Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 22 settembre 2021

I miei cari ricordi di Taranto

I TRAM, LE CARROZZE, “’U GRATTA-GRATTE”

E L’AMATISSIMO COLLEGIO MANZONI


Nicola Giudetti
Tantissime volte ho cercato

i pezzi della mia città di un volta

ma restano soltanto nella

memoria.

Ciononostante la bellezza della

“molle Tarentum” è lì tutta da

ammirare.

In un disegno di Mellone
 

 

N.d.R.: Articolo pubblicato oggi in omaggio all'Autore
dott.
Franco Presicci che festeggia il suo venerabile compleanno.

 A U G U R I  DA TUTTA LA REDAZIONE!  

 

 

 

 

Franco Presicci

Quando ero ragazzo a Taranto c’era “quìdde d’u gràtta-gràtte”. Si piazzava con il suo chioschetto tra le vie Dante e Giovan Giovine, “piallava” un grosso e lungo pezzo di ghiaccio e versava i frammenti triturati in un bicchiere, che irrorava di essenze di limone, menta, orzata… Appena arrivava, davanti alla sua postazione si aggrumavano gli avventori, non solo bambini e “uagnùne”, ma anche adulti.

Pialletto p'ù gràtta-gràtte
Se non ricordo male, si chiamava Uelìne, ed era alto e robusto, brioso e gentile. A confezionare, dalle 10 alle 13 e dalle 16, la leccornia era bravo. E più il sole era cocente e più “gràtta-gràtte” smaltiva. Non aveva bisogno di urlare la bontà del suo prodotto, che di solito si consumava sul posto, e quindi al primo assaggio raccoglieva meritati complimenti. Quando diventai più grande, una quarantina di anni fa, in un pomeriggio “africano”, mi venne l’idea di offrire “’u gràtta-gratte” a una ventina di amici e parenti, ospiti nella nostra campagna di Martina, sotto un bel ciliegio che al tempo giusto si arricchiva di orecchini rossi: avevo trovato un “pialletto” in un negozio tra via Dante e via Temenide, quindi ricavai un blocchetto di ghiaccio mettendo dell’acqua in un capiente contenitore collocato nel “freezer”; impugnai l’attrezzo e via con il braccio destro avanti e indietro; ma quando servii i bicchieri si susseguirono le smorfie sui volti della compagnia. E mi ricordai del detto milanese: “Ofelèè fa el to mestè”. Che delusione! Occorreva arte anche nel preparare “’u gràtta-gràtte”. 

'U muraglione
Ero uno dei clienti più assidui di Uèline. Mentre gustavo la delizia (non ne ricordo più il prezzo, essendo passati più o meno 75 anni), lui mi faceva domande, anche sul mio percorso scolastico. Una sera indugiai davanti al chioschetto senza chiedere nulla; e lui: “Beh? ‘U uè ‘u gràtta-gràtte’?”. “No tègne denàre”. “Pàje crèje o pescrèje. Na, pìgghie”. Il giorno dopo non volle i miei soldi. Mi meravigliai, sapendo che i suoi guadagni erano magri. Improvvisamente lo spazio quotidianamente occupato da Ueline rimase vuoto. Dopo giorni di attesa, s’intrecciarono le ipotesi: per alcuni aveva trovato un lavoro al Nord; per altri, era ammalato. Certo che per un bel po’ si parlò di lui, pur non essendo D’Ammacco o D’Addario, entrambi con negozi in via D’Aquino.

Vecchie serrature
Un tale sulla via dei novanta mi accenna a “’na barràcche” in piazza Messapia, che spezza via Nettunoriport, ma non ricorda se vi si confezionassero “granite”. All’epoca frequentavo il Collegio Manzoni, alloggiato in un palazzo signorile di corso Umberto, di fianco alla famosa Agenzia Viaggi Ausiello, di fronte all’Istituto Magistrale “Livio Andronico” e a un tiro di schioppo dal Museo Archeologico. Ci andavo a piedi: passavo davanti all’Arsenale, sfioravo il chiosco dei giornali, e subito dopo m’imbattevo in una signora, che, seduta sul marciapiede con un bambino in braccio, chiedeva l’elemosina. Non avendo soldi, le lasciavo tutte le mattine la mia colazione. Al Collegio a mezzogiorno mi arrangiavo: piluccavo qua e là pezzetti di pane con la mortadella o la salsiccia, distraendo i compagni con racconti western che dicevo di aver visto al cinema la sera prima e invece erano inventati di sana pianta al momento. Rapiti da quelle storie di inseguimenti, attacchi alle diligenze, sparatorie, scazzottature, agguati, “saloon” semidistrutti, bivacchi con il fuoco acceso, riportate con gestualità teatrali, si dimenticavano del cibo. Andavo volentieri al Collegio Manzoni, dove hanno imparato l’analisi logica e le declinazioni latine centinaia di ragazzi, dalla viva voce del professor Agrusta, che era di Martina Franca. Bravissimo e severo, alto e in carne, occhiali alla Cavour, passo felpato. All’ora di pranzo andava a sedersi a tavola con la moglie, che insegnava ai più piccoli nella stanza di fianco alla nostra e ci concedeva un’ora di “relax”, da trascorrere senza fare chiasso o monellate, come imponeva la disciplina. 

