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mercoledì 24 marzo 2021

Ricordi di viaggi in treno e altro

LA LOCOMOTIVA A VAPORE

Antica locomotiva da restaurare
SUSCITA TANTA NOSTALGIA

 

Quella che andava dalla Bimare

a Martina ciuffava festosamente.

Si viaggiava in terza classe, detta

carro-bestiame. I vagoni erano

sempre affollati. Nel dialetto la

macchina era “’a Ciucculatère”.



Franco Presicci

Mi presentavo mezz’ora prima alla stazione di Taranto per vedere i treni in movimento, aspettando quello per Martina Franca, che alloggiava sul binario morto, a ridosso del primo. Mi piaceva vedere la locomotiva a vapore ansimare sbuffando. Mi piaceva la sua forma; osservare il ferroviere che riforniva il forno di energia.

Affascinante locomotiva a vapore

Stavo tanto tempo ad ammirare “’a Ciucculatère”, come la chiamavamo a Taranto in dialetto, e salivo nella carrozza pochi attimi prima che si muovesse in direzione della città dei trulli. La prima tappa era Nasisi, dopo cinque minuti di corsa. Durante la guerra, a Nasisi, per ordine superiore, il convoglio doveva arrestare il suo tragitto, perché lo scalo di Taranto era a rischio bombe. Povera Taranto! Mi vengono spesso in mente un palazzo sventrato, credo in via Anfiteatro, e l’orizzonte fiammeggiante visto dal piazzale della casa di campagna dello zio prete, a Martina, che ci ospitava; i palloni frenati, che dondolavano sul Mar Grande per intrappolare gli aerei nemici; i ricoveri nella Villa Beaumont, un altro vicino a casa mia, di fianco alla scuola elementare Acanfora; il lugubre sibilo della sirena. Le città erano ferite; la gente aveva paura; i viveri erano razionati; ogni stabile aveva il suo capo fabbricato dotato di maschera antigas per difendersi in caso di attacco chimico e svolgere protetto le mansioni che gli spettavano: mentre gli altri coinquilini nella stessa eventuale occasione, si dovevamo proteggere con un fazzoletto bagnato premuto sul naso e la bocca.

Vecchio treno sulla piattaforma
Sono alcuni dei ricordi che suscita in me quella sagoma viaggiante con il suo bel fumaiolo sul muso. Non dimentico la sera che di ritorno a Martina due persone, per una questione di posto, si scambiarono insulti roventi, culminati in una stramazzata (“Riprendi la zappa che hai appena lasciato”) che scatenò, più che indignazione, una beffarda risata generale, perché i passeggeri erano quasi tutti arsenalotti pendolari che rientravano a casa. Avevo sentito quella espressione in un altro alterco tra un martinese e un tarantino. Colpa anche dei vagoni, che erano sempre affollati e imponevano gomitate per salire e accaparrarsi un posto a sedere, in terza classe, detta carro-bestiame. Quando la terza fu abolita, la seconda prese il suo posto: praticamente cambiò solo di nome.

Martina, piattaforma1230

Quando la gloriosa locomotiva a vapore stronfiava più lentamente per fermarsi sul primo o sul terzo binario di Martina Franca, scaricati i passeggeri, si dirigeva verso il binario di scambio e raggiungeva a ritroso la piattaforma girevole, che le faceva mutare il senso di marcia. E anche quella manovra mi prendeva. Restavo sotto la pensilina fino a quando non veniva eseguita. Sono rimasto affezionato, alla “Ciucculatère”. Oltre vent’anni dopo (ne avevo ormai quasi 30) mi trasferii a Milano e spesso mi veniva voglia di fare un salto a Martina, quindi prendevo il treno per Bari Centrale, dove per raggiungere la città del ristoro estetico e spirituale, dovevo salire su un treno della Sud-Est, che si fermava dopo 800 metri, nella prima stazioncina, e lì contemplavo la “mia” locomotiva a vapore che, costruita nel 1901 in Belgio, era parcheggiata dal 1963 come nel celebre museo di Francesco Ogliari a Ranco. Era ancora bella, ben tenuta, una testimonianza storica preziosa, un monumento, un cimelio in seguito, purtroppo, compromesso dal tempo. Era il periodo della scuola e in quel minuscolo scalo il treno cominciava a riempirsi di ragazzi. E pensavo con gratitudine a Richard Trevithich, che nel XIX secolo fu tra gli inventori di quei gioielli. Il treno che mi trasportava era tirato da una locomotiva moderna, che non mi lasciava indifferente, ma vuoi mettere l’altra? Se è vero, come ha detto qualcuno, che la locomotiva a vapore somigliava a un dinosauro o a un pachiderma senza testa, rispondo che ha però il fumaiolo che ciuffando emette quelle nuvole bianche che si gonfiano e si disperdono. Un giorno alla stazione di Noci salì un sosia del tenente Sheridan, con l’impermeabile bianco come il famoso detective interpretato dall’attore Ubaldo Lay negli anni Cinquanta anche nei seguitissimi “Caroselli” televisivi. Il nuovo passeggero era inglese, parlava molto bene la nostra lingua, era garbato, alto e sottile, taccuino e matita nella mano sinistra. Guardava il paesaggio dal finestrino, tesseva lodi alla bellezza del nostro Paese; all’incanto di quell’angolo della Puglia, alle sue viti, ai suoi ulivi, ai suoi fichi, alle sue ghirlande di fiori, alla sua luce, ai campi ben pettinati e prendeva appunti. Mi sembrava Goethe, che in un diario compilato in un suo viaggio in Svizzera del 1797 scriveva: “Partenza da Francoforte poco dopo le 7. Sulle alture di Sachsendhausen molti vigneti ben curati, tempo nebbioso, coperto, gradevole. Dietro la torre di guardia, bosco, Strada raccomodata con calcare…”. Sheridan era anche un conoscitore della storia delle ferrovie: lo dimostrò intervenendo in una discussione tra due passeggeri del Nord, che conversando giocavano a carte.

