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mercoledì 29 settembre 2021

La città vecchia di Taranto

PASSEGGIANDO FRA I TURISTI

NELL’INCANTO DI MARE PICCE

 

Imbarcazioni in Mar Piccolo

E’ bello osservare i profili delle

navi, il dondolio delle lampare, le

trecce di cozze sui pontili, il 

pescatore che ricuce la rete,

seduto sul selciato, ‘u cuzzarùle”, 

la dogana quasi vuota.

 

 

Franco Presicci

“M’addecrèje vedè’ ‘nu tarandìne spatriàte avenè’, acquà abbàsce, ‘a marine, pe’ sendè’ l’addòre d’u mare peccerìdde”. Così mi accolse un pescatore che rammendava la rete seduto sul selciato vicino a un palo della luce. “Uàrdet’attùrne, e po’ dìmme se quìste no’nge jè ‘nu paravìse”. 

Taranto dal Mar Piccolo

Io osservavo l’acqua che faceva dondolare le barche e le trecce di cozze distese sul pontile. Le case erano molto invecchiate, qualcuna aveva gli acciacchi; ori di Taranto, i mitili, conosciuti in tutto il mondo, erano ammonticchiati su un paio di banchi a scale, sotto la tettoia della dogana. “D’addò jè c’avìene?”, mi domandò il pescatore, alzando il capo e mostrando le rughe che solcavano il suo volto. “Da Milano?”. “Ci sàpe quànta stràte è fàtte! Je no’nge m’hàgghie mai muvùte d’o paìse mìje, ca tène sècule de vìte”. Simpatico e loquace, curioso e piacevole nel dialetto, parlando interrompeva il suo lavoro, riprendendolo mentre io gli rispondevo. Mi disse che aveva conosciuto Diego Marturano, c’hà’ scritte ‘a pues’e ’U relògge d’a chiàzze’”, Alfredo Nunziato Majorano, autore fra l’altro di “Zazzarèddire”, c e spesso veniva a visitare Mare Piccolo, per sentire dalla viva voce delle persone i suoni del vernacolo.

Alfredo Lucifero Petrosillo

Ricordava anche Alfredo Lucifero Petrosillo, “c’acquà ‘u canuscèvene tùtte”: ère ìrte, suttìle, tenève le bbàffe ca parevene segnàte cu ‘a matìte”. ‘A pròsema vòte t’hagghià fa fa’ ‘nu ggìre cu ‘a varche ‘nzìgn’o sciardìne de le còzze, ca macàre tù’ no’nge vìste màie”. So che sta qui in Mare Piccolo, ma non ci sono stato mai. Non ho dimenticato niente di questa città, splendida e dignitosa, ricca di colori e di sole. Quando ci torno l’attraverso da un capo all’altro: a piedi quando devo coprire piccole distanze. Per esempio, per andare da via Nettuno a viale Magna Grecia (stavo per dire viale Venezia, come si chiamava un tempo, quando io e il mio amico Francesco Smiraglia, negli anni 50, la raggiungevamo in bici, ammirando la sua distesa di verde, interrotta soltanto dalla clinica l’Ausiello. Mar Piccolo è stato sempre la mia passione. Nel ’51 (se non ricordo male), anno in cui misero mani al ponte girevole e per consentire alla gente di passare da un borgo all’altro architettarono un ponte di barche su cui scrissi un articolo per il settimanale “Il Timone”, di Roma, lo visitavo, e visitavo via Garibaldi, che allora era diversa e non c’erano i pontili che ci sono adesso. I ragazzini si tuffavano per recuperare le monete che i turisti lanciavano in acqua e si sentivano le voci dei venditori di frutti di mare di ogni tipo: “cozzagnàcule”, “iavatùne”, oscre”, “spuènze”... A quel tempo si vedevano ancora le parecèdde” ed erano già vietati i datteri per proteggere gli scogli, da cui venivano estratti. 

Passeggiata lungo il Mar Piccolo

Qualche volta “abbàsce ‘a marine” andavo insieme a quel grande intellettuale, che era Piero Mandrillo, nato a Pulsano, ma innamorato di Taranto più di altri e del suo vernacolo pure, tanto che una di quelle volte che veniva a trovarmi a Milano mi disse che stava studiando il vocabolo ”chiudde”, al quale si attribuiscono tanti significati e quasi tutti poco lusinghieri. Io l’ho usato, qualche volta, al posto di pescatore, ma poi ci ho rinunciato. Anche a Mandrillo piacevano i frutti di mare, “spuènze” compresi, nonostante il loro poco apprezzabile odore. Mandrillo mi accompagnò nella città vecchia, per gustate, sì, cozze pelose, noci di mare e cannolicchi, ma anche lui per sentir parlare il dialetto e captare termini non ricorrenti nel borgo nuovo. Stava molto attento ai racconti di Vincenzo Miccoli, che apriva con rapidità quelle gioie del palato da mangiare subito.

