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mercoledì 22 giugno 2022

Un vecchio, prezioso libro di Gino Angiulli

Gino Angiulli
 

SCOMPARSI

OVUNQUE DALLE

STRADE

I VECCHI, CARI

MESTIERI

AMBULANTI


 

Passavano urlando e le massaie accorrevano

per farsi aggiustare le sedie o farsi molare le

forbici o i coltelli o riparare il lume a petrolio

usato quando non c’era ancora la luce elettrica.

Gli ambulanti aprivano la scatola degli attrezzi,

si sedevano sul marciapiedi e si mettevano al

lavoro.

 

Franco Presicci

Sono passati molti anni da quando si sono spente le voci degli artigiani ambulanti che reclamizzavano urlando il loro mestiere, facendo sbucare le massaie dai portoni degli stabili. Ad Alberobello, a Taranto, a Martina Franca, in tutto il Sud e nel resto del Paese non passano più il calderaio, l’affilatore di forbici e coltelli, il venditore di pampanelle, il riparatore di sedie…

Dal libro di Angiulli, il calzolaio

E non c’è più il calzolaio che lavorava seduto al deschetto, sostituito dalle macchine introdotte dal progresso e dalla nuova abitudine di buttar via ciò che è vecchio e non serve più, rimpiazzandolo con ciò che spicca nelle vetrine dei negozi. Gino Angiulli, attento, appassionato, paziente e meticoloso ricercatore dei fatti, dei personaggi, degli oggetti, delle abitudini del tempo andato, ha attraversato mille strade per incontrare i sopravvissuti delle varie categorie o i vegliardi dalla memoria inossidabile per farsi raccontare vita e fatiche di queste figure, che di volta in volta pubblicava su “Umanesimo della Pietra”, l’interessante rivista diretta a Martina Franca da Nico Blasi. Ne ha trovati parecchi e ha scavato nei loro ricordi. Ha quindi raccolto la mietitura in un libro ricco di notizie, uscito nel 2009 grazie alla disponibilità dello stesso Blasi. La pubblicazione mi era sfuggita, e quando anni fa intervistai nella città delle case a cappuccio, ad Alberobello, Angiulli, su un’altra sua opera riguardante i modi di dire nel dialetto del suo paese (P’ Mod D’ Dèisc”) questa raccolta, “Mestieri tradizionali estinti o in via di estinzione ad Alberobello e nella Murgia dei trulli”, era ancora di là da venire. L’ho scoperta in questi giorni, quasi per caso.

Copertina libro
L’ho divorata, cominciando dalla prefazione, precisa e circostanziata, scritta nel solito stile severo e godibile dal direttore di “Umanesimo”, nemico della retorica e del compiacimento. L’opera di Angiulli è davvero preziosa, anche perché contiene molte informazioni sull’attività di questi artigiani e anche sulla storia dei loro mestieri. Il taglia vermi, per esempio, che poteva essere maschio o femmina. Angiulli entra nei particolari, descrive le varie fasi dell’attività e rammenta una sua esperienza personale affrontata quando era ragazzo: “Oltre a passarmi i dolori di pancia provavo in quei momenti una sensazione di calma e di benessere”. Dice anche come si fa ad apprendere quest’arte, se si ha la fortuna di trovare la persona disposta ad aprirsi. Chi esercitava questa attività ne era gelosissima. L’ereditava dal padre o dalla madre e se era il caso ne trasmetteva le modalità e i segreti a un conoscente fidato soltanto in un certo giorno. 

Trulli di Alberobello

Al centro camastre e trapano d'u conzagraste

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ad Alberobello circolava “U capeddère”, nome Francesco Pontrelli, data di nascita 1883, di morte il 1962. “Una volta la settimana sempre lo stesso giorno, perché negli altri si recava nei paesi vicini, transitava per le strade e per i vicoli… facendo echeggiate il suo caratteristico grido “Capille per l’aghe” (capelli in cambio d’aghi). Le casalinghe accorrevano per scambiare i propri capelli con oggettini di vario uso. La maggior parte delle donne un tempo aveva capelli lunghi, che acconciati a trecce venivano raccolti sulla nuca fissati da forcine,“i ferrettèine, nella tipica crocchia (tupp)”. E così via con tanti altri dettagli, dai quali riemerge la vita quotidiana dell’epoca. “U surgiauròule”, che in Italia e nel mondo faceva parlare spesso i giornali del pericolo di cui i topi sono portatori.

E riporta i titoli delle cronache, e le stesse cronache, diffuse dai quotidiani di mezzo mondo: “Giardini e piazze i topi ballano”; “Salverò New York dai topi”; “Scuola, l’assedio dai topi”. “In India da qualche anno è forte il timore del ritorno della peste”. “Negli Stati Uniti hanno già previsto che nel 2020, se non prima, i topi diventeranno una delle più gravi calamità del nostro pianeta”. “In Australia è guerra totale”. E aggiunge che nel nostro Paese “pochi ricordano la figura del contadino specializzato, che nelle contrade era considerato il nemico numero uno, lo sterminatore dei topi campagnoli”. Qualcuno ricordava il pifferaio magico. E l’accalappiacani? Io ce l’ho ancora in mente. Chissà quante volte spuntava nella mia via, a Taranto, spiando dall’angolo con via Dante per vedere se vi stazionava qualche Fido da prendere al laccio. Se noi ragazzini lo sbirciavamo,ci mobilitavamo per mettere in salvo l’animale. Una beffa che alcune volte riusciva. 

