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mercoledì 8 gennaio 2020

Quanta storia sulle targhe stradali


A MILANO BISOGNA CAMMINARE


CON LO SGUARDO VERSO L’ALTO


Da via Fava, dove aveva sede il

quotidiano “Il Giorno”, a piazza

del Duomo si assorbono briciole

di storia. In via Lanzone fu ospite

il Petrarca, poi trasferitosi alla

Cascina Linterno. In via Borsieri,

all’Isola, Garibaldi.

Viale Monte Santo




Franco Presicci
Amavo percorrere Milano da un capo all’altro, nei rari giorni di libertà dal lavoro, e con lo sguardo verso l’alto, per ammirare i giardini pensili e per leggere le targhe delle strade: era un modo di conoscerla meglio. Abitavo in via Angelo Fava, non asfaltata, con la serra Fumagalli, un meccanico, un bar, che serviva caffè e zibibbo anche di notte ai giornalisti del quotidiano “Il Giorno”, la cui sede era al numero 20. Fava fu medico milanese e patriota, che appoggiava il governo provvisorio composto a Milano in seguito ai giorni movimentati del ’48. Attraversando via della Giustizia uscivo sulla Melchiorre Gioia, dove scorreva ancora all’aperto il Naviglio Martesana con decine di topi grossi quanto conigli che saettavano sulle sponde. Gioia fu economista, letterato, filosofo e storico nato a Piacenza e deceduto a Miano nel 1767.

Tram vicino alla Centrale
A volte m’incamminavo verso via Ponte Seveso, nome proveniente da un antico ponte collocato sull’omonimo “fiume” che, venendo da Como, scivolava appunto nel piccolo quartiere di Seveso; quindi la vista spaziava di fronte alla stazione Centrale, inaugurata nel 1931, il primo approdo degli emigranti con la valigia di cartone partiti dal Sud: i cosiddetti “terroni”, termine allora usato non proprio come offesa, perchè è appunto dalla terra che questa povera gente proveniva per guadagnarsi il pane quassù. E quella terra l’avevano affidata alle mogli, esperte, laboriose ed energiche come gli uomini. A volte nello scalo, definito la “cattedrale del movimento”, entravo, vedevo arrivare i treni, affollati, che si svuotavano a poco a poco, con alcuni che passavano a chi li aspettava le valigie di cartone dal finestrino. Quel treno, detto della speranza o “Freccia del Sud”, lo presi anch’io, stando venti ore in piedi, sorretto dalla ressa che si formava nel corridoio, straripando nel gabinetto di decenza e sulla piattaforma.
Il Naviglio Grande