Mar Piccolo
“’U cuzzarùle” aveva le labbra screpolate e non sapeva né leggere né scrivere. Ma capiva le cose al volo. Era nato a “Tàrde nuèstre”, e vi era rimasto, legato alla città come l’edera al muro. Il suo banchetto era proprio di fronte al locale in cui si apriva “Pesce fritto”, il ristorante famoso in tutta Italia, e forse anche all’estero. Dopo una Festa della Matricola ci andai con tutto il comitato e ci unimmo a due marinai americani, che ad ogni costo volevano offrirci vino in continuazione. Uno solo di noi cedette, uscì fuori e lo salvammo a stento da un tutto in mare. Un’altra volta venne a trovarmi un giornalista romano che mi espresse subito il desiderio di pranzare a un tavolo di questo famoso ‘Pesce Fritto’. Immaginando che avrei dovuto pagare io, mi vendetti alcuni libri importanti per non fare brutta figura. La sera le auto in arrivo avevano difficoltà a trovare posto fra le altre cilindrate parcheggiate davanti al locale, ritenuto un’insegna prestigiosa della città vecchia.
Barche al Mar Piccolo

Ne sentivo parlare a Milano, e ne ero entusiasta, perché ascoltando il nome di quel ristorante mi veniva in mente “‘u Màre Peccerìdde” o “Mare Picce”, come lo chiama “don” Alfredo Lucifero Petrosillo in alcune sue opere, che una volta lette ti rimangono nel cuore. E vogliamo evocare i versi di Diego Marturano? Quelli di Nerio Tebano e di Claudio De Cuia e di Diego Fedele, che abitava in via Messapia alle Tre Carrare, ma aveva una lunga frequentazione del borgo antico? Di lui conservo un calendario con alcune poesie: “’U trainìere”, “Le Caggiùne”, “’U rafanìedde”, che Gigante ha inserito nel suo vocabolario della parlata tarantina. Insomma, Taranto vecchia, con i suoi vicoli, i suoi “strìttele”, le sue pusterle, le sue curiosità seduce tarantini e turisti. Mi sono trovato in quella specie di museo dell’artista Nicola Giudetti, che, pieno de “zeròle”, “abbrustelatùre”, “velànze”, “vrascère”,“scarpàre de crète”, “ciucculatère”, “vummìle”, “cammelline”, processioni dei Misteri eseguite da lui, attira francesi, inglesi, tedeschi… Da lì, gli stranieri poi passano in via Garibaldi e magari assaggiano qualche cozza “gnòre” da “’u cuzzarùle” che sta di fronte all’adorato Mare Piccolo, senza urlare la bontà della merce, come fanno altri: “Assaggiàte ‘sta delìzzie d’u màre nuèstre, accattàte, a ’n’òtra vànne no’nge l’acchiàte accussì bbòne”. 

Una vigna

Il dialetto mi affascina. In famiglia mi veniva impedito: era considerato poco dignitoso. Quando venne a farci visita un lontano parente che abitava nella città vecchia, “Ciccille”, che usava soltanto “’mbòte” per tasca, “sckife” per barca, “rèzze” per rete… mi lasciai andare. Prima di nascosto, poi apertamente, anch’io dicevo “capàse”, “’nghianàte”, “pertùse”, assimilando la parlata di “Ciccille”, persona ignorante, ma divertente. Raccontava episodi bellici, e lo faceva con una gestualità filodrammatica. Tornando dalla guerra a piedi con un commilitone riuscirono a salire su un treno affollatissimo. Erano vestiti di stracci e a uno dei due venne l’idea di grattarsi continuamente, inveendo contro le pulci che… si portavano addosso. L’amico capì e subito l’imitò. Gli altri passeggeri, per paura di essere infestati, si allontanarono il più possibile, chi era seduto lasciò il posto e i due reduci potettero stendersi senza smettere di grattarsi per non insospettirli. “Ciccille” rapiva l’attenzione, tanto da farci dimenticare il freddo che ci costringeva a stare vicino al braciere.

Il mare calmo
Sembrava un attore consumato; aveva anche una “vis” comica, per cui provocava risate scoppiettanti. Raccontava in dialetto, l’unica parlata che conosceva, e le sue storie attiravano di più. “Peccàte ca tù’ no’nge parle accum’a mmè’. Làsse stà’ le ìibbre, avìene “abbascia ‘a marine”, addò ‘a ggènde parlè sùle tarandìne e tù’ te ‘mbàre”. Nella città vecchia alla fine ci andai; e ci andai un altro giorno ancora, e poi ancora. E m’inebriavo nel cogliere le voci, nell’osservare la sagoma delle paranze, “’u nazzecàre” delle lampare. I turisti scattavano fotografie al mare, alle facciate delle case, sostavano in piazza Fontana, restaurata dallo scultore Nicola Carrino, che espose alla Biennale di Venezia. Io a volte ero vicino a loro, sentivo i loro giudizi su Taranto. Un signore dallo stile inglese confessò di averla conosciuta troppo tardi; un altro aveva fatto il servizio militare in Marina e ricordava le ronde e qualche ammonimento per una pecca della divisa e le tre cannonate che segnalavano l’ora del rientro in caserma. Uno addirittura riandava alla severità di un noto sottufficiale che si chiamava Di Todaro. E’ bello sentire un estraneo parlare bene della città in cui si è nati. E fa sorgere lo scrupolo di averla abbandonata per cercare altri lidi. Ci sono amori che non muoiono mai.







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