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mercoledì 8 giugno 2022

E’ morto Claudio De Cuia

POETA, SCRITTORE E XILOGRAFO

CANTO’ LA CITTA’ DEI DUE MARI

Claudio De Cuia
 

 

Se n’è andato una settimana fa. Quando

La notizia si è sparsa, moltissimi cittadini

hanno partecipato al lutto della famiglia.

De Cuia era molto amato. Tanti ricordano

i suoi pellegrinaggi nella città vecchia per

ascoltare il nostro dialetto dai vecchi

pescatori.  (Foto di Antonio De Florio)

 

                                               

 

 

Franco Presicci

Si è spento un poeta, amato e ammirato. Taranto piange un mito: Claudio De Cuia. Che l’ha cantata in migliaia di versi. Lungo l’elenco delle persone che su facebook hanno dato le condoglianze alla famiglia, oltre al gruppo “Taranto com’era”, guidato da Antonio De Florio, che ringrazio per le foto. Claudio aveva compiuto 100 anni qualche settimana fa e in quell’occasione il gruppo virtuale di De Florio, tra cui Enrico Vetrò e Antonio Fornaro, gli avevano dedicato un brindisi in una sala della biblioteca Pietro Acclavio, che una volta alloggiava nel Palazzo del Governo e oggi in via Salinella.

Inge Shoener e Franco Presicci
Diego Marturano
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non usciva da casa da tanto tempo, De Cuia, ma per quell’evento fece un’eccezione. Lo stesso Nicola Mandese, titolare della storica “Casa del Libro” di via D’Aquino, che non lo vedeva da un paio d’anni, è rimasto amareggiato alla notizia della scomparsa. Mi aveva regalato “Arie de Pasche”, che a suo tempo avevo recensito e ogni anno postavo la copertina su facebook. Era una persona riservata, Claudia, schiva, chiusa. Una volta, anni fa, entrò nel tempio di Nicola per parlare di poesia ai ragazzi, che lo ascoltarono con grande attenzione. Fu un momento in cui Claudio spese più parole che nel resto delle sue giornate. Lo conobbi nel ’58 nello studio del pittore Salinari, in via Di Palma, di fronte all’edicola Zappatore.