Il sediaio
Nelle case di una volta c’erano tanti oggetti di terracotta: piatti, “capase”per tenerci melanzane sott’olio, alici o peperoni sotto sale (oggi nelle nostre cucine non si usano più). E quando subivano una “ferita” interveniva “u conzapiattèreròtte”. A Taranto si chiamava “conzagraste”, che con il trapano a mano di legno “munito di punta acuminata di metallo, ai margini della rottura faceva dei buchi cucendo con fil di ferro. Lavorava acculato sul marciapiede della casa della committente e alla fine – informa Angiulli - veniva remunerato con denaro o con generi alimentari. Squillavano anche le voci dell’aggiustatore di sedie, del canestraio, del calderaio, dell’ombrellaio. Il trainiere si occupava del trasporto di ogni tipo di merce comprese le angurie che andava a prendere alle “Caggiune”, una zona periferica della città, per portarli al mercato. Una decina di anni fa ne ho visto uno sulla vecchia strada per Noci, a Martina, precisamente in via Papa Domenico, ma aveva il cassone vuoto. Chi dimentica il carbonaio, che nella mia città, alle Tre Carrare, aveva il deposito in via Dalò Alfieri e vendeva anche il petrolio per i lumi prima dell’avvento della luce elettrica. Quando si rompeva la campanao difettava il becco o si consumava ‘”agazzettelle”, si aspettava “’u conzalùme”, che vi provvedeva. Giacinto Peluso ha ritratto molto bene questi oggetti che illuminavano le nostre abitazioni. E poi c’erano folle di ragazzi, che nella città vecchia e oltre vendevano in strada per 5 centesimi foglietti colorati con i numeri del lotto appena usciti.
 
dal libro 'u conzagraste

Pialletto p'ù gràtta-gràtte
Tutti scomparsi, anche quello che tra via Dante e via Giovan Giovine a Taranto preparava “’u gratta-gratte”: cristallini di ghiaccio ottenuti con un pialletto da un lungo blocco, messi in un bicchiere e innaffiati di essenze di limone, di arancia… Un mondo intero sparito. Nel libro di Gino Angiulli, leggiamo tante annotazioni storiche che fra l’altro indicano le dimensioni della sua fatica d’investigatore:”Dal punto di vista della scienza e della tecnica, una delle epoche più feconde dell’intera storia dell’umanità fu quella dei sumeri (3.000-1900 a. Cristo), perché fu presso questo popolo che assunsero capitale importanza gli artigiani di ogni genere: tessitori, sarti, fabbri, falegnami, scalpellini, fornai…”. 

Il carrettiere

 

Il testo è intervallato da tante immagini d’epoca: un cavallo “cu le uardemìende” realizzati da uno specialista: “u guardemedère” nel dialetto locale. Segue la storia di quel popolo e uno stralcio dell’Iliade: “Curarono i cavalli e li aggiogarono, li vestirono con splendidi finimenti, misero il morso tra le mascelle, tesero le redini, verso il carro ben connesso…”. Quindi una poesia sul calzolaio con il deschetto e foto d’uno di questi nella sua tradizionale bottega di Ostuni. “U scarpère, poverièdde/ Sèmbe azzèise au bangarìedde i prepère i capetìedde/ ticche i tàcche, ticche i tacche/ U scarpère mètte i tacche/ I a ccevole/ Mètte poure i mènz sole…”. 

La forma del calzolaio
 
 
 
 
Ed ecco una foto con le forme di ferro sulle quali si eseguivano tutte le riparazioni, e gli altri attrezzi, cominciando dalla “sugghie”. In un’altra pagina ciò che serve al lavoro del sellaio: bucatrici, tenaglie, foratrici… Angiulli racconta anche i frantoi; i palmenti in cui l’uva si pigiava con i piedi; lo stagnaro e i caratteristici monaci, copri fumaioli girevoli. Nella prefazione Blasi scrive che “vanificata dalle mode e dalle novità indotte dalla galoppante evoluzione tecnologico-scientifica, la sapienza di quella cultura non è stata, però, presaga del proprio futuro, perché ha ormai finito di innervare comunità urbane e rurali…”. E a Milano? Qui c’erano i venditori ambulanti di castagne, polli, ghiaccio, fragole… Questi ultimi gridavano: “Fresche e belle le magiostre”. E c‘era Gigi de la gnaccia, il primo toscano impegnato nella vendita del castagnaccio. Gli studiosi parlano di “quel del cafè del geneoeucc”, cioè il caffè ottenuto con i fondi di altro caffè. Questo ambulante si piazzava dalle parti di piazza Duomo e serviva i nottambuli e anche chi esercitava i mestieri più umili, come lo spazzino, al lavoro già all’alba, e qualche passeggiatrice. Volatilizzati anche gli spazzacamini, gli“ombrellèe”, il banditore che “in su la piazzael ‘rivava/ a son de la tromba/ la gentciamava…” e leggeva gli ordini dell’autorità. Un mondo muore, ne nasce un altro, si dice: “Si stava meglio prima”. Bah! Avrei chiesto il parere di Gino Angiulli. Di sicuro questa che ho davanti è un’opera di grande interesse. Angiulli aveva un grande desiderio d vedere riuniti in un volume le chicche che andava pubblicando su “Umanesimo”. Nico Blasi gli fece una promessa e la mantenne. Ed eccolo su “Umanesimo”, uscito dalla tipografia di Artebaria. Ci sono libri che vanno riletti.



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