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mercoledì 23 marzo 2022

L’amore per la cronaca non muore

IL CRONISTA IN PENSIONE CHE CORREVA

ALLA NOTIZIA DI UN GRAVE EVENTO

 

Carnimeo, Presicci, Scarpis

Dopo aver trascorso la vita

professionale tra omicidi,

sequestri, rapine, l’impulso

di andare sul luogo di un

fatto criminale non è una

stranezza.

Chi ha davvero amato il

mestiere lo capisce.

 

Franco Presicci.

Premio"Miglior Cronista 1997" assegnato dal Gruppo Cronisti Lombardi

Molti cronisti, e tra questi inserite anche me, quando vanno in pensione fanno fatica a dimenticare la polvere respirata e il panino mandato giù di fretta durante la ricerca dei particolari di un misfatto: un omicidio, un sequestro di persona, una rapina che ha insanguinato una strada... Ogni volta che succede avrebbero voluto essere sul posto, con il fotografo appresso, pronti a riprendere tutto ciò che colpisce.

Filippo Ninni
Mi dicevano, anni fa, di un grande della categoria che quando captava una notizia dialogando con un suo vecchio “trombettiere”, correva sul posto, ascoltava, osservava, s’informava e poi tornava a casa a scrivere l’articolo, che non mandava in redazione, ma chiudeva nel cassetto della scrivania. Un vecchio del mestiere, ormai sul penultimo piolo della scala della vita (se n’è andò un mese dopo) arrivò davanti a un negozio incenerito dal fuoco e rivolse domande a raffica; e quando seppe il nome della persona divorata dalle fiamme, lo descrisse come un pittore estemporaneo una figura sulla tela. Era noto per il dono della memoria inossidabile e per la piacevolezza del racconto. La vita del cronista sa di avventura. Quando il mattino esce di casa non sa dove e come passerà le ore: scarpinando con l’orecchio teso, intervenendo con immediatezza su un episodio che fa sobbalzare la città e tentando di far aprire il rubinetto a una fonte mai prosciugata o facendo il cacciatore solitario ignorando se sulla sua pista passerà o no una lepre.
 
Antonio Pagnozzi con lo scrittore Renato Olivieri
La sera del 27 luglio del 1993, quando la mafia ridusse in polvere con una bomba il Pac, il Padiglione d’arte contemporanea di via Palestro, a Milano, facendo cinque morti, tra cui un cittadino marocchino che dormiva su una panchina dei Giardini di fronte, la notizia mi fu data dal questore in pensione Enzo Caracciolo, che avendo sentito da casa sua un boato, telefonò in questura, dove qualcuno nella confusione gli disse che una bomba era esplosa al “Giorno”: mi chiamò e si rassicurò, sapendomi indenne. Io piombai in via Palestro in in pochi minuti. La strada era transennata, piena di giornalisti e autorità, tra cui il procuratore Borrelli, i capi della Squadra Mobile Achille Serra e di Gabinetto della questura Paolo Scarpis, il comandante dei vigili del fuoco, il colonnello dei carabinieri Sabino Battista, mentre le fiamme a poco a poco si placavano grazie ai pompieri…. E si attendeva il capo della polizia Parisi, che sarebbe arrivato alle 5 del mattino. Un paio d’ore prima una voce urlò: “Scappate, scappate, lasciate la strada, via!”. I pochi rimasti sparirono in un baleno e io volai fino a piazza Cavour riparandomi nell’androne del Palazzo dell’Informazione, dove risiedeva “Il Giorno”. Milano ha avuto tanti sussulti. La sera del 18 novembre dell’81 in via delle Rose, al Lorenteggio, raffiche di mitra colpirono tre persone che stavano entrando in un bar e un benzinaio. Erano tre esponenti della malavita che facevano affari con l’eroina. Ma non fu la droga la causa del massacro, bensì una rapina che i tre ed altri avevano fatto nella bisca di un “boss”, che diventerà collaboratore di giustizia, confessando i suoi peccati ad Achille Serra e al compianto sostituto procuratore della Repubblica Francesco Di Maggio. Elencò una cinquantina di omicidi, con nomi e cognomi, circostanze, ruoli nell’organizzazione degli autori, detti “indiani”, includendo anche quelli commessi da lui stesso.
 