Vagoni di altri tempi
Disse che il primo treno passeggeri del mondo a trazione a vapore fu quello che il 27 ottobre del 1825 inaugurò la Stockton & Darlington Raillway; e che gli inglesi furono anche i primi a costruire stazioni ferroviarie. E siccome mi stimolò, gli accennai a Ferdinando II, che fu il primo a costruire strade ferrate da noi: il tronco Napoli-Portici, che venne battezzato solennemente il 26 settembre del 1839 con un treno di otto vagoni e la locomotiva, a vapore, di nome “Vesuvio”. Il convoglio partì alle 13 con a bordo il sovrano, che se aveva bisogno che il mezzo andasse più forte o più piano dava l’ordine a un ferroviere appostato sul predellino che lo trasmetteva al conducente. L’inglese ascoltò in silenzio, ma era al corrente dell’argomento. Infatti continuò affermando che l’allestimento della rete da Napoli a Capua venne affidata ad Armand Bayard de la Vingtrie, un ingegnere francese; e che la prima tratta, da Napoli a Portici, fu attraversata da una macchina inglese, la Bayard. Scese a Martina, città dove per Mario Soldati si potrebbe scegliere di vivere, diretto all’Azienda vinicola Miali, da dove, nel pomeriggio, doveva proseguire per Lecce.

Stazione di Martina Franca

Lo accompagnai per un po’ e mi parlò dei nettari che l’azienda martinese produceva e spediva in tutto il mondo. Qualche anno fa mi recai, come faccio ancora oggi, alla stazione di Martina per osservare il via vai sui binari, le nuove linee architettoniche dei convogli, mentre le scampanellate elettroniche che segnalano gli arrivi rompono il silenzio; e chiesi a un addetto alto, gentile, premuroso se fosse possibile vedere la piattaforma girevole; e mi indicò il luogo, in fondo a sinistra rispetto al cancello d’ingresso e alle carrozze d’epoca disposte in fila su binari senza sbocchi. Ci andai e, guardando bene fra altri vagoni che tradivano i chilometri di strada ferrata che avevano percorso negli anni, intravidi la piattaforma, almeno quella parte che emergeva dall’erba e dai sassi e quella che mi lasciavano vedere le ruote delle carrozze che le stavano sopra. Nei giorni successivi mi fu detto che in un anno o due la piattaforma sarebbe stata dissepolta, restaurata come base di una “Ciucculatère” tirata a lucido. E fui sopraffatto dal rimorso, perché oggi per andare da Martina a Taranto mi servo dell’auto e non del treno. Ho fatto l’eccezione una sola volta, per andare a Crispiano, a incontrare il vulcanico Michele Annese, che ancora non aveva fondato questo giornale e l’Università del Tempo libero e del Sapere: era il “deus ex machina” della Biblioteca “Carlo Natale”, fiore all’occhiello, orgoglio, biglietto da visita, emblema, punto di riferimento della città. Conoscendo il mio amore per le strade ferrate, Michele mi chiese se fossi andato in treno. E snidò il mio senso di colpa. Mi ripresi subito, pensando che non c’era più la locomotiva a vapore a trainare il serpentone. Dopo qualche giorno domandai al mio amico Gabriele Lepore, un giovane talentuoso, ottimo bagaglio culturale di treni e strade ferrate, se ci fosse ancora quello splendido esemplare di locomotiva a vapore che faceva tanta bella figura in quella stazioncina appena fuori Bari. C’era, in attesa di essere rimessa nuovo. E mi inviò due immagini significative, pubblicate qui.

Carrozze d'epoca
Qualcuno di questi gioielli (tali sono per quelli che amano il settore) oggi sono esposti in qualche piazza o su qualche rotonda, per abbelllimento. Nel 2015, quando l’Aisaf di Bari ebbe la felice idea di organizzare “Un treno chiamato jazz” con diverse orchestre a bordo sulla linea Bari-Martina Franca fu annunciato che sarebbe stato tirato da una macchina a vapore; ma a Martina arrivò un locomotore diesel e non quello promesso (non per colpa – mi dissero – di chi aveva allestito l’avvenimento). L’iniziativa ebbe molto successo, meritatamente: i numerosi viaggiatori si divertirono molto e cantarono al suono delle orchestre sistemate nelle carrozze. Una continuò a rallegrare i curiosi sul marciapiede della stazione d’arrivo a poca distanza da quelle antichità che resistono al freddo e alla pioggia. Una festa eccezionale. Indimenticabile quel treno che faceva viaggiare la nostalgia, in un periodo in cui nessuno poteva neppure immaginare che saremmo stati attaccati da un killer spietato: il Covid 19.







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