Mar Piccolo

A Taranto stavano girando il film “Promesse di marinaio” con Antonio Cifariello, Renato Salvatori, Nick Pagano, Alberto Bonucci, Rosario Borrelli e l’attrice tedesca Inge Shoener. Alcune scene erano ambientate in piazza Maria Immacolata, altre a San Vito, dove il “cast” si sedette a tavola per assaporare ottimi spaghetti ai frutti di mare. Ci andavamo in tanti, da Salinari: Mario Sossi, direttore del periodico “Il Rostro” e critico d’arte molto apprezzato da Palma Bucarelli, a quei tempi direttrice della Galleria d’arte moderna di Roma; Raffaele D’Addario, professore di disegno, che aveva lavorato come scenografo a Cinecittà e, rientrato a Taranto, aveva ripreso l’insegnamento e realizzava splendidi presepi in sughero in scatole di cartone, opere che metteva nella vetrina nella drogheria del padre quasi accanto alla Dreher, all’angolo tra via D’Aquino e piazza Maria Immacolata. Era l’anno in cui all’Istituto talassografico si svolse la prima edizione del Premio Taranto, che portò nella Bimare artisti di grandissimo livello, da Cassinari a Pirandello, da Cantatore a Migneco, che suscitarono le ire di qualche pittore locale, tra cui Giuseppe Pignataro, che aveva il laboratorio nell’androne di uno stabile di via Di Palma, di fronte al negozio di scarpe di Protopapa, a sua volta autore di paesaggi e ritratti eseguiti con scampoli di pelle di ogni colore (la presentazione del catalogo di una sua mostra recava la firma di Piero Mandrillo). L’oppositore più accanito del Premio era proprio Pignataro, che con l’amico Nicola De Nicolò e un paio di altri scriveva sui muri “Viva Giotto e abbasso gli sgorbi incorniciati”, spingendo il critico Oronzo Valentini a contraddirli dalle pagine de “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Claudio De Cuia
Tornando a De Cuia, lo vidi spesso, da Salinari. Io cercavo di dialogare con lui, ma ogni tentativo naufragava. Uno scoglio che non si basava sulla superbia, per carità. Un pomeriggio gli chiesi di leggere un mio sfogo in versi, una specie di sonetto, e lui, con molto garbo, si accinse a fare un “labor limae” senza esprimere giudizi, ma un sorriso cordiale. Rimasi colpito dalla sua delicatezza. Avrebbe potuto consigliarmi di buttare il foglio nel cestino; invece si comportò come un insegnante burbero, ma di animo buono, non uso a suggerire all’allievo di risparmiare inchiostro. Aveva stile, Claudio De Cuia. C’erano altri poeti del suo livello: Diego Marturano, Alfredo Nunziato Majorano, Diego Fedele, Nerio Tebano, Alfredo Lucifero Petrosillo, che per un periodo diresse “’U Panarjidde”… E c’era Marche Poll che vendeva il periodico fondato da Leggieri, andando di strada in strada, macinando chilometri ogni giorno. Un giorno mi capitarono tra le mani le relazioni di un convegno sul dialetto tenuto a San Marco in Lamis, e tra queste c’era quella in cui Claudio si chiedeva tra l’altro, retoricamente, quale fosse il tipo di dialetto da usare, se quello delle parole “ciuppenesciàte” invece de “mazziàte”, cioè quelle comprensibili a tutti, soprattutto ai giovani, o quello che ti costringe a ricorrere ad ogni parola al vocabolario. Scrivendo di un pilastro di Taranto, Giacinto Peluso (che collaborò molto con Claudio), che con Piero Mandrillo e Giuseppe Barbalucca frequentai assiduamente, telefonai a Claudio per chiedergli il motivo per cui non trovavo nel Gigante la traduzione della parola “sorriso”. “Aspìette, ca voc’a vvède sus’a quìdde de Rohlf”. Dopo aver consultato il dizionario dell’autore della “Grammatica italiana e dei suoi dialetti”, tornò al telefono per darmi la risposta. “No nge stè’ mangh’addà”. E mi elargì utili consigli. E poi, scambiandoci due parole prima di salutarci, aggiunge: “U sé’ quand’ànne tegn’je? Novamdadòje”. Un altro giorno andai a fare visita ad Angela Schena, alla casa editrice che stava, a Fasano, nella via oggi dedicata al padre, Nunzio, un uomo eccezionale, che nello stabilimento aveva ricevuto Spadolini, il Dalai Lama e altre eminenti personalità. Angela mi mostrò proprio “Arie de Pasche”, invitandomi a tenerlo. Non le dissi che lo avevo già letto, innamorato com’ero, e sono, del mio dialetto, che amo scrivere, anche perché attraverso quelle parole ricche di suoni, di armonie, di onomatopee, mi sento più vicino alla città che è stata la mia culla, “’a nàche”.

Cerimonia per De Cuia
La lettura dei versi di Claudio mi dava un senso di serenità, di pace, mi faceva volare verso i due mari, il Galeso, adorato da Orazio, da Virgilio e da tanti altri poeti moderni; il ponte di pietra e quello di ferro. Vivevo come in un sogno, e mi pesava lo scrupolo di avere lasciato quei tesori: i tramonti che si accendono sul Castello, “’u màre peccennùdde” sul quale dondolano le lampare e le paranze. Leggevo i versi di De Cuia, come quelli di Marturano e di Petrosillo, e mi trovavo nel giardino delle cozze o nella piazza Fontana restaurata dallo scultore Nicola Carrino, che tra l’altro partecipò a una Biennale di Venezia. E non mi domandavo come fosse possibile quel miracolo di ubiquità: essere a Milano e a Taranto nello stesso momento. Sapevo che quel miracolo sorge dall’amore. Quando su “Foto Taranto com’era” ho letto l’annuncio, dato da Antonio De Florio, della morte di questo poeta che lascia una traccia indelebile non solo a Taranto, ho avuto l’impulso di scrivere in versi il mio dolore: cosa da poco, come mi capita spesso, aggravata dal fatto che sono un pessimo utilizzatore di telefonini e computer, non aiutato dalla vista quando non trovo gli occhiali. Ho inserito le mie parole nel lungo elenco di cittadini che hanno reso pubblica la loro commozione, pentendoli subito dopo averli visti pubblicati. Ho telefonato a Nicola Mandese per dargli la notizia che mai avrei voluto dargli. Una notizia sconvolgente, un pugno nello stomaco, un mattone caduto sulla testa da un palazzo con il restauro in corso. 