Francesco Colucci

Le sue ammissioni consentirono agli investigatori di rastrellare tutta la banda e finì l’era di questo clan con le mani nella cocaina e nelle bische clandestine di Milano e dintorni. Il prologo dell’operazione era stato l’arresto di due suoi luogotenenti a Misano di Rimini, grazie alla strategia del vicequestore Francesco Colucci. A nulla servì ai due spacciarsi per commercianti in vacanza. Colucci da giorni aveva saputo della loro presenza in quella località di villeggiatura e li faceva seguire passo dopo passo, immaginando che li avrebbe raggiunti il capo. Che sarà invece acciuffato a Milano qualche tempo dopo la strage del Lorenteggio, di cui era stato, secondo le indagini, il mandante. Gli anni 80 soprattutto furono quelli che fecero ballare i cronisti di nera. Quasi ogni giorno e ogni sera un omicidio, a volte persino tre, da piazzale Susa a piazza Napoli, dove venne ucciso un presunto uomo di mafia appena uscito da San Vittore. Nel gennaio dell’80 in piazzale Cuoco si affrontarono a colpi di mitra due pregiudicati e per un pelo non venne ferita una ragazza che passava per caso dal teatro della furibonda sparatoria. Uno fu acciuffato subito e portato al policlinico per una ferita a un gluteo; poi toccò a un altro, grosso calibro della mala. Tentai di parlare nel pronto soccorso con quello rimasto ferito, ma mi disse che non poteva rispondere, avendo un forte dolore nella zona interessata. Ho conosciuto parecchi malavitosi. Uno che era appena uscito da San Vittore grazie ad un permesso previsto dalla legge Gozzini, pur essendo un duro, al citofono mi rispose con molta cortesia che era meglio lasciar perdere. In una delle mie visite al carcere di piazza Filangieri ne conobbi altri, compreso uno notissimo per peccati di truffa a livello internazionale che in cella scolpiva e si prometteva di allestire una mostra. Mi domandò se in quell’occasione avrebbe potuto avere il piacere della mia presenza; e quando arrivò il momento mi fece telefonare dalla compagna e io mantenni la promessa. Aveva frequentato l’Accademia di Breva e come scultore aveva ottime qualità. Ho incontrato più volte anche Angela Corradi, la suora laica che era aveva fatto parte di una combriccola molto agguerrita e notissima.