Santamato

  • Se qualcuno deragliava, veniva punito con il digiuno. Alle 14 si tiravano nuovamente fuori i libri e i quaderni dai banchi a cassetta con il calamaio di ceramica infilati in un buco, e ricominciavano le lezioni. Uno degli allievi faceva fatica ad assimilare le materie; e il professore ogni tanto, rivolgendosi a lui, sibilava “Ciù-ciù-ciù”, imitando lo sbuffo della locomotiva a vapore. Approfittando dell’assenza momentanea del “precettore”, disegnai sulla lavagna un treno con quella scritta all’interno di una nuvoletta. Confessai il peccato e fui castigato “cu ‘na pèrchie” sulla cucuzza. Anch’io avevo la mia etichetta: “Salsiccia”, per via della cartella di compensato arrangiata da mio padre, che non era falegname, con angolari di metallo. In verità, somigliava a una scatola per gli attrezzi, non per salumi. Non riuscivo a sopportare quel soprannome; e mi sfogai con zio Dionigi, mio saggio e a volte spassoso consigliere. Ma da buon educatore, quella volta si astenne, e intuii quello che avrebbe voluto suggerirmi. L’ora d’uscita dal Collegio era fissata per le 16: ci staccavamo dal banco a uno a uno nell’ordine indicato dall’indice del direttore. Quando toccava a me ero un fulmine; e se in strada correva una carrozza saltavo sull’assale posteriore fino a quando un ficcanaso non urlava: “Alè, alè, alè, ‘u uagnòne stè’ rète”, inducendo il vetturino a far schioccare la bacchetta. Allora le auto erano poche e il traffico non s’ingolfava. Taranto la si percorreva sgambando, e se le distanze erano lunghe si prendeva il tram. Il binario era a senso unico e per evitare che i mezzi si trovassero l’uno di fronte all’altro c’era il binario di scambio in via Di Palma, di fronte al cinema Odeon, dove andavo a godermi i film di Stanlio e Olio.

Scuola Acanfora
Era bella la città con i tram, che ogni tanto scampanellavano se incontravano un intoppo, magari un pedone con la testa nelle nuvole. Spesso erano affollati, con i portoghesi sul predellino pronti a scendere se avvertivano vicina la voce del controllore. I tram erano strapieni soprattutto le domeniche in cui giocava l’Arsenal-Taranto, che vidi in azione sovente quando scrivevo per il barese “Settegiorni”, di Papandrea. Anzi, le prime volte aspettavo con tanti altri fuori dell’ingresso del muraglione, da dove ci lasciavano entrare senza biglietto nello stadio dieci minuti prima della fine, se la squadra locale stava vincendo. Ricordo una spettacolare rovesciata di Costagliola (era lui?), che sarà annotata negli annali della squadra, che poi si trasferì al Corvisea. Amavo il tram. Per me era un arredo in più per la città. 

Attrezzo contadino
Presi “’na scutelàte de mazzàte” per colpa di un bugiardo incallito che aveva riferito a mio padre di avermi visto camminare sulle rotaie in piazza Ramellini. Non era mia abitudine; e non ho mai capito il motivo di quella “bufala”. Ma nel bene e nel male quei tempi sono lontani. Quando ne parlo mi sembra di svelare la vicenda di un altro “uagnunjidde”, che giocava al pallone “sus’u monte de le vàcche”, dove adesso sorge l’ospedale, alle spalle del quale urlavano gli ambulanti di piazza Marconi, poi traslocati in via Fadini. In piazza Marconi teneva un chiosco per la vendita di pasta e cereali Enzo Murgolo, attore teatrale di ottime qualità, nome d’arte Valli forse perché il padre, sottufficiale dei vigili urbani, calcava brillantemente anche lui il palcoscenico. In anni più recenti, Enzo ridestò “’U panarjidde”, che ebbe vita breve e magro successo. Smantellate le linee ferrate, comparvero i pullman. 

La chiesa
Un pezzo della vecchia Taranto se ne andava via o cambiava faccia. Sparivano anche gli slarghi vuoti in terra battuta: in via Dante, tra le vie Leonida e Mignogna quello su cui s’insediavano le giostre con le loro barche dondolanti e gli altri giochi; in piazza Messapia si piantavano alberi e siepi, la stessa chiesa del Sacro Cuore di Gesù prendeva un altro aspetto, spostando l’ingresso. In viale Virgilio allestivano un giardinetto. Ricordo nella Villa Peripato il pavone che apriva la coda a ventaglio quando si sentiva osservato; la balena spiaggiata esposta dopo esservi stata trasportata da un bisonte della strada; la gran mostra dei libri e la serata canora con Joe Sentieri (cantava “E’ mezzanotte, anzi lo era” e faceva il saltello battendo una mano sulla gamba), Anna D’Amico, Miranda Martino, Nuccia Bongiovanni, Paolo Bacilieri…, che fanno ormai parte della storia della canzone. Conservo una foto del tavolo dei giornalisti con Dino Salvaggio in primo piano. Ricordo anche gli stabilimenti balneari, compresi “Santa Lucia” (riservato agli arsenalotti) e quelli sulla via per San Vito: Praia a Mare, Lido Bruno, e quelli che spaziavano sotto il lungomare, come Lido Taranto, il Nettuno, l’Elena; palazzi, negozi importanti. Nasceva viale Magna Grecia, con vie e viette nuove, il mercatino delle pulci alla Salinella, dove invano cercai gli elementi della livoria, il gioco che facevamo in via Nettuno sul grande ”marciapiedi” in terra battuta di fronte a casa mia. poi ridotto Trovai invece serrature e vecchie chiavi, con il buco o senza. Le prime erano oggetto di un gioco pericoloso: riempivamo di zolfo il pertugio, in cui infilavamo un chiodo, collegavamo con una cordicella le due estremità e la sbattevamo contro un muro provocando un piccolo botto. Trovai anche “’u currùchele” e due valve “de parecèdde”, che con il tempo “se sprechelàrene”. Questi miei ricordi saranno affastellati, non osserveranno un ordine cronologico, non avranno un nesso, ma suscitano in me molta nostalgia.








Nessun commento:

Posta un commento