Quando giunsi a Milano erano in corso i lavori credo per la metropolitana in piazza San Babila, il sindaco era Gino Cassinis, che durò in carica tre anni; Luigi Meda l’assessore all’Istruzione; Piero Bassetti al Bilancio, al Lavoro, alla Statistica, all’ufficio Studi e Organizzazione. Al Teatro Gerolamo era in scena “Milanin Milanon”, di Roberto Leydi e Filippo Crivelli; e incominciava l’attività il teatro di Palazzo Durini, proprio di fianco a quello in cui aveva abitato Arturo Toscanini. In quel teatro assistetti alla rappresentazione de “La leggenda di ognuno” di Hofmannsthal, seduto di fianco al grande Giovanni Mosca, che negli intervalli, passeggiando, mi parlò delle insidie in cui poteva incorrere chi lavorava in una redazione e delle difficoltà di entrare nella professione. Uomo simpatico e alla mano, giornalista, umorista, disegnatore, drammaturgo, scrittore (“Ricordi di scuola”…), critico cinematografico e teatrale, era stato chiamato a Milano da Cesare Zavattini per confezionare il settimanale “Il Bertoldo” con Giovanni Guareschi, papà di don Camillo e Peppone… Tornando in via Durini, non si può non citare la chiesa di Santa Maria della Sanità dei Camilliani, che avevano preceduto i Cappuccini nel Lazzaretto, di cui faceva parte anche fra Cristoforo descritto da Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi”. 
Stazione Centrale
In piazza Duca D’Aosta, dando le spalle alla Centrale, sorta dopo lunghe traversie prodotte dalla Prima guerra mondiale e da motivi economici emersi negli anni successivi, e guardando verso via Vitruvio (nome dell’architetto romano attivo alla corte dell’imperatore Ottaviano Augusto, dove compose il suo “Trattato di Architettura), c’era la redazione del quotidiano “L’Italia”, che, fusosi nel ’67 con “L’avvenire d’Italia” di Bologna, dette vita ad “Avvenire”, primo direttore Leonardo Valente. A “L’Italia” collaborai anch’io, come vice critico teatrale, e in quella veste fui tra quelli che intervistarono i Beatles il giorno prima della loro esibizione al Vigorelli. Andando a spasso per Milano si assorbono tante notizie, grandi e piccole. In via Boscovich (nome del gesuita dalmata che fondò l’osservatorio di Brera), vicina alla Centrale, all’ultimo piano con fontana sul terrazzo aveva dimora Giovanni D’Anzi, che nel ’35, per fare uno scherzo ai napoletani e ai romani che a Milano intonavano canzoni sulle bellezze delle loro città, scrisse in pochi minuti “O mia bela Madunina”. All’epoca il musicista si esibiva al Trianon, che accoglieva anche la compagnia partenopea “Piedigrotta”, che cantava Napoli, il Vesuvio, il sole, la luna, l’amore, le delusioni. Il brano di D’Anzi, dedicato alla Madonnina che svetta sulle guglie del Duomo, fece il giro del mondo.

Per molti giorni peregrinai per Milano, percorrendo le vie Torino, Armorari, Piatti, Cesare Correnti. Margherita (c’era il carcere in cui venne detenuto Silvio Pelico), Manzoni, Bigli, Cavour, Palestro, Venezia…, scoprendo pezzi di storia. In via delle Ore scoprii che ricordava il primo orologio, eseguito dall’artista cremonese Francesco Pecorari, che Azzone Visconti fece collocare nel 1335 sul campanile della piccola chiesa di San Gottardo, fino all’anno Mille chiamata di San Giovanni alle Fonti. In via Armorarì, in virtù di un cosiddetto paratico, avevano i laboratori gli armaioli, mentre gli orafi stavano in via Orefici e i fabbricanti di speroni in via Speronari. Il paratico aveva anche lo scopo di evitare contese tra quelli che esercitavano lo stesso mestiere. Fu in quel periodo che feci i primi quattro passi a Brera, dove s’imponeva la famosa Galleria “Apollinaire” del geniale martinese Guido Le Noci, da cui passarono tutti i maggiori rappresentanti dell’arte contemporanea, compreso Christo Javaceff.
Hotel Gallia


Le Noci mi accompagnò al bar Jamaica, a suo tempo frequentato da importanti personaggi, come Giulio Confalonieri, critico e storico musicale, amico dei barboni; Pietro Cascella, Arturo Carmassi, Antonio Recalcati, Pietro Manzoni, Salvatore Quasimodo, il musicologo Beniamino Dal Fabbro, il critico d’arte Marco Valsecchi, Luca Crippa... e persino il direttore de “Il Popolo d’Italia”, Benito Mussolini, che tutte le mattine veniva a bere il caffè dalla signora Lina. Le Noci mi presentò Dino Buzzati, che mi prese in simpatia e mi dette il suo numero di telefono di casa; e Pierre Restany, grande amico del gallerista. In via Fiori Chiari (denominata così forse per qualche giardino ricco di fiori squillanti), presi a coltivare l’amicizia del baritono Giuseppe Zecchillo, che creava quadri surreali con spaghetti, tubettini, farfalle, linguine e maccheroni, forse in ricordo di Giuseppe Prezzolini, che a quel tipo di pasta dedicò un libro (“Maccheroni”), edito da Rusconi.