Via Garibaldi

Tante volte avevo desiderato di chiamarlo, Claudio, ma ho sempre temuto di disturbare. Lo immaginavo nei suoi pellegrinaggi nella città vecchia, in via Garibaldi, alla Dogana (“’a duàne d’u pèsce”), ad ascoltare il dialetto dalle labbra screpolate dei vecchi pescatori, che ancora oggi dicono “’mbòte” per tasca, “schìfe”, per barca, sineddoche sonora, almeno per me, che preferisco parlare “accùme m’hà’ fàtte ‘a màmma mèije”, anche a Milano, la terra di Carlo Porta. Per gioco, sollecitando un collega a cui avevo promesso un caffè al bar di fronte al giornale (che aveva la sede nel Palazzo dell’Informazione, dove Mussolini confezionava “Il Popolo d’Italia”) dissi: “Ce ama scè sciàme…”. Il collega, Nino Gorio, bravissimo camuno, basso, camminata da montanaro, ermetico nel viso e nella parola, ma con il cuore in mano come Milano, rimase colpito dalla frase e la fissò nella memoria, pretendendo la traduzione.

Nicola Giudetti con il trapano d'u conzagraste
Una quindicina di giorni dopo mi ripetè pari pari l’espressione e mi impose di impararla in bresciano. “No, io uso soltanto il mio dialetto, non faccio parte della categoria di pugliesi “contrabbandieri” che assorbono il meneghino per non fare scoprire la propria origine. Pratica stigmatizzata anche da Giuseppe Giacovazzo (aveva collaborato con Paolo Grassi per qualche anno nel capoluogo lombardo) nel suo libro “Puglia il tuo cuore”. Gorio, anche lui partito per altri lidi, mi invitò a deliziarlo con frasi del vernacolo della città delle cozze. Lo accontentai, declamando alcuni versi di Claudio, ma poi capii di essere stato un gigione che il capocomico Arturo Vetrano, della compagnia di varietà che sbarcava allora a Taranto, all’Arena Corallo e non solo, mi avrebbe depennato dall’elenco dei suoi attori. Ma dopo la traduzione Nino si commosse. Nei giorni scorsi li ho sentiti recitare da Antonio Fornaro, che fa coppia con Antonio De Florio nei video di “Taranto com’era”.

De Cuia alla sua festa
Poeta, scrittore, xilografo, Claudio De Cuia era tra l’altro socio della Società di storia patria per la Puglia. Tradusse in dialetto “La Divina Commedia”, scrisse “Pasche e Primavere”, “Ore, ‘ngienze e mmirre”, ”’U Briviarie d’a nonne”, “Vecchia Suamana Sande”, “Vocali e consonanti nel diaetto tarantino”, gli accadimenti storici di Taranto. Insomma, con lui si è spenta una voce appassionata e autorevole della nostra città e a me piace salutarlo azzardando: “Te n’è sciùte citte-citte, all’andrasàtte/ pegghiànne l’ùrteme trène mmèr’u cìele/ addò vònne le grandòme accum’a ttèje/ E’ cundàte Tarde nuèstre cu ‘a pènne e c’u còre/ indr’a “Arie de Pasche” le travàgghie de Gese Criste/ e po’ indr’ a ‘na mòrre de suspìre / ‘a beddèzze d’u bùrghe andìche/ ‘u màre peccennùdde, ‘u canale ca ‘u ‘nzòre cu Màre Grànne/ Mò’ hà’ rrevàte ‘a sènza nàse”/ è t’hà’ purtàte affòrze appìess’a jèdde/ sènza dìcere nìende a nesciùne/ U sé’ ca è fàtte scevulà’ tanda gòcce sus‘a fàcce de ci te vòle bbène?/ Nesciùne te po’ scurdà’ acqu’abbàsce”. Parole non da poeta, perché tale non sono, ma da estimatore che un poeta vero, grande, accoglierà con benevolenza, se lassù potrà leggerle. Ora sento dire che la domenica mattina si fermava a parlare con Diego Marturano sul dialetto e a volte andava in quella specie di piccolo museo di antiche cose tarantine che Nicola Giudetti, pittore e autore di una ricostruzione dei “Misteri” in gesso, ha in via Duomo nella città vecchia.




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