Il maresciallo Oscuri
Un giorno mentre usciva di casa con la pistola, sentì una voce: “Dove vai con quel cannone?”. “Era il Signore che mi parlava” e incontrò la fede. Ci demmo appuntamento un pomeriggio per un’intervista. Andai sotto casa sua, nella periferia della città, e da lì ci recammo in un bar pieno di gente con la faccia dura e accigliata. Ci sedemmo a un tavolo in fondo e conversammo. Angela era diventata un’altra persona e mi regalò una medaglietta della Madonna che ancora conservo. Non mi parlò dei suoi compagni che stavano in carcere, ma del proprio percorso di fede, e mi raccomandò di essere benevolo quando scrivevo dei suoi “fratelli” che stavano in cella. Sandra Lena, ispettora della sezione Omicidi della questura, nell’aprile dell’85, da me intervistata sul suo lavoro, mi riferì di tanti personaggi passati dal suo ufficio, tra cui un uomo che le diceva: “Avete il dovere di mandarmi a San Vittore, ho accoltellato la mia donna. Ero ubriaco, forse l’ho uccisa”. La poliziotta, che aveva la scrivania sotto la finestra, alzò gli occhi, guardò l’uomo, che somigliava straordinariamente a Peter Ustinov e lo fece accomodare. “Mi dica, dove è successo”. E Ustinov precisò. L’ispettora s’infilò il cappotto e con due uomini andò all’indirizzo indicato. Ma non trovò il cadavere. Il delitto era un’invenzione. Ma questi particolari restano fra le mura dei commissariati e della questura, non turbano l’opinione pubblica. A differenza della rapina del ’76 ad una banca di piazzale Insubria, dove due individui sequestrarono un bel po’ di clienti, oltre al cassiere e agli altri impiegati, tenendo con il fiato sospeso per una decina di ore parenti, amici e conoscenti. Tanti ricordano ancora la strage di via Schievano nel gennaio dell’80, dove i terroristi uccisero a tradimento tre agenti del commissariato Ticinese, Tatulli, Cestari e Santoro, in uno dei loro giri per la protezione delle scuole. Quella mattina vidi il vicequestore Antonio Pagnozzi (poi diventato questore e prefetto), allora capo della Mobile, con le lacrime agli occhi. Io, distrutto, me ne tornai a casa e disertai il gruppo dei colleghi che si occuparono della tragedia.
Ispettore capo Armando Sales
Arnaldo Giuliani e Vito Plantone
Con il vicequestore Gaetano Antonacci e l’ispettore Armando Sales ero andato a casa di Cestari, reduce da un infarto, e mi commosse il figlio undicenne, che tracciava segni sul vetro appannato della finestra. Dopo anni cercai uno dei due autori della rapina di piazza Insubria, perchè la regista della trasmissione televisiva “Fuori Orario” su Raitrè, a cui partecipavo, mi aveva chiesto se avessi la possibilità di fare due chiacchiere in tivù con un esponente della malandra. Ma la portinaia dello stabile in cui abitava la persona che avevo scelto mi indicò un bar vicino, dove avrei potuto trovarla. Rifiutò, con gentilezza. “Ormai sono fuori”, mi disse. Rimasi sbalordito quando al giornale mi si presentò un famoso bandito del dopoguerra, indicato con un soprannome derivante da un suo difetto fisico. Mi spiegò il motivo di quella sua visita e il mio stupore lievitò: desiderava essere intervistato da me sulla sua carriera criminale. Quando al paese dove si era trasferito raccontava le sue passare imprese non gli credevano. Dopo l’intervista nessuno avrebbe avuto più dubbi. Si fece anche fotografare. Dopo qualche tempo lo vidi al “Maurizio Costanzo show”. Quante esperienze faceva un cronista di nera, se aveva voglia di sacrificare al lavoro anche il sonno. Poi anche per me è suonata la campanella della pensione. Per la verità i primi rintocchi suonarono due anni prima, ma una corda mi teneva legato al mestiere e rimasi con l’assenso del giornale. Oggi dopo tanti anni non avverto più l’impulso di correre dietro a una notizia. Mi restano i ricordi delle notti insonni in attesa dell’esito di un interrogatorio; e degli investigatori che mi hanno dato la loro amicizia: Il questore Vito Plantone, il maresciallo Ferdinando Oscuri, l’ispettore capo Armando Sales, i prefetti Mario Jovine e Francesco Colucci, Antonio Fariello, Marcello Carnimeo, Tria, Lucchese, Sciaraffia, il capo dell’Interpol Portaccio…, il colonnello dei carabinieri (diventato generale) Sabino Battista, il generale della Guardia di Finanza Lorenzo Reale (mi regalò le sue insegne di colonnello), e tanti altri. Tra i miei ricordi, anche il capo dell’Fbi di allora William Webster, che non era un amico, ma mi rilasciò un’intervista esclusiva nel ’85 in occasione del Convegno mondiale sulle organizzazioni criminali allestito dall’Onu ad Assiago, Milano.











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