiti notai Silvia e Michele Annese e cercai don Oronzo. Non c’era.







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