Piazza Gae Aulenti
Poi per una televisione di Pavia, Telemontepenice, tornai a girovagare per Milano, raccontando tutto quello che una volta si trovava nelle varie strade. In via Caminadella, per esempio, che parte da piazza Sant’Ambrogio, fino al 1100 le case erano di legno e i tetti di paglia. Per riscaldarsi si ricorreva al braciere ricavato da fango impastato. Quando comparvero i camini una “primizia” venne installata proprio in un’abitazione in questa strada, e i milanesi le affibbiarono il nome di “casa caminata”, quindi il diminutivo che finì sul marmo. Omenoni, chi erano questi signori a cui avevano intestato la via che parte da piazza della Scala? Non erano persone, ma gli otto giganti messi a sostegno dell’architrave del primo piano del palazzo costruito nel 1575. E perché via Olgettina? Perché da via Padova porta all’omonima cascina accostata ad altre. 
Cassina de' Pomm
 

C’è anche via Lega Lombarda, che non ha nulla a che fare con gli attuali fautori della Padania, ma una confederazione formatasi nel 1167 per fronteggiare Federico Barbarossa. In piazza Vetra, una delle più vecchie della città (“Platea Vetus”) si accendevano i roghi o s’impiantavano i pali per le esecuzioni. Toccò a Caterina da Brono, ”quivi bruciata quale colpevole di aver innamorato il suo vecchio e gottoso padrone a mezzo di sortilegi da lei stessa confessati mediante tortura consistita nello strappargli lembi di carne con tenaglia arroventata”. E nel 1566 al rogo finirono i briganti Giacomo Legorino e Battista Scorlino, che avevano imperversato nel bosco della Merlata. Nel 1631 Gian Giacomo Mora, di professione parrucchiere, venne ucciso con l’accusa di aver propagato la peste. In più gli demolirono la casa erigendo al suo posto una colonna, detta infame dal popolo. Non furono le sole esecuzioni in quella piazza. Per eseguire la condanna di Caterina Medici, presunta colpevole di aver tentato di avvelenare con miscugli il senatore Luigi Melzi, nel 1617, montarono palco, detto baltresca, e palo per dare la possibilità alla gente di assistere al tragico evento. In via Bigli abitava il Premio Nobel Eugenio Montale e in tempi più lontani, quelli delle Cinque Giornate, ospitò il Comitato Rivoluzionario.
Galleria Vittorio Emanuele
Via Andreani ricorda le imprese del conte Paolo, il primo in Italia a prendere il volo, nel 1783, a bordo di una mongolfiera, da Moncucco alla Cascina Seregno, dopo la famosa impresa in Francia dei fratelli Mongolfier. Mi piacerebbe continuare, ma lo spazio è tiranno. Avrei da parlare della centralissima via Borgonuovo, di piazza Belgioioso, di via Monte Napoleone, via Turati, anch’esse scrigni di storia. Ma tempo al tempo. E’ bello, oltre che istruttivo, fare la ronda a Milano, da corso Venezia, con le sue facciate Liberty, a via Lanzone, ispirata a quel nobile milanese che istituì il primo Comune per mettere un freno al prepotere dei nobili; a piazza Cavour, con l’austero Palazzo dell’Informazione; alla la Galleria Vittorio Emanuele, così cara a Giuseppe Marotta, tanto da dedicarle uno dei suoi libri (“Mal di Galleria”). E camminando mi vengo in mente fatti e cose, come il “Gamb de legn”, il trenino Milano-Magenta, che aveva la stazione in un cortile di corso Vercelli. Era entrato in funzione nel 1879 e per la sua lentezza si era guadagnato quel nomignolo. E “el barchett de Boffalora”, che tagliava l’acqua del Naviglio Grande barcollando, con il suo carico di venditori di verdura e altri prodotti delle cascine.






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